L’algoritmo autoritario

13 Novembre 2015

«La statistica tedesca non è diventata solo un testimone che prende nota», scrisse nel 1937 Friedrich Zahn, presidente dell’Ufficio Statistico Bavarese, «ma è anche uno degli ispiratori creativi degli eventi del nostro tempo». In quegli anni c’era il grande censimento della Germania da fare: andavano localizzati e schedati i cittadini ariani separandoli da quelli impuri e dalle razze inferiori che presto sarebbero state deportate verso i campi di sterminio. Vista la portata del perverso progetto, bisognava velocizzare i tempi, e a tal proposito i nazisti si servirono di un potente calcolatore: la macchina tabulatrice cosiddetta “di Hollerith”, fornita da Dahomag, una società tedesca controllata dall’americana IBM. Lo racconta il giornalista Edwin Black nel suo IBM and then Holocaust, in cui spiega come il colosso informatico fornì agli scienziati del Reich migliaia di questi proto-computer in cambio di un contratto assai redditizio. «L’unico modo per eliminare ogni errore», spiegò Karl Keller, uno dei professori nazisti coinvolti nel progetto, «è la registrazione dell’intera popolazione». Contava solo il data mining; i dubbi morali erano banditi, e i tecnici della IBM si guardarono bene dal fare domande.

 

Che i numeri e gli strumenti per analizzarli siano sempre neutrali rispetto alla scienza è anche l’opinione di B. Z., una mia conoscente che vive in una bella casetta dell’Upper East Side, a Manhattan, e di mestiere fa la «giornalista freelance». Qualche settimana fa sono andato a trovarla, e dopo il nostro incontro mi è venuta voglia di pescare un articolo del 2012 del Journal of Information Science:

«Il crowdsourcing è una tipologia di attività online partecipativa nella quale una persona, istituzione, organizzazione non a scopo di lucro o azienda propone a un gruppo di individui, mediante un annuncio aperto e flessibile, la realizzazione libera e volontaria di un compito specifico. La realizzazione di tale compito […] implica sempre un beneficio per ambe le parti. L'utente otterrà, in cambio della sua partecipazione, il soddisfacimento di una concreta necessità, economica, di riconoscimento sociale, di autostima, o di sviluppo di capacità personali; il crowdsourcer d'altro canto otterrà e utilizzerà a proprio beneficio il contributo offerto dall'utente, la cui forma dipenderà dal tipo di attività realizzata».

 

Con questa definizione nella testa, può iniziare il nostro racconto. A casa di B. Z., quando si parla di New York – città che lei, che scrive per una rivista italiana sponsorizzata da ricchissime fondazioni, definisce la «più bella del mondo grazie a Mike Bloomberg», sindaco-mecenate da 38 miliardi di dollari di patrimonio – si sciorinano sempre tanti bei numeri: «Guarda com’è diminuita la disoccupazione, o i delitti», mi spiega, utilizzando quelle cifre come una clave. Lei sa che della Grande Mela ho un’opinione piena di affetto e insieme di sconforto, forse vaccinato per l’entusiasmo che sembra contagiare molti miei connazionali.

 

La macchina tabulatrice di Hollerith (da http://hmr.di.unipi.it/)

 

Come tanti altri aspiranti Carrie Bradshaw, B. Z. tende a oscillare tra la fanatica adorazione della patina newyorchese – i motti inspirational le riempiono la bacheca di Facebook – e una denigrazione altrettanto pericolosa dei luoghi “altri”, in particolare della parte nord di Manhattan o del Bronx, che lei non osa nemmeno avvicinare, nonostante gli ormai numerosi anni trascorsi in città. Per esempio quando parla della 116esima strada ad Est di Manhattan, quello per lei è il confine tra civiltà e barbarie: più in là non ci si addentra. «Ma come? », le faccio, «le statistiche dicono che il crimine è diminuito anche lì, che in fondo si è più sicuri ad East Harlem che nella periferia di Roma». «Eh no, lì non mi sento sicura», mi spiega. Hic sunt leones.

 

Rovistando nel suo cellulare, B. Z. mi mostra una app. La città celebrata da corrispondenti esteri dallo stipendio a quattro zero e dai freelance che mangiano ricotta di capra fresca nel food store di Farinetti, è la stessa città dove è comparso, settimane fa, un programma per iPhone e Android che così viene descritto dai suoi sviluppatori:

«Vivere per strada è pericoloso per i senzatetto, ed è pericoloso per le persone che incontrano i senzatetto, che potrebbero compiere un atto di violenza a causa della disperazione o di un disturbo mentale. […] E così abbiamo costruito uno strumento per aiutare: La app NYC Map the Homeless è una soluzione semplice e comoda, basata sul crowd-sourcing volontario. Raccoglie dati e produce risposte. Premi un bottone, scatta una foto e taggala. Ci vorranno solo pochi secondi. Le puntine saranno automaticamente visualizzate e raggruppate su una mappa dettagliata di NY. Quando una puntina sulla mappa è selezionata, mostrerà una location precisa, l’ora e una descrizione. Le autorità potranno rapidamente identificare le location di pericolo e intervenire con prontezza».

 

 

Mappare la povertà

 

Secondo la Coalition for the Homeless, a New York vivono 58.000 senzatetto, il numero più alto dai tempi della Grande Depressione – quanto l’intera città di Agrigento, e più dell’intera provincia dell’Ogliastra. La app NYC-Map The Homeless, secondo le intenzioni del suo creatore, David Fox, dovrebbe incoraggiare gli utenti a scattare foto di senzacasa e oziosi e marcarli con hashtag come “#Violent”, "#PassedOut” (svenuto) “#NeedsMedicalAid” (ha bisogno di cure mediche) o “#AggressivePanhandling” (elemosina aggressiva). Al momento il software è stato scaricato circa 2.000 volte.

 

F

oto presa dalla pagina iTunes di NY – Map The Homeless

 

Fox, un ingegnere di 25 anni, è anche membro del gruppo Facebook “Third and 33rd (and Beyond)”, de facto la versione locale di Roma Fa Schifo: uno sfogatoio dove gli oltre 600 utenti iscritti segnalano i senzatetto della zona, maledicono la polizia inerte e invocano il Decoro Perduto (come il tassista di Scorsese, Travis Bickle, che sognava un Diluvio Universale che ripulisse Times Square – cosa poi realmente avvenuta, sotto forma di repressione e arresti di massa.)

 

«Presto o tardi tutti gli indesiderabili saranno costretti a indossare dei bersagli, per gentile concessione dell’aristocrazia vigilante», commenta un amico a cui chiedo un parere sull’invenzione di Fox. E un altro ci va giù ancora più duro: «Beh, in realtà questa vuole dire ai poveri: ‘Mettetevi questa fascia gialla sul braccio e vi trasferiremo in un posto migliore’».

 

Sempre di questi mesi è la notizia che, a San Francisco, un’estensione per smartphone del numero d’emergenza 311 permetterà di segnalare alla polizia i sempre più numerosi senzatetto di una città divisa tra classe media impoverita e quella patrizia di lavoratori dell’hi-tech. «Una app per spioni», come l’ha definita una persona intervistata dal San Francisco Examiner. «Quello che stanno facendo è trasformare i residenti in poliziotti». Esagerava? È il solito gufo?

 

Un senzatetto in una fioriera (Foto presa dal gruppo Facebook “Third and 33rd (and Beyond)”

 

Già nell’agosto del 2014 fece accapponare la pelle a molti la creazione di SketchFactor, una app che consentiva agli utenti di segnalare angoli di strada in cui s’erano avute esperienze sgradevoli, o anche soltanto provata una sensazione di “insicurezza”. «Mettici un pallino nero con occhi minacciosi, come una sorta di Yelp per chi torna a casa la sera», sembrava suggerire, «e altri sapranno che di lì è meglio non passare». L’idea fece spavento non solo perché i due creatori – un ragazzo e una ragazza di etnia caucasica – vennero ritratti in posa da tipici yuppie sorridenti e minacciosamente ottimisti, ma perché provate voi a immaginare quali quartieri e quali fasce sociali sarebbero state penalizzati da una mappa dell’insicurezza cittadina. È vero che certi numeri e certa scienza nascono neutrali, ma come si fa a non pensare all’uso che qualcuno potrebbe farne? Per fortuna lo sdegno progressive prevalse, e la app fu distrutta da una valanga di articoli – dal Gothamist a Gawker – che la definirono «razzista» senza mezzi termini. Ai creatori non andò mica male, però. Tempo qualche mese e i due fecero “pivot”, un termine gergale che nel mondo delle startup indica la riconversione di un’idea che non funziona in qualcos’altro, conservando parte del team e del concept originari. Ora SketchFactor esiste sotto un’altra forma, Walc, una sorta di Google Map più raffinato che ha racimolato all’incirca mezzo milione di finanziamenti. Molti dei commenti beceri lasciati dagli utenti di SketchFactor, però, sono rimasti online per mesi, senza che nessuno si preoccupasse di rimuoverli.

 

Foto presa dal gruppo Facebook “Third and 33rd (and Beyond)”

 

Crowdsourcing razzista

 

Nell’area di Alphabet City, a Manhattan, un tempo ormai remoto ci si riferiva alle avenue – che vanno dalla "A" alla "D" – con “A-Okay”, “B-Beware”, “C-Caution”, e “D-Death”, per indicarne un po’ cinicamente il livello di pericolosità. Alcuni amici hanno vissuto tra "Caution" e "Death”, e mi raccontavano che il peggio che potesse capitare ad un adolescente bianco fosse di venire derubato del suo scooter, mentre i molti tossicodipendenti e ubriachi della zona erano soliti ficcarsi in guai ben più grossi. Attenzione: New York è stata davvero una delle città più violente d’Occidente, e la riduzione del crimine ha beneficiato spesso proprio i poveri che s’ammazzavano tra loro – inutile negarlo. Ma negli ultimi 25 anni il quartiere, così come il resto della città, ha subito una trasformazione profondissima, che va ben al di là della riconquista di uno standard di vita sereno per i suoi abitanti, divenendo uno dei più costosi e ambiti della città; eppure mi capita di avere a che fare con persone che lo immaginano ancora infrequentabile, e non riesco a capire il perché. Questo per dire che a volte il pensiero del turista titubante, del newyorchese doc (o aspirante tale come B. Z.), che non si spinge aldilà di un certo confine geografico, può riassumersi con un «troppe minoranze mi spaventano», anche se ovviamente questa parole non verranno mai pronunciate.

 

E che dire del valore politico del disgusto, quando è travestito da preoccupazione? La particolarità di vivere a New York è il fatto di essere esposti a un’umanità che si differenzia da te etnicamente, culturalmente, visivamente, economicamente. Tolto questo non resta che la paccottiglia, la Dubai sull'Hudson. Un conto è essere una ragazza che deve percorrere una strada dell’altrettanto denigrato Bronx alle tre di notte, in minigonna – in quel caso un po’ di nervosismo è comprensibile –, altra storia è inquietarsi semplicemente perché i bianchi non sono maggioranza intorno a te.

 

Come ha scritto Andrew Marantz sul New Yorker, molti avventurieri dell’hi-tech abitano un mondo nel quale sembra non esistere responsabilità sociale, e nel quale non devono rendere conto quasi di nulla. Forse non sono sopra la legge – per lo meno quelli più cauti – ma sono, o si sentono, spesso al di sopra di quella convenzione sociale per cui ogni tanto bisogna pur mangiarlo, il rospo. Abbondano discorsi e conferenze su aziende fallite e poi rimesse in senso, su progetti fallimentari poi ridisegnati, su proposte non andate in porto ma ripescate in seguito (in gergo le chiamano “elevator pitch”). Sono assai più rare, invece, discussioni serie sui fallimenti morali o nelle relazioni tra individui in carne ed ossa. Come scrisse uno di questi imprenditori su Medium, incanalando lo spirito di Steve Jobs, «Gettati a capofitto. Fai. Smettila di ripensarci». In un mondo del genere, non esistono cattive idee, ma solo idee non adatte al mercato.

 

«Le leggi americane sulle armi non sono altro che oppressione privatizzata», mi dice un professore universitario della Columbia a cui chiedo un parere sulla vicenda. «Ora, questa app è esattamente una forma di sorveglianza privatizzata. Il mio suggerimento? Riempirla di informazioni fasulle». Ovvero? Taggare dozzine di foto di automobili o piccioni morti, per esempio, e intasare la app di content spazzatura. Riuscirà il sabotaggio a superare i moderatori? Mi dice una ragazza di colore: «Immagina cosa direbbe uno di questi frat boy ubriachi se dovesse inciampare in un Trayvon Martin della sua zona... ‘Ehm, agente, mi sembrava un po’ trasandato... Credo di aver supposto che... Beh, aveva il cappuccio alzato e non potevo vedere la sua faccia...’ ».

 

E se fossero proprio i più poveri – le prime vittime della violenza in ogni metropoli – i principali carnefici dei loro simili? In una delle citazioni che gli vengono solitamente attribuite, il magnate ferroviario Jay Gould sosteneva di poter assumere «metà dei lavoratori per far fuori l’altra metà». Forse è un’esagerazione parlare di fasce gialle sul braccio dei diseredati, ma la questione è attribuire alla folla una presunta saggezza collettiva, quando alla prova dei fatti rischia di trasformarsi in discriminazione e ferocia. Nel dubbio, incomincerò a taggare foto di piccioni morti.

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