Guarda che Luna / La distanza dalla luna

13 Luglio 2019

Cinquant’anni fa - il 20 luglio 1969 - lo sbarco dell’uomo sulla Luna. In questa occasione abbiamo preparato quattro pezzi dedicati a questo evento visto da diversi punti di vista, recensendo alcuni libri apparsi in occasione dell’anniversario e pubblicando un capitolo inedito del libro di un filosofo sulla Luna, per concludere con la lettera che Giacomo Leopardi ha scritto a Neil Armstrong in occasione della sua passeggiata sulla superficie del Satellite, e che ha ispirato alcune sue meravigliose poesie.

 

Il libro dedicato alla Luna da Patrizia Caraveo Conquistati dalla luna (pp. 202, €19) racconta molte cose interessanti sulla storia delle conoscenze lunari e della magnifica letteratura che le è dedicata. Da Galileo alle invenzioni straordinarie dell’ottocento, con gli esseri alati individuati da Herschel o il viaggio di Pulcinella, l’autrice ci guida in una gradevole ricognizione delle tante cose che sappiamo e di come le abbiamo immaginate prima di saperle.  Si imparano tante cose, dalla distanza alle orbite alle eclissi e via dicendo fino a renderci amico il satellite. Una bella lettura, che mi ha fatto venire in mente quanto la distanza tra le due culture, cui si riferì C.P. Snow in una celebre lezione del 1959, sia una frontiera difficile ma anche porosa e attraente. In quella lezione lo scrittore inglese sosteneva che molti suoi colleghi umanisti di Cambridge non conoscevano la seconda legge della termodinamica o il significato di termini come accelerazione, mentre alcuni fisici ignoravano le commedie di Shakespeare. Questa frontiera è stata attraversata da Primo Levi e da Italo Calvino e recentemente da Carlo Rovelli e appunto Patrizia Caraveo. Proprio però parlando della Luna, i confini dentro di noi di questi due mondi sono anche più laceranti e profondi.

 

Per chi con Leopardi, come racconta in Odi, Melisso, se la ritrovi grande come una secchia nel giardino, non c’è nulla come la misurazione delle distanze che possa sciogliere i misteri. La luna dista 380.000 khilometri che è una distanza molto concepibile se pensiamo quanto facilmente se ne fanno 1000 in autostrada o 5000 in aereo in un tempo relativamente breve. Che gli isotopi, come spiega l’autrice, siano gli stessi del materiale geologico della terra, la rende ancora più vicina. 

Leopardi, tra le curiosità che ha frequentato nell’adolescenza, ha scritto anche un manuale di astronomia. In fondo guarda tutte e due le possibilità di conoscere guardando la luna. Ha certo curiosità per tutto quello che possiamo sapere attraverso le misurazioni. Quando il pastore errante parla con la luna, la interroga invece proprio perché lei sa cose che son celate al semplice pastore. La luna è l’altro, anzi l’altra, il mistero per autori maschi di un femminino che resta inaccessibile. È lì che finisce il protagonista di La distanza dalla luna, nelle Cosmicomiche di Calvino: a ululare come un lupo. Questa luna, come l’altro genere, è inaccessibile. Uomini e donne non si comprendono, non si capiscono, si guardano, si desiderano, ma sono e restano lontani. Leopardi ama sapere e qualunque nozione aiuti a dissipare il vago, a fare chiarezza, lo attrae, lo informa, lo forma. Proprio perché così precocemente erudito è però anche consapevole del prezzo che paga conoscendo, e questo è uno dei temi che gli è più caro: il sapere separa dall’essere. Perché l’affermarsi della razionalità ci spinge inevitabilmente a guardare i miti come fiabe, il mondo dei greci o di altre popolazioni remote, o i miracoli del cristianesimo, come spiegazioni semplicistiche, perdiamo la capacità di comprendere metafore e visioni, di meravigliarci e commuoverci.

 

Leopardi parla poco delle relazioni tra esseri umani, quello che oggi troviamo ovunque con il nome di psicologia, ma è lì che la frontiera tra i due modi di leggere il mondo ci è più chiara. Si potrebbe dire che anche lì, quando capiamo ci separiamo. Nella misura in cui all’essere dell’altro subentra, come nostra difesa, una narrazione di come è lui o lei o siamo noi stessi, inizia appunto una separazione. I brontolii di innamorati e innamorati traditi e delusi che si lamentano dell’altro, sono la schiuma dell’immaginare che ci sia qualcosa che si può sapere o capire dell’altro quando invece non facciamo in questi casi che secernere umori, una sudorazione senza sapere. L’essere insieme, il ridere o fare l’amore, camminare, mangiare, insomma esserci, respinge al contrario l’intellettualizzazione che facciamo dell’altro. L’altro è per definizione quello che non capiamo e non possediamo attraverso l’intelletto. La luna, appunto.  Se lasciamo entrare lo sguardo analitico e iniziamo a misurarci l’un l’altro, finisce la conoscenza. Lo facciamo continuamente: quando in una coppia o un’amicizia pensiamo ad esempio ai soldi, quanto guadagna l’uno o l’altro nella coppia, cosa eredita o può ereditare, o se uno di una famiglia ricca può mettere la caparra per un appartamento, o se il prestigio sociale di uno è superiore all’altro, insomma tutti questi conti che si fanno su se stessi e sugli altri, e che vengono percepiti come un abbassamento, una volgarità, siamo soprattutto di fronte a elementi di separazione.

 

 

Ci sono familiari in noi e negli altri, tutte le commedie da Terenzio a Molière o Goldoni declinano questa piccineria in mille modi,  e quando ci innamoriamo è proprio con una curiosa capacità di superare, dimenticare, conoscere che trasforma questo materiale, tra cui ci orizzontiamo quotidianamente in mezzo agli altri, alla periferia di una conoscenza più intima che si approfondisce nutrendosi di altro, come la filosofia o il nostro sguardo sulla luna. Che nella commedia appare sciocca, cieca, ma che opera su un piano superiore. Ci guardiamo e ci amiamo non perché accumuliamo informazioni o rendiamo più rigorosi gli strumenti attraverso cui misuriamo l’altro ma al contrario, perché tutto quello che ci serve per l’ordinario andare per il mondo, si sganghera ed emerge un essere più vero e profondo, dove quello che definisce la soggettività scompare. Qualcosa che è radicato in noi dall’infanzia, dove sapevamo degli altri bambini che incontravamo se erano prepotenti o gentili, se ci piacevano o no, se stavamo bene insieme oppure no. E volevamo giocare, ed esserci. 

 

Leopardi è molto consapevole che se questo primo mondo decade e si inaridisce, nessuna vita vale la pena. Se la conoscenza è accumulazione di dati, google ci ha già sostituito. Quello che è unico e nostro è che 380.000 chilometri dalla luna sono nulla e sono infiniti, non solo la distanza da percorrere e come, ma anche il mondo delle nostre illusioni e dei nostri sogni, siamo capaci di vederne il crollo ma non per cadere in un disincantamento, nella delusione, ma per essere capaci di visioni ancora più ambiziose e possenti, e che essere vivi è proprio questo lasciar nascere e crollare le idee che abbiamo sul mondo non come uno spettacolo di cui siamo spettatori, piuttosto nella danza che insieme alle altre forme del mondo ci fa, ci attraversa, ci libera in un costante scorrere e consistere. L’erudizione, come Leopardi scopre, può essere una risacca, fredda e persino male odorante. Solo il dialogo con il mondo, gli altri e noi stessi, attraverso cui l’esistere assume le sue forme incerte, ci permette di vedere. La luna è per Leopardi e per ognuno di noi una delle prime ed eterne interlocutrici di questa conversazione, e possiamo perderla di vista solo se siamo troppo distratti da quello che ci sembra di dover fare, e non guardiamo più in alto.

 

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Matteo Meschiari, Dalla Luna alla Terra.

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