Droni sulla Polonia

23 Novembre 2025

«La morte del Papa e Smoleńsk», dice Jana. Io afferro, annuisco e mi dico che in fondo ha senso.

È fine settembre, sabato pomeriggio sulle rive della Vistola. Varsavia è viva ed è vita. La fila per salire al trentesimo piano del Palazzo della Cultura e della Scienza è durata venticinque minuti. Il tasso di concentrazione di turisti a spasso intorno al Castello reale è talmente alto da obbligare a scegliere strade secondarie, meno frequentate. I ristoranti nella Piazza del mercato e in tutta la città vecchia pullulano di turisti. Tempo di attesa per sedersi: mezz’ora un po’ ovunque.

Siamo scesi al fiume per sottrarci a quel formicaio, via dalla quieta folla, ma non è che le cose siano andate meglio. Ogni singola panchina, ogni singolo spazio verde è occupato da ragazzi che fanno yoga, giovani famiglie, americani in ciabatte e trovare un posto dove sedersi non è facile.

Alla fine, optiamo per un bar con vista sul ponte Śląsko-Dąbrowski e, dall’altra parte della Vistola, a seconda che si guardi più a est o più verso sud, la Cattedrale di San Michele Arcangelo e San Floriano e lo stadio nazionale.

Varsavia è viva ed è vita, oggi, come è stata viva e vita nell’ultima settimana, nell’ultimo anno e negli ultimi dieci anni. Viva, vita di cose che succedono da un po’ e che pare continueranno a succedere. I grattacieli che circondano le mura del ghetto di Varsavia – su tutti, Varso, l’edificio più alto dell’Unione europea – rendono appena l’idea di un qualcosa che attraversa la città e che, se non fosse troppo scontato, potrebbe chiamarsi Warsaw vibe. Il PIL cresce: ha ormai superato i mille miliardi di dollari, il che colloca la Polonia nell’élite dell’economia mondiale. «L’ascesa del paese», scriveva Ryszard Kapuściński in Giungla polacca, «l’ascesa di una classe sociale, ieri pastorello, oggi ingegnere». Era un’altra epoca, un’altra Polonia, un’altra Varsavia, ma il concetto rimane lo stesso. L’export aumenta, come il reddito reale dei polacchi, e il debito pubblico è sotto controllo. Tutte cose che si sanno, ormai. Aggiungo che negli ultimi tre giorni il sole ha inondato la città e le temperature sono state di un filo inferiori ai trenta gradi. Non si tratta di dati macroeconomici, certo, ma danno l’idea di un posto in cui – se non tutto – molto sembra funzionare.

Il che mi fa piacere, così mi viene ancora più spontaneo chiedermi: perché sono tanto stupito? E la risposta è semplice: non mi aspettavo che la situazione fosse così, in questo momento. La ventina di droni russi che attraversa il confine a est, gli F-16 polacchi che, con il supporto di altre forze NATO, li abbattono, il primo ministro Donald Tusk che chiede di avviare le consultazioni previste dall’articolo 4 del Trattato dell’Alleanza atlantica, l’articolo 4 che confina pericolosamente con quel famoso articolo 5, un attacco armato contro uno o più alleati è un attacco diretto contro tutti e tutti devono intervenire «intraprendendo immediatamente, individualmente e di concerto con le altre parti, l’azione che giudicherà necessaria, ivi compreso l’uso della forza armata», una riunione di emergenza del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, quarantamila soldati schierati alla frontiera con Bielorussia e Russia… non dovrebbe bastare questo per creare tensione, scompiglio, allarme, per spingere la gente a comprare scorte di acqua e cibo in scatola, torce elettriche, batterie, tutto quello che potrebbe servire se si dovesse verificare un attacco?

Sembrerebbe di no. I polacchi passeggiano per il Parco Lazienki, vanno in bicicletta lungo la Vistola, i polacchi si interrogano su quale pianista vincerà questa edizione del premio Chopin e visitano il museo dei neon, visto che ai tempi della Guerra Fredda le insegne fatte di quel materiale erano uno dei pochi soffi di libertà artistica che si poteva percepire nel Paese ed è bene ricordarsi di certe cose. I polacchi vanno in metropolitana, sorridono se dici loro che sei italiano e tengono a farti sapere che l’inno polacco è legato all’Italia. Noto come Mazurek Dąbrowskiego, Mazurka di Dąbrowski, un militare polacco, in realtà si chiama Pieśń Legionów Polskich we Włoszech, canto delle legioni polacche in Italia, visto che Dąbrowski combatté sotto Napoleone a Reggio Emilia. Marsz, marsz, Dąbrowski, Z ziemi włoskiej do Polski, marcia, marcia, Dąbrowski, dalla terra italiana alla Polonia.

Si stupiscono quando rispondo che anche nell’inno italiano si parla della Polonia. Bisogna però arrivare fino alla quinta strofa per sentir cantare che «son giunchi che piegano / le spade vendute: / ah l’aquila d’Austria / le penne ha perdute; / il sangue d’Italia / bevé, col Cosacco / il sangue polacco: / ma il cuor le bruciò». Segue parafrasi e commento, come con le poesie di Foscolo e Leopardi alle medie. Si è solidali tra popoli oppressi. I polacchi sorridono compiaciuti per questo inaspettato riconoscimento della loro battaglia per l’indipendenza dopo le tre spartizioni avvenute a fine Settecento, dopo aver dovuto aspettare fino al 1918 per tornare a essere uno Stato.

Sono nazionalisti i polacchi, tutti. Di centro, di destra o di sinistra che si professino, cambia poco. La Rzeczpospolita Polska, la Repubblica di Polonia, lo Stato viene prima dell’appartenenza a questo o quel movimento politico, a questo o quel campanile. I localismi italiani li lasciano abbastanza stupiti, come i miei tentativi di spiegare che dalle mie parti i dialetti cambiano non soltanto da regione a regione, ma da città a città, a volte da quartiere a quartiere. Nella Rzeczpospolita, tutt’al più, muta l’accento via via che ci si sposta verso est, qua e là si registrano minoranze bielorusse, russe, tedesche e ucraine e in Pomerania parlano il casciubo, ma non si raggiunge la varietà che possiamo vantare noi nella penisola.

Di norma, concludo dicendo che, se si vuole riconoscere una spia in Italia, la cosa migliore da fare è chiederle di cantare per intero il canto degli Italiani. I polacchi non capiscono, stringono gli occhi e scuotono la testa. Allora, dico: «Vi pare davvero che in un Paese del genere qualcuno si prenda la briga di imparare cinque strofe piene di orgoglio nazionale? Deve per forza trattarsi di una spia».

Ridono, i polacchi, ridono di gola, e non si preoccupano di quello che succede a est.

k

***

«La morte del Papa e Smoleńsk», dice Jana quando le chiedo perché i polacchi non sembrino essersi preoccupati dopo che i droni russi hanno attraversato il confine.

«La morte del Papa e Smoleńsk», ripete e io afferro, annuisco e mi dico che ha molto senso.

Giovanni Paolo II, Karol Józef Wojtyła, nato a Wadowice, nel voivodato della Piccola Polonia, poco distante da Cracovia e dai monti Beschidi che segnano il confine con la Repubblica slovacca. Primo papa polacco, primo papa non italiano da oltre quattro secoli. Per intendersi, l’ultimo prima di lui, l’olandese Adriano V, risale all’epoca di Carlo V d’Asburgo, Solimano il Magnifico, Hernán Cortés e della spedizione di Magellano.

Ricordo una visita al Palazzo vescovile di Cracovia, anni fa, e una guida che lo descrisse come l’uomo che aveva sconfitto il comunismo in Polonia con la forza della sua fede. I polacchi attorno a me, gente sopra ai sessanta, gente che c’era ai tempi del generale Jaruzelski e delle battaglie di Lech Wałęsa e Solidarność, piangevano in silenzio, colmi di gratitudine. Io ero in fase contestataria e pensavo che qualcuno avrebbe dovuto fare delle domande sullo IOR, su monsignor Marcinkus e Roberto Calvi. Oggi, mi viene in mente soltanto il titolo di un film di Woody Allen, Whatever Works. Basta che funzioni, basta davvero. Se ci credete e vi fa stare bene, a posto così.

E i polacchi ci credono, ci credono veramente ancora adesso e allora non è difficile comprendere perché i droni russi a est non abbiano scombussolato la loro vita, però la morte di Wojtyła sì, la morte dell’uomo che li ha guidati fuori dalla dittatura, fuori dall’incubo di una Seconda Guerra Mondiale che non era finita nel 1945, ma aveva cambiato pelle ed era durata fino al 1989, fuori dall’area di influenza dell’Unione sovietica e dentro all’Europa, all’Occidente e al mondo democratico e capitalista li abbia destabilizzati. Come la morte di un padre, peggio della morte di un padre forse.

Smoleńsk, poi. 10 aprile 2010. In fase di atterraggio, un Tupolev dell’aeronautica militare polacca si schianta alla base aerea di Smolensk-Severnyj in Russia. Tutte le persone a bordo muoiono. Tra queste, il presidente della Polonia Lech Kaczyński, l’ex presidente Ryszard Kaczorowski, il capo delle forze armate polacche, il presidente della banca centrale, il vice-ministro degli esteri, alcuni membri del Parlamento e parenti delle vittime del massacro di Katyn’ del 1940. Perché è per questo che era stata organizzata la visita ufficiale in territorio russo: celebrare il settantesimo anniversario dell’uccisione di oltre ventimila membri dell’intelligencija polacca da parte dell’Unione sovietica, un fatto tenuto nascosto per anni e poi negato fino a che nel 1989 non fu rivelato che era stato Stalin a ordinare l’eccidio. Nel 1990, Gorbačëv riconobbe quanto accaduto e porse le scuse ufficiali alla Polonia.

È chiaro allora perché all’inizio in molti sospettarono che non si fosse trattato di un semplice incidente, che sotto ci fosse qualcosa, che in fondo l’ingombrante vicino russo non fosse mai cambiato. La paura come riflesso pavloviano, la paura di tutto quello che sembrava finito e invece ritorna e ritorna e ritorna, la paura di doversi difendere di nuovo e sempre per poter esistere. E anche quando poi risultò che lo schianto era avvenuto a causa di un errore dei piloti, comunque qualcuno continuò a dubitare, a non fidarsi. Perché in tutti i posti del mondo sarebbe potuto accadere, e in qualunque momento, e la Polonia l’avrebbe dolorosamente accettato, ma non nella Russia di Putin a settant’anni dallo sterminio di ventimila polacchi.

Quindi sì, ha ragione Jana, questa signora ceca sessantenne, arrivata qui negli anni Ottanta, quando la libera circolazione delle persone di marca europea era un’ideale a cui tendere, ma si poteva comunque contare sulla libera circolazione garantita tra Stati aderenti al Patto di Varsavia in nome del socialismo internazionale. I polacchi li conosce bene e, nonostante il tempo trascorso qui, riesce ancora a mantenere quel minimo di distanza che le permette di analizzare le cose in maniera obiettiva e di dirmi che no, sto sbagliando. Per quanto i rapporti con la Russia non potranno mai essere normali, per quanto l’invasione dell’Ucraina abbia creato scompiglio e da almeno un decennio Varsavia andava avvertendo che prima o poi sarebbe successo, che prima o poi lo zar si sarebbe mosso, non bastano venti droni che sconfinano a interrompere le loro esistenze.

Sorseggiamo qualcosa, io una Coca Zero perché ho deciso di togliere gli zuccheri dalla mia vita, lei un caffè che mi dice le ricorda quelli che ha bevuto a Venezia durante l’estate. Attorno, Varsavia va avanti a vivere e, a conti fatti, se ne frega della Russia e di noi.

Da quest’anno tutte le donazioni a favore di doppiozero sono deducibili o detraibili. SOSTIENI DOPPIOZERO (e clicca qui per saperne di più).