Breve viaggio nei romanzi di Mario Benedetti / La solitudine e la mediocrità

15 Marzo 2016

Questa storia comincia nell’estate del 2013, la nostra estate, ma comincia nell’inverno uruguaiano, a Montevideo. Comincia quando Anna, la mia compagna, fa in quella città un breve viaggio. Comincia con una foto che Anna scatta sul Rio de la Plata, mentre lo attraversa da Buenos Aires a Montevideo. Questa storia comincia con Anna che su Skype mi racconta questa strana città, me ne comunica il fascino. Comincia con me che immagino e penso e invidio, e ricordo Anna in altri luoghi con me, con le sue macchine fotografiche analogiche al collo. Comincia con una profonda nostalgia, qualcosa di bello dolce e strano, che influenzerà molto di quello che ho scritto da allora in poi. Questa storia continua con un nome, Mario Benedetti e con un titolo, Grazie per il fuoco. Anna mi racconta di questo libro incredibile e mi parla incantata del suo autore, mi accenna a un altro romanzo, La Tregua, di cui ancora non sappiamo della ristampa italiana che verrà. Mi dice che devo leggerlo, perché io di Benedetti Mario, più volte candidato al Nobel, non ho mai letto nulla. E allora, aspettando che Anna ritorni, io cerco i libri di Mario Benedetti.

 

La solitudine e la mediocrità nei personaggi di Mario Benedetti

 

“Come d’abitudine si allinearono le due squadre per ascoltare e cantare gli inni nazionali. Per primo, ovviamente, fu suonato quello della squadra di casa, con il coro del pubblico e dei giocatori, seguito da una calorosa ovazione. Poi l’inno dei nostri giocatori. La registrazione era spaventosa, di una stonatura veramente olimpica. Non tutti i giocatori conoscevano tutte le parole, però facevano il coro almeno nella strofa più famosa. Solo uno dei calciatori, per puro caso un attaccante, anche se si ricordava l’inno, decise di cantare al suo posto il tango Cambalache : «Che il mondo sia stato e sarà una schifezza, / già lo so, / nel cinquecentosei / e anche nel duemila». Solo nella tribuna d’onore alcuni applaudirono per dovere.”

 

Questo brano è tratto dal racconto Cambalache in Lettere dal tempo (Le Lettere, 2000, trad. di Emanuela Jossa), il primo libro che ho comprato di Benedetti. Si parla di un gioco di squadra, ma chi spicca è un uomo solo, un attaccante che compie un gesto solitario, canta – per protesta – contro il proprio governo (è il tempo della dittatura) un tango al posto dell’Inno nazionale. Quel racconto dal passo ironico è molto significativo, scoprirò molto dopo che quel gesto solitario, che si manifesterà in altro modo anche sul campo di gioco, è un’azione che conta nell’opera del grande scrittore uruguaiano, l’uomo delle sue storie è destinato alla solitudine, in un modo o nell’altro. La figura dell’uomo solo ricorre poi nei suoi quattro più importanti romanzi: Chi di noi (Nottetempo, 2016, trad. di Stefania Marinoni); La tregua (Nottetempo, 2014, trad. di Francesco Saba Sardi); Grazie per il fuoco (La nuova frontiera, 2011, trad. di Elisa Tramontin); Fondi di caffè (La nuova frontiera, 2013, trad. di Elisa Tramontin).

 

I protagonisti di questi romanzi sono condannati alla solitudine, poi vedremo, per ognuno declinata in modo diverso. La solitudine è condizione comune per chi venga allontanato da un posto, per chi da un luogo si allontana volontariamente. Se un uomo è costretto a lasciare la propria terra per ragioni politiche, per sfuggire a un regime, la solitudine diventa quella dell’esilio. L’esiliato, colui che è costretto a vivere lontano dalla patria. Mario Benedetti ha vissuto a lungo quella condizione e la sua opera ne risente, addirittura ne risentono i libri scritti prima dell’esilio, come se quella condizione fosse una specie di status acquisito con la nascita in un dato luogo. Gli uomini e le donne, ancor di più se scrittori, nati in paesi che sono stati preda e dominio di dittatori, persone che facevano politica, attivismo, erano pronti più di altri alla solitudine? Sapevano da prima che sarebbe arrivato il momento di guardarsi le spalle? Di tenere chiuse le imposte? Non pensiamo solo all’esilio, Roberto Bolaño detestava quella condizione perché legata al concetto di patria. Lo scrittore cileno pensava alla patria come a qualcosa di cui doversi scordare, disse che la sua patria erano i suoi due figli (in Ultima conversazione, Sur, 2012, trad. di Ilide Carmignani)).

 

L’esilio nel caso di Benedetti è un esempio soltanto, Benedetti visse un lungo periodo di esilio (dieci anni, dal 1973 al 1983), ma tre dei quattro romanzi di cui voglio raccontarvi furono scritti prima del periodo in cui fu costretto a lasciare l’Uruguay. La solitudine per lui e nei suoi personaggi è strettamente collegata all’incapacità di cambiare la propria vita, se non per brevi periodi. La solitudine somiglia alla rinuncia, è qualcosa a cui si sfugge solo nei sogni, è un sentimento che quando sparisce lo fa solo per ritornare più forte e prepotente che mai. La solitudine, per Benedetti, non è mai una scelta, non scegli una cosa che c’è già, devi solo aspettare che tocchi a te. L’abilità dello scrittore sta nel rappresentarla, nel farcela scovare attraverso storie molto diverse l’una dall’altra, accomunate dalla prosa limpida – spesso – irresistibile (libri dove si sottolinea parecchio). L’altro elemento, strettamente legato alla solitudine, è la mediocrità. L’uomo che costruisce la propria mediocrità, che spesso la vive consapevolmente, che la vede e non la sfugge, che la accetta e quest’ultima è, quasi sempre, l’unica vera scelta che compie.

 

 

Dentro i libri

 

“E così, persa ogni speranza di credermi intelligente o appassionato, mi resta quella meno presuntuosa di sapermi sincero. E per sapermi sincero ho iniziato questo diario, in cui punisco la mia mediocrità con una testimonianza personale e oggettiva. È vero che il mondo pullula di persone banali, ma non di persone banali che si riconoscano come tali. Io sì, mi ci riconosco. D’altronde mi rendo conto che quest’orgoglio assurdo non mi porta a niente, se non a un’imbarazzante insofferenza verso me stesso.”

 

Chi scrive è Miguel, uno dei protagonisti di Chi di noi, il primo romanzo scritto da Benedetti ma pubblicato in Italia solo da qualche settimana. Miguel decide di tenere un diario e in tutta la prima parte del libro spiegherà le sue ragioni, racconterà di sua moglie, Alicia, e di Lucas, loro compagno di scuola, poi amico di entrambi, poi fonte di attrazione, di illusione, di rimpianto, di confusione. Lucas presente e lontano. Lucas, il più grande errore di valutazione di Miguel. La storia del libro, se semplifichiamo, è quella di un triangolo amoroso irrisolto, ma è soprattutto la vita di Miguel, della sua capacità di immaginare un certo indirizzo della storia, di assecondare comportamenti che vadano nella direzione che egli ha previsto. Miguel fa di tutto affinché la propria e quella di Alicia, dei loro due figli e di Lucas, diventino quello che lui ha sempre pensato che fossero. La mediocrità di Miguel e la solitudine (ma non solo la sua) dipenderanno non dalla lucidità con cui scrive nel diario, ma dai suoi errori, dalla sua incapacità di scegliere. La mediocrità non è quella che lui percepisce, ma quella che la vita gli cala addosso, a sua insaputa. Chi sceglierà, davvero, in tutto il romanzo, sarà Alicia, Miguel e Lucas dovranno, inevitabilmente, subire quelle scelte. 

 

La forma diario sarà usata da Benedetti anche in La Tregua, considerato universalmente il suo capolavoro. Il protagonista Martín, contabile, prossimo alla pensione, tiene un diario e racconta la sua quotidianità; è vedovo e ha tre figli, è stanco ed è annoiato dal suo lavoro, ma è annoiato da tutto. Racconta lo scorrere della sua vita in bianco e nero, così lo immaginiamo, di giornate piatte e gesti ripetuti. Martín si sente mediocre, ma in fondo è solo un uomo come tanti, ed è questo che Mario Benedetti vuole raccontare, la normalità, la vita banale che non muta quasi mai, ma in quel quasi niente accade tutto. Martín si innamora di Avellaneda, una giovane collega, nei pochi mesi del suo diario racconterà con dolcezza estrema l’allargamento del suo cuore, il proprio stupore, la meraviglia, ma con altrettanta lucidità capirà che quel periodo felice sarà breve, una breve tregua, appunto, concessa alla mediocrità e alla solitudine. Questa consapevolezza non impedirà a Martín di provare la gioia più grande.

 

“E subito ho avvertito un terribile peso al petto, un’oppressione che non sembrava interessare questo o quell’organo, ma era quasi asfissiante, insopportabile. Qui nel petto, vicino alla gola, qui deve stare, raggomitolata, l’anima. “Finora non te l’avevo detto,” ha mormorato, “non perché non ti amassi, ma ignoravo perché ti amavo. Adesso lo so”. 

Il protagonista di Grazie per il fuoco è Ramón Budino, figlio del potentissimo Edmundo. Qui Benedetti abbandona la forma diaristica e scrive un romanzo dalla struttura classica, un romanzo formidabile, che tra i suoi è quello che preferisco. La solitudine e la mediocrità dell’uomo affiorano più lentamente e crudelmente, passano attraverso la politica e la storia di un paese. Passano attraverso le vicende di una famiglia potente, dal rapporto difficile, impossibile, tra Ramón e suo padre Edmundo. L’intelligenza, la coscienza critica, la capacità di amare di Ramón, saranno sempre sconfitte dalla sua incapacità di scegliere, di comunicare, Ramón è un uomo che ha per vocazione la rinuncia. Rinuncerà all’amore vero, desidererà per tutta la vita una libertà che non saprà cercare, si dibatterà tra odio e amore, credendo che l’eventuale morte di Edmundo potrà garantire a suo figlio Gustavo e al paese un futuro migliore. Questa battaglia, Ramón, la combatterà per tutta la vita, la perderà. Sarà mediocre e solo e, peggio ancora, quasi del tutto incompreso.

“Voglio andare via senza fare colazione, senza parlare, senza che nessuno si accorga che sono uscito. […] Sono stanco. Di cosa? È un peccato che il cielo sia sereno, che soffi una brezza così piacevole, che il mare sia tranquillo. Pensare che siamo in pieno aprile e sono ormai tre giorni che resiste questa temperatura estiva. È un peccato. Oggi avrei avuto bisogno di un cielo grigio. Se potessi scoraggiare il paesaggio. Ma non posso.”

 

In Fondi di Caffè, Claudio, il protagonista, ripercorre la sua vita all’indietro. Scava nella memoria, nel passato, trova quello che si è depositato, proprio come i fondi di caffè, e da quei fondi ricostruisce la sua storia. La solitudine qui è propria del racconto, ci troviamo in presenza di un uomo che ricorda, la mediocrità, per la prima volta, pare essere lasciata da parte. Claudio ricorda i dolori, gli amori, le scelte politiche, le scoperte dell’adolescenza, i sogni sognati e quelli realizzati. Leggere questo romanzo è un po’ come perdersi in una ninna nanna, Mario Benedetti ci culla dentro una storia, che è anche la sua, ci lascia immaginare un mondo in cui – ad esempio – una ragazza può arrivare di notte, e può essere sognata o reale, e può andarsene o svanire, all’alba, come tutte le cose, un attimo dopo la fine del buio. Benedetti tenta di fare ordine e di comprendere tutto quello che è stato, nel farlo regala ancora grandi pagine di narrativa. 

La solitudine, la mediocrità, la banalità, la felicità soltanto breve, sono gli aspetti con cui Benedetti rappresenta l’umano. Ma sono solo alcuni codici per provare a entrare nel ricchissimo mondo dello scrittore uruguaiano, la cui prosa è bella quanto i contenuti, ed è spesso indimenticabile. È sicuramente uno dei più grandi autori sudamericani del secondo Novecento, un uomo che ha scelto di raccontare il destino di un paese partendo da singole vite, rendendole universali.

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