Connessioni ecologiche: Haraway, Stengers e Latour

13 Marzo 2023

“Siamo l’ultima generazione che può agire concretamente per bloccare il suicidio collettivo e garantire un futuro”. Apre con queste parole il sito di Ultima generazione, il movimento ecologista protagonista di recente di atti di protesta non violenta e di disobbedienza civile. Subito sotto si legge: “Le lobby del fossile faranno di tutto pur di mantenere i loro profitti e condanneranno a morte milioni di persone, se necessario. Abbiamo il dovere morale di ribellarci a questo genocidio programmato. Se non protestiamo, se accettiamo questo crimine senza ribellarci, ne saremo complici”. Insieme con le iniziative di Extintion Rebellion, altro movimento ecologista che pratica come metodo la non violenza e la disobbedienza civile, le azioni di Ultima generazione hanno riportato il tema della crisi ecologica se non proprio al centro almeno dentro il perimetro della discussione pubblica.

Perimetro dal quale quel tema era uscito (o comunque era stato marginalizzato) per effetto del terremoto geopolitico innescato dalla guerra in Ucraina. Che si riprenda a discutere sulle soluzioni possibili per arginare danni che potrebbero rivelarsi devastanti, è un bene. Anche se la strada è stretta e in salita. La ventisettesima Conferenza delle parti (Cop 27) fra gli Stati che hanno ratificato la Convenzione quadro delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici, tenutasi lo scorso novembre a Sharm el-Sheikh in Egitto, ha fatto registrare pochissimi passi in avanti, quasi tutti annullati dal ritorno massiccio all’utilizzo dei combustibili fossili e, in prospettiva, del nucleare seguito al conflitto tra Kiev e Mosca. Sul piano strettamente istituzionale – definito dai trattati internazionali, dalle politiche degli Stati nazionali e dalle strategie di attori economici e finanziari globali – siamo allo stallo. Tutto è di fatto fermo, a fronte di un orizzonte eco climatico che non smette di essere allarmante.

In una situazione del genere non c’è da stupirsi se i movimenti che contro gli effetti del cambiamento climatico si battono intensifichino la loro azione. Esiste, a livello internazionale, una costellazione varia che occupa il campo delle battaglie ambientaliste, con contenuti e metodi più o meno radicali. Si va dagli orientamenti più moderati (trovare soluzioni all’interno di un quadro che confermi nella sostanza rapporti sociali ed economici consolidati) sino a strategie che legano la soluzione della crisi climatica alla cancellazione dello stato di cose presente e al suo superamento in un ordine di rapporti, tra gli umani e tra gli umani e gli equilibri della biosfera, radicalmente differente.

A supporto di questa seconda tendenza esiste una produzione teorica che non sempre ha ricadute diciamo di movimento e che invece più spesso si articola in ricerche e in dibattiti che restano nei confini dell’accademia, delle università, dei centri di ricerca, delle riviste. È un universo vasto e multiforme, su un segmento del quale getta luce un testo appena pubblicato da Ombre Corte e curato da Andrea Ghelfi: Connessioni ecologiche. Per una politica della rigenerazione leggendo Haraway, Stengers e Latour” (159 pagine, 14 euro).

A dipanare la matassa di fili che congiungono i tre studiosi, Connessioni ecologiche convoca una squadra di studiosi composta da Carlotta Cossutta, Angela Balzano, Miriam Tola, Elisa Virgili, Francesco di Maio, Mirko Alagna, Gilberto Pierazzuoli, Nicola Capone, Michele Bandiera ed Enrico Milazzo. Che cosa leghi Latour (il pensatore che in sociologia ha ridefinito in maniera radicale il concetto di azione sociale), Haraway (esponente di primo piano del pensiero femminista dei gender studies) e Stengers (critica radicale delle pretese autoritarie del pensiero scientifico occidentale) lo spiega Ghelfi nell’introduzione: “Tra le diverse prospettive teoriche che ci aiutano a pensare il problema della rigenerazione ecologica quelle di Haraway, Latour e Stengers mi paiono particolarmente efficaci in quanto in grado di coniugare una critica dell’umanesimo moderno con una comprensione dell’ecologia oltre la dicotomia natura-cultura”. 

Al centro, quindi, il superamento dell’umanesimo moderno, in un passaggio epocale che rende possibile una visione dell’ecologia e dei suoi temi fuori e oltre le opposizioni che il pensiero occidentale ha istituito nel corso del suo sviluppo, a cominciare da quella tra natura e cultura.

In Latour questo movimento si traduce in una radicale ridefinizione del concetto di azione sociale. “Il reale – nota Alagna a proposito del nocciolo duro del pensiero del teorico francese, è un reticolo di relazioni, connessioni, giunture, mediatori, in cui le entità individuali affiorano come assemblaggi che esistono fintanto che agiscono – finché cioè tengono fronte alle forze disgreganti che attirano verso altre composizioni”. Ciò che veramente esiste non sono gli individui o la natura (tantomeno esiste separatezza tra i due ordini), ma assemblaggi, ibridi in cui soggetti umani, manufatti umani e equilibri biologici si compongono e si scompongono continuamente, in perenne e reciproca tensione.

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Allo stesso modo, rileva Gheffi, “Haraway vede nell’esaurirsi della cultura dell’umanesimo moderno e nel simultaneo decentramento dell’umano rispetto al mondo materiale, alle tecnologie e ad altre specie una condizione di possibilità per sperimentare composizioni socio-materiali più ricche e convivenze multispecie più sostenibili”. Gli ibridi di Latour e il cyborg di Haraway sono concettualmente affini. Stengers, infine. Il volume pubblicato da Ombre Corte termina con un pezzo della studiosa belga, intitolato L’arte di osservare, che è la prefazione all’edizione francese (2017) del libro dell’antropologa Anna Tsing Il fungo alla fine del mondo. La possibilità di vivere nelle rovine del capitalismo (Princeton University, 2015).

Tsing dà conto di una ricerca sui raccoglitori di funghi nei boschi dell’Oregon. Non funghi qualsiasi, ma esemplari di una varietà particolare molto amata dai giapponesi (che la chiamano matsutake) e di fatto estinta nelle isole del Sol Levante per la scomparsa delle foreste che ne erano l’habitat naturale, tanto che è soltanto grazie all’importazione dagli Usa che nei ristoranti di Tokyo può ancora essere gustata. Tsing racconta (il verbo raccontare è il più appropriato) l’intreccio fra tre dimensioni distinte: le vite border line dei raccoglitori; la compromissione degli equilibri ambientali sia nelle terre marginali in Oregon sia nelle aree di urbanizzazione intensiva in Giappone; le dinamiche dei mercati globali.

Sono “storie intrecciate di contingenze”, come le definisce Strangers, che precisa: “Nel lavoro di Tsing le frizioni che collegano i luoghi a interessi e prospettive divergenti lasciano il posto a questi stessi luoghi e a coloro che li popolano […] Non più la Natura o l’Uomo, ma persone e alberi che fanno la storia gli uni con gli altri, gli uni attraverso gli altri, e mai indipendenti dalle loro connessioni con altri ancora”. “Noi sappiamo, voi credete – nota ancora Ghelfi –. Questo è il motto dell’alleanza del Progresso”. Niente di più distante dall’ecologia delle pratiche comuni di Stengers. “Che invece ci suggerisce – specifica Ghelfi – modi per radunarci attorno a ciò da cui dipendiamo: un fiume, una foresta, una scuola, un consultorio, un campo coltivato. Ci invita a pensare a come le situazioni possono essere trasformate se coloro che le subiscono trovano tecniche e pratiche per pensare e agire insieme”. 

Contro le teorie generalizzanti e omologanti attraverso le quali l’alleanza del Progresso costruisce consenso intorno a pratiche di violenza e di distruzione, i tre autori oggetto dell’attenzione di Connessioni ecologiche prefigurano – in un campo in cui ecologismo, femminismo e analisi post coloniale si incrociano e dialogano – un’alternativa che è fatta di pensiero antiautoritario e non violento e di pratiche dal basso capaci di costruire e di agire esperienze comuni in situazioni determinate. “Storie intrecciate di contingenze”, appunto, aperte a esiti multipli, non scontati, compreso quello del fallimento. Ancora Strengers: “Si tratta di imparare a vivere tra le rovine. […] Le rovine sono ovunque. Il miracolo del libro di Tsing è che lei non ignora nulla di tutto ciò. Non ci promette nulla. Ma il suo modo di scrivere, al tempo stesso poetico e preciso, ci impedisce di disperarci, perché rende presenti i mondi multipli e aggrovigliati che, con o senza di noi, anche nelle nostre rovine, i viventi continuano a fabbricare l’uno con l’altro”.

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