Inside Out. Emozioni-pulsanti

6 Ottobre 2015

Appena uscito, mi sono precipitata a vedere Inside Out, da grande amante del cinema di animazione quale sono. E naturalmente non ne sono stata delusa, c’era tutto il corredo delle trovate che mi rendono questo genere congeniale e gradito: ecco il personaggio della Tristezza, per esempio, un vero crocicchio di motivi: il collo alto degli esistenzialisti francesi; la ciccia come in Bridget Jones e naturalmente “blue”, cioè del colore il cui nome in inglese indica anche uno stato d’animo depresso o addolorato. E poi l’amico immaginario, un insieme di animali diversi come l’ornitorinco studiato da Umberto Eco ma meno filosofico, essendo costituito da deliziosi sfilacci di zucchero filato rosa. Insomma mi sono goduta il film, contenta anche che si parlasse finalmente di emozioni, in un mondo formato Wikipedia dove tutto sembra ridursi a cognizioni o peggio, a intelligenze artificiali. Ma scesa dalla giostra mi sono interrogata sulla visione del mondo, dell’individuo e della società che questo film veicola.

 

Da almeno un paio di decenni si parla di fine delle ideologie ma niente e nessuno può sfuggire al fatto che la realtà, comunque si la si guardi, la si “taglia” secondo qualche punto di vista. La morte delle grandi ideologie ci ha reso ciechi a questo fatto ineliminabile e quindi le visioni del mondo passano, eccome se passano, attraverso discorsi politici, romanzi, film, mode, senza che ne siamo consapevoli o senza che prestiamo loro alcuna attenzione. E la visione del mondo (in semiotica diremmo il discorso, e i suoi valori soggiacenti) che passa attraverso questo film è abbastanza sorprendente, se ci si pensa. Non entro in argomenti tecnici, da psicologo o psicoanalista, aspettiamo appunti i pareri tecnici per capire se questo film, come dicono, sia così attento agli “aspetti scientifici”, qualunque cosa questa espressione significhi. Quello che io vedo, dal punto di vista narrativo, è una protagonista che viene continuamente osservata ma non come soggetto autonomo bensì come “personaggio” da far muovere e reagire tramite una pulsantiera. Come per gli eroi e le eroine dell’epica e della tragedia, prima dell’homo faber del Rinascimento, c’è una specie di Olimpo in formato cibernetico che presiede a ogni singola mossa di questa bambina, dalla culla al campo da hockey.

 

L’idea-base quindi è quella di un assoluto determinismo psichico dove la capacità di autodeterminazione del soggetto, in quanto soggetto (l’Io, il cavaliere in groppa al cavallo-Es, nella metafora freudiana) semplicemente non esiste. Vediamo ora di che natura sono queste forze interne che muovono in modo identico sia gli esseri umani che gli animali (anche su questa equiparazione stretta, proposta nella sigla finale, si potrebbe riflettere a lungo). Si tratta di cinque adorabili creaturine, Paura, Disgusto, Rabbia, Gioia e Tristezza, che vanno sempre d’accordo fra loro perché hanno in mente, seppure ognuna con strategie proprie, la salvaguardia e il benessere di Riley, la bambina protagonista. Un assetto totalmente “buonista” dove le forze distruttive, l’aggressività tremenda che ha portato la specie umana a diventare dominante sul pianeta, semplicemente non esistono. Al massimo si può avere uno sbotto di rabbia (rossa, naturalmente) ma ci chiediamo che dimensioni doveva avere quel tappo spugnoso un po’ iracondo nella pulsantiera di Goebbles. La gioia coopera con la tristezza per il ravvedimento finale della protagonista e lì c’ero arrivata anch’io, si tratta della posizione depressiva elaborativa, che fa crescere le persone e superare le crisi proprio perché si abbandona una posizione euforica, maniacale. Ma se si guarda al personaggio della Gioia, una specie di Campanellino svolazzante con un’allegra positività degna di Milly Carlucci, allora viene da riflettere su che cosa è massimamente buono in questo mondo: la bambina nasce, è accudita da due genitori che l’adorano fin dal primo momento e la fanno soprattutto tanto divertire. I due nuclei principali della personalità emergente di Riley sono le isole della “Famiglia” e della “Stupidera” (chiamate così nel film). Il raggiungimento della felicità intesa come divertimento, mancanza di preoccupazioni, gioco, sembra quindi il massimo della vita, secondo i dettami dell’edonismo che imperano nella cultura di oggi.

 

Il Senso Morale, altra isola della personalità, la bambina se lo forma da sola, mostrando ai genitori il martello con cui ha appena rotto un vaso: quindi qui passa un altro pezzo da novanta, e cioè che il senso morale sia innato e non frutto dell’educazione. Questi genitori un po’ grulli guardano la loro pupattola con occhi amorevoli ma non impartiscono mai un insegnamento restrittivo, se non quando sono preda della rabbia (e con tanti sensi di colpa poi, ovviamente, come nella scena in cui il padre la manda in camera sua perché è stata poco rispettosa). L’immagine educativa che ne esce è quella di genitori impegnati sempre e solo, in perfetta sintonia con il personaggio interno della Gioia, a rendere felice la bambina, ad accompagnarla nelle varie fasi della sua esistenza (lo sport, il gioco, la scuola, il trasferimento in altra città) cercando di mantenere salda la sua capacità di essere felice. Non ci riescono, perché la realtà impone i suoi diktat, devono trasferirsi a San Francisco, la bambina ne soffre, tutte le sue certezze interiori crollano, scappa di casa, ecc.

 

Ma cosa fanno i genitori, a quel punto, se non assistere impotenti all’imperio di forze interne semplici, primordiali: rabbia, paura, ecc.? È l’educazione al sentimento, a modulare queste emozioni semplici in senso sociale, in senso inter-relazionale, attraverso anche strumenti culturali come potrebbe essere un libro per bambini, un discorso un minimo articolato (la bambina nel frattempo ha undici anni, non pochissimi, potrebbe essere anche in grado di capire). In un mondo dove conta la semplificazione emotiva e la felicità a tutti i costi, dove il senso morale è una facoltà innata che può però assopirsi, in cui l’aggressività è umorale, velleitaria e mai davvero pericolosa, la capacità del pensiero e del dialogo sono nulli. La fuga della bambina da casa è un grande fallimento dei genitori e viene rintuzzata solo quando la Gioia, ad un certo punto, riesce a far fronte comune con la Tristezza cosicché, in base a un puro automatismo interiore, la consapevolezza della perdita si faccia finalmente strada in Riley inducendola a tornare a casa. I genitori-giullari non hanno modo di raggiungere la bambina perché fino a quel momento sono stati appunto impegnati unicamente a giocare con lei. Il pensiero astratto, che ugualmente dovrebbe essere una risorsa nascente per una ragazza di quell’età, è bollato nel film come una zona a cui si accede varcando una porta su cui c’è scritto “Attenzione, molto pericoloso”: l’astrazione è definita come “scorciatoia” e come campo di una progressiva perdita di volumi, di concretezza, di vitalità e di verosimiglianza. E anche qui passa una carrettata di metafisica influente: solo il pensiero concreto è sano, vitale e va coltivato. Tutto ciò che è astratto è dannoso se non pericoloso: idea che è passata benissimo, visto che nelle nostre classi universitarie e scolastiche i ragazzi non riescono più a fare un passaggio logico o un’operazione di aritmetica. Infine la rappresentazione dell’apparato psichico: un intrico di tubi dove si depositano i ricordi, miriadi di sfere colorate, ciascuna con il proprio ricordo dentro, come in un enorme distributore di caramelle. Ma i legami fra i ricordi, la plasticità del cervello, la dinamica riorganizzativa continua che lo contraddistingue? E l’inconscio, rappresentato nel film come un territorio fantasy oscuro e pericoloso, in che rapporto sta con la luminosa libreria-bomboniera in cui sonnolenti addetti immagazzinano, o distruggono, sfere autonome di memoria?

 

Luca Raffaelli, nel presentare questo film su Repubblica gli dà sei-pallini-sei e lo definisce “grandioso, profondo eppure popolare, arguto eppure semplice” con “sincero amore per il meraviglioso e imperfetto genere umano”. È un prodotto di animazione di altissimo livello, gradevole e interessante, senza alcun dubbio. Ma non mi sembra, per le cose dette fin qui, e su cui ovviamente si può non essere d’accordo, che creare un giovane soggetto etero-diretto, che non dice mai “io”, sia segno di amore per il genere umano. Quanto alla pedagogia suggerita, è esattamente quella circolante, quindi godiamoci il film in santa pace, i danni sono già stati fatti e non dalla Disney Pixar.

 

 

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