Il mondo sonnolento dello scrittore lombardo / L’invenzione. Ritorna Alberto Vigevani

21 Marzo 2017

Stando alla vulgata, la narrativa italiana sarebbe povera di scritture di racconti.

Diversa sorte tocca a lavori brevi la cui natura non è semplice da definire: Vigevani è tra i campioni assoluti di questo pensare alla letteratura. Una produzione novecentesca in confidenza con l’espressione dell’interiorità che, in contesto nazionale, risale a certa Firenze del secondo quarto del secolo Ventesimo, e su di uno scacchiere maggiore coglie l’eco proustiana: doveroso – ma sino a che a punto? – scomodare un universo, anche solo di riferimento, della poetica vigevaniana, dai sodali di “Solaria” prima a quelli di “Letteraura” poi, all’insegna del magistero ideale di Alessandro Bonsanti.

 

Tra altre occupazioni raffinato libraio antiquario e editore, Alberto Vigevani romanziere è tra i massimi prosatori del Novecento italiano. Il silenzio cui l’attualità sembra condannare i testi del lombardo è vinto, di tanto in tanto, dall’uscita di lavori che impongono un’attenzione rinnovata per un’opera capace di sopravvivere alle estati della prosa d’arte e di richiamare, dunque, la critica e i lettori alla fatica di un formidabile quanto mai imbozzolato interprete della letteratura della memoria. Se non bastasse, Vigevani domanda all’attualità di essere letto con una lente nuova, quella di autore ebreo, oltre una modesta «normopatica metodica di critica testuale», per stare alla definizione di Luca De Angelis, che annulla le differenze anziché evidenziarle, e salvarle, mentre lo scrittore ebreo finisce inevitabilmente con lo scomparire «nel confuso regno dell’insignificanza e dell’indifferenziato»: la memoria sulla quale si incardina la poetica vigevaniana, in questo caso, acquisirebbe una coloritura inedita, e certamente più appropriata.

 

Negli ultimi anni Einaudi ha raccolto tutte le poesie di Vigevani (L’esistenza. Tutte le poesie 1980-1992,  2010), e Sellerio ne ha riproposto la narrativa; la nuova occasione per rileggere Vigevani è data da L’invenzione, che l’editore siciliano presenta a quasi mezzo secolo dalla sua prima comparsa. Storia di due adolescenti intorno alla metà degli anni Trenta, l’opera s’inscrive in un filone di “ricordi-racconti” di debito sabiano, ma qui spicca per lo stile che evita l’uso di un cesello di maniera per consegnarsi, piuttosto, a un’epifania naturale di purezza, in una prosa dall’andamento sonoro radicale e capace di accogliere la memoria in un luogo protetto, dove i rumori drammatici delle vicissitudini del secolo passato si spengono, liricamente. C’è da augurarsi che il libretto vigevaniano colga nel segno, consentendo un avvicinamento fresco all’opera del milanese.

 

Nel mondo sonnolento di Vigevani – nascosto da cascatelle di petali di glicine contro «la seta azzurra dei pomeriggi», tinto di soave e gretta dignità di certi sciroppi «che si facevano in casa»: un universo ripreso, definitivamente “protetto” e forse imprigionato nella sua eleganza, novella Sibilla petroniana da epigrafe di Eliot –, il mondo da “plastico di gesso”, con un’immagine di Estate al lago, che gli affezionati di Vigevani conoscono per i luoghi e le persone di Milano ancora ieri, in ore smisuratamente dilatate e «opache quanto le fotografie nelle cornicette di velluto verde marcio» di salotti borghesi arredati con pezzi «passati di moda e non ancora antichi», s’incontrano due ragazzi ebrei, l’io-narrante e il suo coetaneo, l’orfano Leonardo – in una storia sospesa tra invenzione letteraria e possibile resoconto autobiografico, e d’altra parte l’intera produzione del milanese si ramifica narrativamente intorno al seme offerto da spunti autobiografici.

 

 

I due ragazzi, provenienti da un milieu che vanta, insieme ai «robusti nasi semitici», gli orgogliosi baffi risorgimentali degli avi i cui nomi – scrive il Vigevani poeta de Nel cimitero israelitico di Novellara – «evocano sofferte non riscattate esistenze» ed insieme si affacciano all’oggi con «miti sorrisi di morti», nell’Italia della lunga vigilia della catastrofe razziale e bellica, sono a ben guardare i nipoti di un ghetto dal quale la coscienza – il bassaniano “qualcosa di più intimo” – fatica a uscire, e questo ben prima che la follia antisemita sancisca di rinserrarvi una volta ancora, dentro al ghetto, i cittadini di fede israelita.

Mentre l’Italia fascista stenta ad attribuire il giusto significato alla sopraffazione nazista passata sotto silenzio (gli ebrei italiani non fanno eccezione: il fratello della voce narrante, Giorgio, «alla fine confessa di non provare particolare solidarietà verso i profughi che cominciavano ad arrivare. Così risolutamente tedeschi o polacchi che potevamo soltanto sentirli stranieri, e importuni»: come non pensare proprio alla narrativa di un Bassani?), nei mesi dell’ascesa hitleriana, si consuma il rapporto tra due giovani inevitabilmente diversi, per fisico e per carattere. Intrepido e socievole l’uno, solitario e diffidente Leonardo, ammaltato di un male ineludibile che paradossalmente, «secondo una predestinazione che non avrebbe mancato di compiersi», lo salverà da una fine più tragica nella Shoah; cittadino l’uno, e provinciale sul provincialismo del quale «s’incideva anche il marchio di un ebraismo chiuso e dopotutto compiaciuto» l’altro: L’invenzione è la storia di un’amicizia impossibile e di un verosimile torto, compiuto dal protagonista nei confronti di un amico che la memoria scova, e riporta da lontano, amico indifeso che la memoria, adesso, domanda di accettare così da poterlo restituire alla verità dell’esistenza, in una sorte della quale è partecipe simile a molti altri personaggi della narrativa vigevaniana. Leonardo ispira al giovane io-narrante repulsione, e insieme vergogna per «non essere malato»; l’amico sventurato serve al protagonista per piani atti a soddisfare l’ambizione di una superiorità facile ed elementare, quella di chi goda, intanto, d’una salute normale, e “normalmente” di genitori e di amici.

 

Cosa significa però “normale” agli occhi degli adolescenti? E cosa, per il canto della memoria il cui compito – d’ordine magico – è di incantare, etimologicamente di “evocare spiriti” (in modo significativo, una testimonianza di Cesare De Michelis per Vigevani si intitolerà L’incanto della memoria)? “Normale” è conoscere, attraverso l’esperimento dell’esistenza, e esperire: ferendo e ferendosi. Il ragazzo, modello disgraziato d’incompreso chiuso in un «guscio di testuggine» tra il disagio e la sofferenza, incapace di confessioni intime o di dimostrazioni di desiderio, giunge quindi al maturo narratore ora in tutta la sua fatica di vivere, chiuso in un atteggiamento grigio, risultato «d’uno sforzo continuo» d’essere al mondo, in un continuo tentativo di regolazione del mondo. Leonardo arriva al lettore di Vigevani remoto, lontano ed etimologicamente “solo”, pari ad altre prische figure vigevaniane, ritornanti da un aldilà del ricordo (pari ai «remoti miei avi» de Nel cimitero israelitico di Novellara): la memoria in Vigevani, qui come altrove, re-muove, colloca lontano, ma insieme non rimuove. Il passato per forza di cose è sempre remoto, e chiede di essere evocato; è uno spirito. Il racconto di Vigevani in una perfetta corrispondenza con la vita di Leonardo – e meglio, con la sua apparizione – giunge al narratore pari a qualche cosa di remoto così come distante sembra, a fronte dell’obbligo di raccontare, la “storia nella storia” di Leonardo, ovvero il racconto di quella invenzione che dà titolo all’opera, la favola d’un amore – che della favola ha tutte le caratteristiche, già dal primo accenno: «Credo, a riprendere il filo, che le cose siano andate così. Un giorno»... –, escogitata perché l’amico sfortunato penda dalle labbra di chi l’ha architettata: l’ulteriore e definitivo atto d’ambizione alla superiorità.

 

Ed ecco allora apparire Belle, la fidanzata inventata dall’io-narrante, figura che prenderà forma «lentamente, secondo le esigenze del […] rapporto con Leonardo e le domande che lui voleva [fare]. Un ritratto dipinto a due mani»: le trovate amorose, immaginarie peripezie dell’adolescenza, acquistano di conseguenza, piano piano, realtà attraverso la comunicazione all’amico di incessanti ideazioni di particolari sempre nuovi destinati a chi ritaglia per sé, inconsapevole della menzogna, la verità del ruolo di confidente, l’amico sul quale l’io-narrante s’impone, «ancora a Leonardo, attraverso Belle». È un inganno, una slealtà: ma Belle riuscirà ad essere il più acuto desiderio di vita dell’adolescente, in fine del racconto spacciato dal male, curato da zie nubili in una stanza d’opalina. E Belle è la «parte di sudore» che l’amico asciuga a Leonardo sul letto di morte, l’invenzione dapprima crudele che si fa dopo medicamento, mentre il giovane s’impadronisce «del volante di Belle [facendola] andare dove voleva, con le sue congetture»: l’invenzione che produce vergogna per la falsità è al contrario, per l’amico morente, una ragione di vita e forse l’unica. «A forza di parlarmene è come la conoscessi. Mi hai fatto nascere tu, il desiderio. Allora, dimmi…», chiede Leonardo stremato dal male: se non è possibile scordare il parere di Bacchelli il quale, premiando nel ’70 col Bagutta l’opera del milanese, sostiene come questa sia «una storia che nasce dal niente […], fatta di niente, ma del quale non si perde e non si dimentica niente», è necessario riconoscere che il nulla di cui è fatta L’invenzione si chiama “debito”.

 

Un nulla non da nulla: l’io narrante sconta il pegno contratto con Leonardo, e creditrice ne è la sua memoria. Il ricordo ha l’obbligo di pagare l’obolo per sdebitarsi; il giovane vanesio io-narrante impara la verità della vita, e della morte, attraverso la menzogna, e impara il bene – forse – attraverso la pratica, tutta adolescenziale e dunque sospesa tra ingenuità e malizia, del male di un inganno, del tradimento di una fiducia. Belle da ultimo, pur nella sua inesistenza insegna qualcosa in merito all’esistenza che al giovane è preclusa. Così Leonardo, che è un esempio perfetto della letteratura della riapparizione tipica di Vigevani, una figura tra le molte del «ghetto di ricordi, anche non miei» al quale spesso Vigevani torna, Leonardo lascia l’attualità della scrittura nel momento preciso in cui gli è dato di tornarci, anche se solo per un istante: il vaso è riparato.

Quello che torna a essere presente – la vita d’un adolescente, in un pugno di stagioni intorno alla metà dei Trenta – può infine accomiatarsi; può infine dare l’addio, nel dolore di chi per destino ha patito una «cattività che già appartiene alla morte» e, insieme, per sorte è stato ripagato secondo una giustizia necessaria a sottrarlo da un tempo primitivo, quello della giovinezza, che rischia di sprofondare, e definitivamente, in una torpida palude, per citare una formula da Estate al lago.

 

Vigevani conosce il gioco fatale della memoria, e la sua più attuale natura sospesa tra pretesa di un possesso – un obbligo di preservazione e un culto mai scevro da retorica – e la necessità di lasciarne andare i fili a patto, tuttavia, d’aver restituito la dignità al passato, e la giustizia alla storia. Vigevani sa bene che la letteratura inventa, e come questo salvi. E anche la menzogna d’un adolescente può salvare, e dare vita; «Vivo, lo so, / di ciò che non ho / a volte persino / di ciò che non è», scrive in una tra le sue più riuscite poesie: “Vivere di ciò che non è” vigevanianamente significa restituirsi dal passato a un tempo presente etereo, e forse dalla natura oppiacea.

 

Ogni umano ricordo si basa su di un accadimento e insieme su di una allucinazione e la storia, intesa come un’allucinazione, nega l’elegia, quella che l’opera di Vigevani difatti scongiura puntuale. Sulla scena dell’amicizia dei due adolescenti de L’invenzione, ultimo capitolo utile per riscoprire Vigevani, le ombre più cupe del secolo si addensano a dare spessore ad una allucinazione che domanda un farmaco, oltre ogni intenzione di solleticare la commozione: una allucinazione perciò non è mai patetica.

Il ricordo si palesa nella qualità di un torto, subìto e perpetrato, che sta all’uomo raddrizzare: di qui soltanto può passare una salvezza, una laica, ed elegante, severa salvezza. «Nei secoli le ombre / nostre si sommano / in una sola /che ci fa sembrare /dopo morti immortali», e Leonardo di questo racconto – rincontrato in una doverosa, quanto tipica della letteratura di Vigevani, nekuia – è tra questi ultimi, immortale.

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