La bomba atomica e la sindrome del bystander
Quello che sta accadendo – l’attacco diretto degli Stati Uniti all’Iran, successivo alla rappresaglia israeliana – non è una notizia di politica estera. Non lo è perché un conflitto nucleare, se dovesse divampare, non riconoscerà confini territoriali, e finirà per annientare moltitudini di corpi e di ecosistemi nel nostro presente infame e nel tempo massimamente espanso delle mutazioni genetiche, che faranno espiare il futuro. Nessuna porzione del mondo è davvero al riparo. Anche noi italiani, nel nostro territorio che ci sembra incolume, ne verremmo colpiti, in gradi di intensità variabili: perché un disastro planetario non è un disastro universale, e uno degli aspetti più crudeli del fallout è che si distribuisce in modo collettivo ma asimmetrico, colpendo tutti fino a un certo punto, ma con un effetto più nocivo su alcune comunità, su specifici luoghi, su determinati organismi.
Ma non è solo l’universalità potenziale del danno a renderci partecipi. L’Italia è parte della macchina bellica. Il nostro suolo ospita armi atomiche americane nell’ambito della NATO. Questo ci colloca in una posizione ambigua: ufficialmente impegnati nella non proliferazione e nel disarmo, ma allo stesso tempo pienamente integrati in un sistema strategico che include l’arma atomica come deterrente e oggi, più esplicitamente, come strumento di pressione. In caso di escalation tra Washington e Teheran, ormai non più ipotetica ma in atto, l’Italia rischia di essere trascinata in un conflitto che coinvolge le potenze nucleari, pur senza essere un attore armato in senso proprio.
Eravamo in tanti a pensare che la minaccia nucleare fosse obsoleta, una reminiscenza della guerra fredda. E invece eccola che ritorna a farci fibrillare all’unisono i nervi. Ma con una differenza cruciale: allora era un deterrente, oggi è parte del discorso e della pratica della guerra preventiva. I nuovi arsenali, più sofisticati e mirati, convivono con una soglia più bassa di allarme e con una narrazione pubblica che ha anestetizzato il terrore. Eppure le domande restano le stesse: qual è il ruolo dell’Italia in questo scenario? Può una nazione che ospita testate nucleari considerarsi neutrale? Nel 1987 Primo Levi aveva già descritto questa condizione con inquietante lucidità: «il pacifismo è ormai accettato dalla quasi totalità della popolazione [...] tuttavia alberghiamo spaventosi arsenali nella speranza (non so quanto fondata) di non doverli usare mai». Era il riconoscimento di una colpa distribuita, di una complicità diffusa. Oggi, nel contesto di una nuova guerra in Medio Oriente, che vede il coinvolgimento diretto di Washington e l’assenza totale di una politica estera europea autonoma, queste parole preservano intatta la loro capacità diagnostica. La nostra responsabilità non si misura più solo nei termini della partecipazione attiva, ma nella mancanza di opposizione, nella convivenza silenziosa con quel che sappiamo essere distruttivo.
Questa posizione laterale ma strutturalmente implicata reclama un nome: vorrei chiamarla “sindrome del bystander” – un termine intraducibile, che in italiano è stato reso malamente come “spettatore”, ma che porta con sé una implicazione morale ben più torbida. La figura del bystander è quella di chi assiste, apparentemente in disparte, a un evento catastrofico, ma in realtà ne è parte: perché ne trae beneficio, perché lo rende possibile, o perché non lo contrasta. Una poesia di Seamus Heaney dedicata alla guerra civile irlandese lo dice con tre versi: «No such thing / as innocent / bystanding». Non esiste spettatore innocente. Passività e innocenza non sono sinonimi: anche l’inazione è una forma di coinvolgimento. Lo storico Michael Rothberg ha elaborato questa intuizione nel saggio The Implicated Subject, dove denuncia l’astrazione concettuale della nozione di bystander come soggetto non coinvolto: nella maggior parte dei casi si tratta invece di una posizione moralmente compromessa, anche se non criminalmente colpevole. Quel saggio prende le mosse dalla constatazione che il nostro vocabolario concettuale per comprendere il potere, il privilegio e la violenza non sia abbastanza capiente e preciso. Come definire la propria compromissione con forme di sfruttamento lontane nello spazio e nel tempo? In che modo si è implicati in eventi che sembrano porsi oltre la capacità d’agire individuale? Le categorie di colpa e innocenza sono insufficienti; così come quelle di distacco e disinteresse. Esistono soggetti implicati che non commettono il danno ma ne traggono profitto o vi sono strutturalmente connessi. È in questa zona grigia della responsabilità che si trova l’Italia.

È per sondare questa zona grigia della responsabilità che vorrei evocare una delle voci più abrasive della nostra tradizione letteraria: Dino Buzzati. A differenza di altri intellettuali italiani, come Carlo Cassola e Alberto Moravia, Buzzati non fu mai attivista politico in senso stretto. Ma attraverso la sua scrittura visionaria individuò il nucleo morale della minaccia atomica. Nel 1954, riflettendo su un test nucleare americano nell’atollo di Bikini, scrisse che il vero pericolo non era la bomba, ma l’assuefazione alla sua esistenza. L’idea che la bomba non facesse più paura. Che l’essere umano, di fronte alla possibilità della distruzione totale, trovasse sollievo e liberazione, scivolando nell’atteggiamento psicologico da “fine del mondo”. Questo è il rischio maggiore. Perché «una sciagura che colpisce tutti» – scriveva Buzzati – «perde gran parte della sua terribilità». Contro questa anestesia delle coscienze la letteratura ha un compito: rendere di nuovo spaventoso ciò che è stato normalizzato.
Buzzati lo fa con due strategie. Prima di tutto miniaturizza la catastrofe, in modo che i suoi effetti smisurati possano essere compresi, invece di finire relegati nel dominio dell’impensabile. E poi quella stessa catastrofe la personalizza, mostrando che il pericolo non riguarda un’opaca e astratta umanità, ma riguarda il singolo individuo: riguarda me e te, proprio adesso.
Nel racconto L’atomica dei poveri (1951) un giovane contadino costruisce in casa una bomba atomica rudimentale che fa esplodere una flotta in miniatura. Dai modellini emergono puntini neri che si dibattono con disperato affanno, poi uno a uno muoiono. Ogni puntino è un essere umano. Ogni fiammella, una strage. Rimpicciolendo le proporzioni della catastrofe, Buzzati rende intellegibile ciò che per la sua smisuratezza non potrebbe essere percepito: le cifre abnormi delle vittime di Hiroshima e Nagasaki, le potenziali assurde cifre delle future vittime della guerra nucleare totale. La riduzione in scala rende palpabile la dismisura della distruzione e acutizza la consapevolezza di ciò a cui il nucleare riduce l’uomo: un essere infinitamente uccidibile, l’irrisorio membro di una specie destinata massivamente allo sterminio.
Nel racconto All’idrogeno (1954) la bomba viene recapitata per posta in un condominio. Gli inquilini tremano, ma presto capiscono che non è per tutti. È per uno solo: per il narratore. E allora si rasserenano, lo guardano con gioia feroce. Si sentono salvi. E lui capisce: «il cassone con l’inferno dentro» è per lui solo. Il racconto diventa allora un’allegoria spietata dell’indifferenza, della rimozione selettiva, della complicità. Mentre la bomba viene issata su per le scale, una fisarmonica suona La vie en rose. La musica della rinascita dopo la seconda guerra mondiale si sovrappone all’anticipo dell’annientamento, in un contrasto che è tutto politico. Il racconto diventa così una meditazione scorata per i destini delle vittime – destinatarie dell’«esclusivo dono» della bomba – e una riflessione sulle implicazioni morali della distanza. Assenza di compassione per chi è stato colpito e annientato, e sollievo per la propria pelle salvata: in una manciata di pagine sature di elementi soprannaturali, Buzzati ci spinge a pesare la responsabilità di un posizionamento sia geopolitico che morale.
Il senso profondo del bystander è tutto qui. Nell’allegria di chi guarda l’altro morire, sollevato di non essere stato scelto. Ma nessuno è escluso. Nessuno è lontano dalla bomba: perché nessun conflitto nucleare è locale. L’attacco americano all’Iran, che segna un passaggio irreversibile in questo nuovo scenario di guerra, è la conferma che non esistono più zone franche. E soprattutto che l’indifferenza non è innocente. In questa dinamica, l’Italia appare più che mai come una bystander strutturale: spettatrice impotente e complice sistemica. Lo è per scelte politiche, per le dipendenze strategiche, ma anche per un immaginario che non sa più produrre resistenza perché ha smesso di avere paura. E proprio la paura, scriveva Buzzati, è la forma suprema di resistenza alla minaccia nucleare.
Se è vero che una sciagura che colpisce tutti perde parte della sua terribilità, occorre allora – come ci insegna Buzzati – ridarle volto, ridarle nome, ridarle proporzione. Personalizzare la catastrofe significa riscoprire la propria posizione dentro la rete delle responsabilità. Miniaturizzarla significa restituirle senso.
Dobbiamo ripensare il modo in cui ci collochiamo dentro la storia. Cosa significa vivere nell’era nucleare non come una superpotenza né come una vittima, ma come complici involontari e passivi? Cosa significa abitare un paese che non annuncia escalation ma partecipa all’apparato che la rende possibile? Non è una domanda teorica. Nel conflitto Iran-Israele-Usa la complicità non si misura solo con le armi fornite o le truppe inviate, ma anche con i silenzi, le omissioni e l’assenza di alternative politiche. E invece dobbiamo dirlo con chiarezza: non siamo spettatori. Non siamo estranei. Dentro questa ennesima guerra siamo invischiati senza scampo.
