La rivolta dell’atleta: Tatami

5 Maggio 2024

“Sono cresciuta in Iran, me ne sono andata quando avevo ventisei anni, lì ho ancora molti amici e la mia famiglia. Mi manca molto, un giorno vorrei poter ritornare o anche solo fare un viaggio in quel bellissimo paese. Ma non è mai stata la mia casa, non mi sono mai sentita a casa – provo la stessa sensazione a Parigi, dove vivo da diciassette anni. L’Iran è la mia casa, eppure non lo è. Viaggio molto, ho girato molti film internazionali ma sempre mantenendo le mie radici iraniane, l’Iran è in me come anche la Francia; ma ho sempre bisogno di partire e tornare, partire e tornare. Per alcuni è difficile fare i conti con il non avere una casa e cercarla continuamente; ma penso sia davvero ovunque, la tua casa”. 

Sono le parole con cui Zahra “Zar” Amir Ebrahimi ha terminato la conferenza stampa del film di chiusura del 76° Locarno Film Festival, Shayda (che verrà distribuito in Italia da Wanted Cinema), di cui era interprete nel ruolo, ispirato alla madre della regista Noora Niasari, di una donna iraniana emigrata in Australia che cerca di liberare sé stessa e la figlia dal controllo oppressivo e violento dell'ex marito anche lui iraniano. Quel giorno era attesa a Locarno anche Cate Blanchett, produttrice esecutiva del film, per moderare un dibattito sul ruolo delle donne nel cinema iraniano, ma aveva poi rinunciato a causa dello sciopero degli attori del sindacato SAG-AFTRA; così Amir Ebrahimi aveva meritatamente catalizzato su di sé tutte le attenzioni e gli applausi. 

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Zar Amir Ebrahimi e Guy Nattiv (fonte: Movieplayer).

Un’ulteriore rivincita per un’attrice già molto famosa in patria quando, dopo la diffusione illegale di un suo video privato a contenuto sessuale, fu costretta a fuggire dall’Iran per evitare le frustate e la successiva detenzione, ma che anni dopo ha ottenuto un successo ancora maggiore vincendo il premio come migliore attrice a Cannes per Holy Spider. A Locarno Amir Ebrahimi scherzava sul fatto di essere fin troppo impegnata: come membro della giuria, probabilmente ha avuto un peso decisivo nell’assegnare il Pardo d’Oro al film iraniano Critical Zone; come attivista politica, ha ricordato con passione la sua opera di documentarista; come regista, già sapeva di dover partecipare alla Mostra del Cinema di Venezia di lì a qualche settimana. Tatami - Una donna in lotta per la libertà, selezionato per il concorso Orizzonti, non solo è il primo lungometraggio di finzione da lei diretto; la co-regia di Guy Nattiv lo ha reso il primo film mai firmato assieme da due registi di nazionalità iraniana e israeliana. La portata storica della circostanza, purtroppo, è parzialmente affievolita dall’esilio forzato di Amir Ebrahimi, che rappresenta gli iraniani espatriati (e in particolare quelli legati al mondo della cultura) ma non l'industria cinematografica del suo Paese.

Il tatami è il materasso sul quale si disputano gli incontri di judo, sport di combattimento i cui campionati mondiali sono un evento annuale, il più importante dopo i Giochi Olimpici. La Georgia, una delle nazioni più forti in questo sport a livello maschile, non li ha mai ospitati ma è un luogo ideale, per tradizione sportiva, verosimiglianza politica e anche posizione geografica, in cui ambientare tale competizione. Iscritta a questa manifestazione, la judoka iraniana Leila (Arienne Mandi, attrice statunitense di origini iraniane), allenata dall’ex campionessa Maryam (in un ruolo che Amir Ebrahimi ha ritagliato per sé), affronta la competizione con buone possibilità di successo. Ma su di lei, come su ogni atleta iraniano, pesa un'imposizione governativa che oltrepassa tutte le regole dello sport: le è vietato affrontare atlete di nazionalità israeliana, come forma estrema di boicottaggio politico. 

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Nel tabellone a eliminazione diretta, dopo le prime vittorie, questo rischio si concretizza: Leila potrebbe dover affrontare la ragazza israeliana che ha salutato in amicizia durante il riscaldamento. Maryam riceve la telefonata prevista in queste occasioni: tanti complimenti, ma arriva l'ordine di inventare un infortunio per fingere il ritiro. La vera e vile motivazione politica deve rimanere implicita. Le conseguenze di un rifiuto potrebbero essere molto gravi e Leila lo sa perfettamente; eppure decide di continuare il torneo, anche contro le suppliche dell'allenatrice che cerca in ogni modo di mediare tra la sua atleta e una federazione assoggettata agli ordini diretti del regime degli Ayatollah anziché agli organi di governo sportivo. 

La cocciutaggine dell’atleta, minacciata dai funzionari iraniani presenti nel palazzetto dello sport, che adombrano possibili ritorsioni nei confronti della sua famiglia rimasta a casa, è la stessa di una gioventù iraniana che non sopporta più la prepotenza del regime; una prova di forza che però ha bisogno del coinvolgimento delle altre generazioni cresciute nella Repubblica Islamica post-rivoluzionaria, e forse ritroviamo nel personaggio combattuto di Amir Ebrahimi  (una combinazione efficace di fragilità e coraggio) tutti coloro che hanno già affrontato la propria battaglia senza vincerla ma anche senza mai arrendersi del tutto. 

Il judo, ideato dal giapponese Kanō Jigorō nel 1882, è uno sport poco rappresentato al cinema; in Italia ha brevi momenti di visibilità, soprattutto nelle settimane olimpiche. Ma non occorre una conoscenza approfondita per seguire una trama che ben presto si trasforma da racconto sportivo a thriller politico. È uno sport di combattimento, si vince o si perde, a volte basta una sola azione rapida e decisa per sconfiggere l'avversario, a volte ci si ritrova a lottare bloccati a terra per secondi interminabili. 

Gli incontri visti sul piccolo schermo, dove gli atleti sono inquadrati a figura intera per la maggior parte dell’incontro, possono risultare indecifrabili ai non esperti; mentre quelli messi in scena nel film riescono a essere appassionanti proprio perché coreografati dilatando i tempi, evitando di sottolineare i particolari tecnici, enfatizzando la drammaticità degli angoli di ripresa e delle immagini in bianco e nero, e dando sempre modo di capire intuitivamente quando la protagonista è in difficoltà oppure se la sta cavando bene. La componente mentale è decisiva, soprattutto perché Leila deve cercare di dimenticare tutto ciò che sta accadendo attorno a lei e il tempo a disposizione è poco. 

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Tutto si svolge con un incedere rigoroso, ogni categoria di peso affronta la competizione nel giro di poche ore dai turni preliminari alla finale: il regolamento sportivo garantisce al film l'unità di tempo, ed è un tempo in cui bisogna prendere decisioni rapide sul tatami e fuori, e l'unità di luogo, nel palazzetto dello sport che ospita sia le prestazioni sportive riprese dalle telecamere, sia la segreta battaglia politica che si vorrebbe tenere ben nascosta all'interno delle aree ad accesso riservato. Ma è noto che storie simili a quella di Tatami siano capitate molte volte agli atleti iraniani, soprattutto negli sport di combattimento; la stessa federazione iraniana di judo è stata sospesa per quattro anni, tra il 2019 e il 2023, dopo che il judoka Saeid Mollaei ha vissuto una situazione simile a quella del film. In Tatami però emerge con potenza la scelta di una protagonista femminile, una donna che si identifica col suo corpo di atleta del quale lo stato iraniano reclama il possesso: nella lotta per mantenerne il controllo risuona chiaramente la rivoluzione delle giovani donne iraniane, che usano i propri corpi come strumento di lotta politica e elemento di sovversione.

Il judo, poi, non è solo uno sport: è una filosofia i cui principi etici fondamentali sono ottenere la massima efficienza col minimo sforzo e il benessere reciproco. Il primo concetto implica che nel judo non vinca solo la forza bruta: anziché tentare di resistere senza speranza contro chi è oggettivamente più forte, ci si deve adattare alla disparità, evitare lo scontro diretto, far perdere l’equilibrio all’avversario, e in questa maniera anche il più debole può sconfiggere il più forte. Un’immagine perfetta per rappresentare la resistenza delle donne che affrontano un regime brutale e violento, usando con intelligenza i media digitali e servendosi del potere simbolico delle immagini. 

Il secondo concetto, l’aspirazione finale di prosperità e beneficio reciproci, sembra invece un auspicio lontanissimo, almeno fin tanto che resterà al potere l’attuale clero sciita. Le riprese di Tatami in Georgia si sono svolte quasi in segreto; tutti gli attori iraniani che vi hanno lavorato vivono in esilio; in Iran non verrà mai distribuito. Eppure, come Amir Ebrahimi ha affermato a Locarno con una punta di malizia, i film vietati dal governo sono disponibili nei circuiti illegali iraniani un paio di mesi dopo l’uscita nel resto del mondo; anche Tatami, anche Shayda, verranno visti. Una bella rivincita: contro un regime che prova a perseguitare perfino all’estero i suoi oppositori, attraverso il cinema chi è in esilio può ritornare in patria, e raccontare anche l'indicibile.

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