The Hateful Eight e la fragile arte di essere umani

7 Marzo 2016

Dopo tre ore di schizzi di sangue e materia cerebrale, si raccolgono le proprie cose miracolosamente intonse e si torna a casa promettendo che questo sarà l’ottavo e ultimo film di Tarantino, almeno per noi. Perché è indubbio che dopo il sontuoso inizio, bordato dalla musica più sinistra che il maestro Morricone ci abbia regalato, c’è in The Hateful Eight un crescendo granguignolesco difficile da digerire se hai passato i vent’anni e non sei stato mitridatizzato da dosi quotidiane di violenza da quando eri alla scuola materna. E quindi, proprio da questo senso di eccesso, nasce la domanda: perché? Al servizio di quale discorso?

 

La risposta, in questo caso, mi è arrivata rapida e abbastanza convincente, nel senso che alla sua luce tutto sembra quadrare, almeno ai miei occhi. Non è vero che il film di Tarantino sia un inutile e cinico divertissement sulla violenza, sulla amoralità, ecc. Le carte sono dispiegate con chiarezza e dovizia sul tavolo, non c’è grande profondità ma nemmeno gratuità. Metto in guardia chi legge e non ha ancora visto il film (e abbia intenzione di vederlo): quello che dico potrebbe rovinargli la visione perché, per dipanare la mia breve analisi, devo considerarlo tutto, finale compreso. Parto dai personaggi: si dividono in tre categorie: i cacciatori di teste, che ammazzano o portano alla forca assassini, in cambio di denaro; i banditi, che ammazzano per denaro; la gente per bene, che non ammazza nessuno e si limita a guidare diligenze, condurre empori, giocare a scacchi, ecc. Su tutto aleggia un grande pregresso, la guerra civile americana, nel corso della quale, si scopre dai discorsi dei protagonisti, tutti hanno ammazzato tutti, bianchi, neri, prigionieri, carcerieri, e prima ancora nativi americani a iosa, con unanime beneplacito. La guerra civile funge da grande antefatto di ecatombe “legale”, all’ombra di poteri legittimi, eserciti organizzati, gerarchie, medaglie, anche se di controverso valore. Legale è anche ora, in tempo di ritrovata pace, l’assassinio da parte dei cacciatori di teste, che non fanno che ripulire a pagamento la società. Altre figure della legalità presenti sulla scena sono il sedicente boia, Oswaldo Mobray, impersonato da Tim Roth, e il sedicente futuro sceriffo Chris Mannix, interpretato da Walton Goggings. Circa a metà film, Mobray fa quello che tecnicamente, nell’analisi semiotica, si chiama “un discorso sui valori”: mette cioè in chiaro, esplicitandoli, quali sono i temi d base di cui il film sta trattando. Dice che c’è gente che ammazza per legittima difesa, o per togliere di mezzo un criminale, come fa lui con perizia spassionata. Ma, argomento, nel Paese è ammessa anche una “giustizia di frontiera”, quando qualcuno si trova in territori di confine, fuori dalla diretta giurisdizione di un’autorità specifica, e uccide per sopravvivere in circostanze difficili. E poi esistono invece gli assassini, quelli che si pongono fuori dalla legalità. Fine del discorso sui valori. Da tenere a mente però, perché dà un senso coerente a tutto il film. 

 

Nella seconda metà della pellicola si scopre che la gente non violenta, chiara metafora della società civile, è stata spazzata via senza alcuna pietà: non c’entra che la biondina che guida i cavalli sia giovane e cordiale; non c’entra che Minnie faccia buone torte e accolga tutti nel suo emporio durante la bufera di neve. Intralciano un piano, e quindi devono essere schiacciati come insetti. La loro umanità è ininfluente al cospetto dell’interesse della banda di Daisy che si pone in questo modo totalmente al di fuori di ogni ordine. A ben guardare è la logica di ogni genocidio: l’umanità della vittima non esiste. I cacciatori di teste e il futuro sceriffo sono invece, come si è detto, dei “cattivi legali” e mantengono per tutta la storia un curioso surplace, sempre lì lì per farsi la pelle ma sempre risparmiandosi, e aiutandosi, a partire dall’inizio quando vengono accolti sulla diligenza scampando da morte sicura per assideramento. Il film ruota quindi intorno al problema della legalità o meno della violenza: fino a che punto, o in che circostanze, un assassinio è giustificato, è ancora previsto dalle leggi che un consesso umano si dà per sopravvivere come tale?

 

A una lettura superficiale, l’epilogo del film sembra propendere per una sorta di nichilismo: tutti sono violenti, nessun ordine è possibile. Ma Tarantino è più complesso di così. C’è, come dice lo pseudo-boia Mobray, una giustizia di confine ed è lì che si fanno i giochi: la difficile sopravvivenza di una società umana dipende dal confine che ogni volta si dà fra ciò che è legale e ciò che non lo è; da quanto la brutalità, l’egoismo, la legge spietata dell’interesse negoziano con le ragioni di un interesse comune, o magari con una banale, transeunte, fragile pietà momentanea. Persino la cattivissima (ma simpatica, a suo modo) Daisy, protagonista femminile cui spetterà una fine particolarmente crudele, guarda negli occhi con amore il fratello ritrovato, prima che lo stesso le venga letteralmente spalmato addosso. L’amore interpersonale (fraterno, in questo caso: riferimento a Sofocle?) non regge al di fuori da una tutela più ampia, di tipo sociale, ci dice la storia. Se crei l’inferno, l’inferno ti inghiotte, assieme a quello che hai di caro. Non dimentichiamo che gli ultimi due a sopravvivere sono il nero Marquis Warren e l’aspirante sceriffo: sopravvivranno? La domanda più profonda è: sopravvivrà quel barlume di legalità che i due rappresentano? Bellissimo il finale. La lettera di Abramo Lincoln al maggiore Warren mette in campo in modo figurato un altro tema importantissimo: il rapporto fra le alte sfere, fra gli alti ideali di un popolo e il popolo stesso. Il presidente, ciò che rappresenta, la sua stessa umanità (il riferimento “alla cara vecchia Mary” che lo chiama a dormire, frase inventata, come tutto il resto, ma che commuove tutti coloro che leggono la lettera) non hanno alcun rapporto reale con il protagonista. La presunta lettera di Lincoln l’ha scritta lo stesso Marquis, è un ingegnoso falso che ha sfruttato varie volte come lasciapassare.

 

Nell’ultima scena del film, l’aspirante sceriffo Mannix, probabilmente morente, la rilegge a voce alta, poi l’appallottola intingendola di sangue e dicendo che è stata ben congegnata: puro esercizio di stile, forse, ma degno di apprezzamento. Ed ecco la chiusa geniale del film, che ha un serio valore politico: non sappiamo se la violenza può trovare un confine legale, probabilmente le guerre difensive, le esecuzioni capitali, le “legittime difese” sono fatte della stessa materia degli orrori che vogliono combattere. Però gli esseri umani “se la raccontano bene”, immaginando mondi dove i presidenti scrivono a disgraziati ufficiali di colore, per di più degradati; e le Minnies fanno i loro ottimi stufati, almeno finché la storia, o la Storia, non si abbatte su di loro come una mannaia. Il discorso del film non è quindi affatto cinico come dicono alcuni. Rappresenta la fragilità del patto sociale ma anche la resistenza di un patto umano più intermittente e arbitrario, ancora una volta fra bastardi senza gloria che però stanno dalla parte giusta; un patto che resiste malgrado tutto, al di là della morale, dei principi, delle ideologie, nello spazio di un battito d’ali fra una premuta di grilletto e l’altra.

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