Lavorare meno e salvarsi la vita

3 Agosto 2023

Dalle grandi disillusioni si può essere travolti. Ci si abbandona a un flusso che viene visto come ineluttabile, si resta fermi e dal crollo si viene cancellati, annullati. Oppure si può uscirne attraverso un movimento laterale, che non asseconda il moto della slavina, attraverso uno scarto. Il saggio di Francesca Coin Le Grandi dimissioni. Il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita (Einaudi, 282 pagine) è un libro su un fallimento e suoi modi possibili di sottrarsi ad esso e di salvarsi. 

Il fallimento, ormai evidente nei suoi tratti essenziali nonostante il pervasivo apparato di costruzione del consenso all’opera per velarlo, è quello di un modello produttivo focalizzato sulla svalorizzazione (sia in termini economici sia in termini culturali) del lavoro. I modi per sottrarsi rientrano nella modalità della diserzione: dire no al lavoro svalorizzato. Sul concetto di svalorizzazione del lavoro e sul suo rapporto con la grande fuga dalle fabbriche, dagli uffici, dagli ospedali, dalla catene della grande distribuzione e della logistica, Coin, sociologa che studia i meccanismi che legano l’universo produttivo contemporaneo alle forme sempre più pervasive di diseguaglianza sociale, richiama l’analisi comparsa di recente (nel gennaio del 2023) nello spazio “Diario della crisi” che l’economista Christian Marazzi cura sul sito on line Euronomade. Delineando i tratti di un nuovo ordine energetico (e monetario) mondiale e i trend della politica industriale a livello planetario, Marazzi scrive che le Grandi dimissioni si spiegano «alla luce del fallimento dell’efficiency model, il modello della produzione snella focalizzato sulla contabilità finanziaria dei centri costo e sulla svalorizzazione del lavoro. È un esodo dal Grande logoramento». In gioco, secondo Marazzi, «è la tenuta di un modello di gestione aziendale basato sulla produzione snella, il just in time, la flessibilizzazione della forza lavoro e l’outsourcing». Analisi, quella di Marazzi, inscritta in una linea di ricerca che negli ultimi anni ha messo in evidenza i limiti di un modello di produzione basato sulla svalorizzazione del lavoro. Le Grandi dimissioni nascono dal Grande logoramento del lavoro. In questo solco si muove anche il saggio di Coin. 

Il libro apre richiamando i mutamenti politici e culturali dentro i quali vanno inserite le Grandi dimissioni. La svalorizzazione del lavoro si attua attraverso un processo lungo e contrastato, ma dotato di una sua coerenza di fondo. È un processo che dal fordismo e dal New Deal giunge sino alla crisi dei sistemi di welfare in Europa e all’avvento dell’“efficiency model” richiamato da Marazzi. Un passaggio da un sistema di bilanciamento tra interessi del lavoro e interessi aziendali (pur dentro un quadro saldissimo di comando capitalistico) a un sistema in cui i “trattati di pace” vengono stracciati, il compromesso viene annullato (insieme con le visioni politiche che, a partire da quel compromesso e contro quel compromesso, puntavano a un ribaltamento rivoluzionario) e al lavoro viene riservato, sempre di più e sempre più apertamente, un ruolo di variabile dipendente, in un equilibrio regolato dal libero movimento dei mercati in un contesto di mondializzazione e di finanziarizzazione dell’economia. «Negli anni Sessanta e Settanta – scrive Coin – i sogni assumevano ancora una dimensione collettiva. Un’intera generazione ha desiderato di abolire il lavoro e la proprietà privata, sconfiggere la diseguaglianza e le gerarchie sociali, sopprimere il colonialismo e il patriarcato. Sulle soglie degli anni Ottanta queste grandi visioni collettive hanno lasciato spazio a un’epoca di riflusso […] In quella nuova fase i sogni erano diventati individuali. Era finalmente possibile abbandonare gli armamentari ideologici del secolo scorso, diceva la politica, e celebrare la morte del concetto di classe».

La svalorizzazione del lavoro si realizza attraverso un passaggio storico in cui, nella lotta che li vede confrontarsi sin dalla loro nascita, il lavoro perde e il capitale vince. «Il lavoro salariato – nota ancora Coin – non era più una forma quotidiana di violenza, come si diceva negli anni Settanta, né era ciò che rende la vita “orrenda”, come sosteneva lo scrittore Charles Bukowski. Era uno strumento di cui servirsi per inseguire un progetto personale di libertà. […] È così che inseguendo i propri sogni [individuali] la mia generazione si è trovata, nel corso di due decenni, a essere catapultata da un’epoca, come diceva Francis Fukuyama, segnata dalla fine della Storia […] a un’altra segnata dall’apocalisse climatica e dalle visioni distopiche della fine del mondo. E, repentinamente, da un’epoca in cui ciascuno aveva il sogno di darsi da fare a un’altra in cui “nessuno vuole lavorare più”».

Nessuno vuole lavorare più. Dopo quarant’anni di controrivoluzione neoliberista, in molte delle sue forme il lavoro è diventato un inferno dal quale un numero sempre maggiore di persone, in ogni parte del mondo, vuole scappare. Le Grandi dimissioni sono «uno sciopero generale non dichiarato». Ad analizzare le dimensioni e i tratti essenziali di questa valanga, che pare inarrestabile, sono dedicati i capitoli centrali del saggio di Coin, a partire da quella che è ancora la più grande economia mondiale, l’economia statunitense. Negli Usa nel 2021 quarantotto milioni di persone hanno lasciato volontariamente il lavoro, un dato superiore di sei milioni rispetto al precedente record del 2019. Nel 2022 un nuovo picco, con 50 milioni e mezzo di americani che hanno preferito dire di no. E non sembra che sia un fenomeno passeggero. «Rispetto alle analisi iniziali – scrive Coin – che consideravano l’aumento del numero delle dimissioni come un processo temporaneo e congiunturale, le analisi recenti parlano di una tendenza di lungo corso».

Lo rivela, tra gli altri, uno studio del fondo di investimento Black Rock pubblicato nel 2022 con il titolo “After the Great Resignations”, secondo il quale – rileva Coin – il numero di dipendenti che hanno lasciato il lavoro in rapporto all’occupazione totale è salito dal 28 per cento del 2019 al 32,8 per cento del 2021. Nel 2009 il tasso di abbandono era al 15 per cento, a indicare una tendenza di lungo periodo le cui cause vanno ricondotte a fattori strutturali». Tutti i dati più recenti vanno a conferma di questo andamento. Con una importante ulteriore determinazione analitica: anche quando dal lavoro non si fugge, nei suoi confronti si assume un atteggiamento di distacco lontano anni luce dalla retorica theatcheriana «il mondo è un campo infinito di opportunità e se ti impegni potrai realizzare tutti i tuoi sogni». «Qualcuno – specifica Coin – ha usato il termine quiet quitting per descrivere questo fenomeno: la decisione di fare il minimo indispensabile, senza identificare con il lavoro l’intera propria vita». 

Ma non è solo negli Usa che le cose vanno così. Il fenomeno della fuga da condizioni di lavoro non ritenute più accettabili interessa anche l’altra grande economia mondiale, quella cinese. «Negli ultimi mesi – scrive Coin – il rifiuto del lavoro è un tema rilevante in Cina, dove il movimento di protesta Tang Ping (“sdraiarsi”) nasce come forma di resistenza al 996, un sistema che richiede di lavorare dalle nove del mattino alle nove di sera per sei giorni alla settimana. […] Dietro questa protesta c’è la critica a un modello produttivo fondato sul superlavoro, che pone le persone nella posizione impossibile di dover scegliere tra il rovinarsi la salute per lavorare o smettere di lavorare e non avere soldi per vivere».

All’inferno del superlavoro che uccide la risposta è “sdraiarsi”: se possibile abbandonare, altrimenti fare il minino, rallentare, adottare una tattica di resistenza passiva. Dopo lo shock della pandemia al Tang Ping si è aggiunto un altro movimento, il Bailan (“lascia che marcisca”), che «non consiglia solo di sottrarsi al sistema, ma di lasciare che questo si deteriori, come si confà a una macchina produttiva irrimediabilmente compromessa e impossibile da riformare».

E in Italia? Alla situazione nel nostro Paese sono dedicati i cinque capitoli centrali del saggio di Coin, che in premessa mette in evidenza l’anomalia tutta italiana per cui tassi elevati di disoccupazione si combinano con la crescente difficoltà delle imprese, nei più svariati settori, a reperire manodopera, «un contesto nel quale domanda e offerta [di lavoro] spesso non si incontrano più». Il fenomeno delle Grandi dimissioni è in Italia forte come negli Usa, con la differenza che negli Stati Uniti nel 2022 la disoccupazione è stata ai minimi storici, mentre in Italia nel terzo trimestre del 2022 c’era un tasso di disoccupazione del 27,9 per cento, che arrivava al 23,71 tra i giovani. «Il punto – scrive Coin – è comprendere da che cosa derivi questa anomalia. Per quali ragioni c’è chi rifiuta un lavoro anche se ne ha bisogno». Per fare questo Coin ha raccolto le testimonianze dirette di uomini e donne che, prima di dimettersi, hanno lavorato in settori cruciali dal punto di vista dell’attuale crescente disallineamento tra domanda e offerta di lavoro: sanità, ristorazione e commercio, con un capitolo a parte sulle cause dell’uscita dal mercato del lavoro delle donne.

Ne esce fuori un quadro segnato dalle criticità di un sistema produttivo in cui i “fondamentali” del modello neoliberista assumono tratti specificamente italiani. Criticità che riportiamo così come le riassume Coin: un tessuto costituito per il 95 per centro da micro e piccole imprese la cui organizzazione interna è quasi sempre incentrata sulla figura dell’imprenditore padrone e su una cronica insufficienza di investimenti tecnologici; organici ridotti, al di sotto di ogni ragionevole soglia; contratti precari, part time o in nero; appalti per esternalizzare intere fasi del processo produttivo; cooperative per la fornitura di manodopera con diritti vicini allo zero; una sorveglianza continua fatta di forme di controllo autoritario o di meccanismi di feed-back digitale capaci di tracciare le prestazioni e di aumentare continuamente i carichi di lavoro; discriminazioni sessiste, razziste e contro i differenti orientamenti di genere. Più un ultimo fattore, decisivo: il basso livello dei salari. Dal 1990 al 2020 in Germania i salari sono aumentati del 33 per cento e in Francia del 31. In Italia sono diminuiti del 2,9 per cento.

C’è da stupirsi, allora, delle Grandi dimissioni in atto? «La compravendita di forza lavoro – nota Coin citando testualmente Marx – “non è un rapporto risultante dalla storia naturale e neppure un rapporto sociale comune a tutti i periodi della storia”. Esiste solo all’interno di precise condizioni storico-sociali e si estrinseca in uno scambio che ha, come limite minimo, il valore dei mezzi di sussistenza “fisiologicamente indispensabili”. Quando il valore del lavoro scende al di sotto di questa soglia, che ne è della compravendita?». Se io lavoro e non mi danno neanche ciò che è per me “fisiologicamente indispensabile”, non esiste alcuna regola naturale eterna che mi obblighi ad accettare di entrare nel meccanismo della compravendita. Ma c’è solo questo calcolo razionale, di ordine in sostanza economico, dietro le Grandi dimissioni? No, c’è dell’altro. Come mostrano le interviste (tutte molto belle) di Coin, donne e uomini si dimettono, in definitiva, perché vogliono salvarsi la vita. «Perciò le persone rifiutano di lavorare: per vivere. Perché la vita non è una merce». Se non si capisce questo, il rischio è che si resti prigionieri delle negatività di un modello produttivo che, nella sua pretesa di mettere al lavoro la vita intera, marginalizza, umilia, uccide, e così è divenuto «incapace di offrire un futuro diverso rispetto al collasso climatico e alla guerra sociale». La scelta è, e non solo sui luoghi di lavoro, semplicemente tra la vita e la morte.

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