Un tipo da museo / Joe Colombo e il design del futuro prossimo

3 Novembre 2017

Se per un colpo di fortuna vi ci imbatteste, in qualche mercatino, o magari in un’asta di design, non lasciatevela sfuggire, sebbene sia raro trovarla nella sua vecchia edizione: la 4867, meglio nota come Sedia Universale o Universal Chair, è un pezzo cult. Presente nei più prestigiosi musei del mondo, dal MoMA di NY, al Design Museum di Londra, a quello della Triennale di Milano, al Vitra di Weil am Rhein, tra il 2005 e il 2009 è stata anche al centro della grande retrospettiva, dal titolo Inventing the Future, dedicata al suo autore, Joe Colombo (1930-1971). Partita da Milano, la rassegna ha itinerato per l'Europa, facendo tappa dapprima a Weil am Rhein, poi a Parigi, a Manchester, quindi a Graz e infine a Lipsia. Sebbene questa sedia fosse stata progettata nel 1965, è entrata in produzione soltanto due anni dopo; in seguito interrotta, la produzione è finalmente ripresa nel 2013. Leggera, ergonomica, impilabile e facilmente impugnabile, è indubbiamente anche piuttosto comoda, ma ciò che la rende speciale è il record che detiene, quello cioè di essere la prima sedia in plastica (ABS) realizzata industrialmente ad iniezione utilizzando un unico stampo.

 

Joe Colombo fotografato seduto sulla 4867; la 4867 e i suoi disegni di progetto.


Joe Colombo è stato il più ingegnoso designer del Novecento. Nato a Milano, i tratti distintivi meneghini li possedeva tutti: simpatia, generosità, intraprendenza, sicurezza di sé e capacità imprenditoriale. Era insomma un ottimista-positivista dotato di una grande fiducia nella tecnica, uno che, in quella stagione del boom economico, che a Milano era anche sinonimo di “civiltà delle macchine”, in omaggio alla rivista di Sinisgalli, puntava su un futuro tecnologico. Ma il futuro a cui Joe Colombo pensava era il futuro prossimo, imminente, quasi un “hic et nunc”. Come scriveva lui stesso, tutte le sue creazioni erano: “in sintonia con il presente e orientate ad un immediato futuro”. Quello che si prefigurava era, in realtà, un futuro scevro da qualunque utopia, assolutamente apolitico, ‘meccanico' e – perché no? – anche meccanicistico, molto lontano da quello che poi sarebbe effettivamente stato, ma la sua morte prematura gli ha impedito di scoprirlo.

 

Dopo aver frequentato l'Accademia di Brera, Joe (Cesare all'anagrafe, il nomignolo americano pare lo avesse assunto in omaggio al cantante Joe Turner, conosciuto come il boss del Blues, di cui era fan) si iscrive alla Facoltà di Architettura ma non vi concluderà il ciclo di studi, preferendo dedicarsi alla pittura e alla scultura. Nell'aprile del 1952 aderisce infatti al movimento della Pittura Nucleare, fondato da Enrico Baj e da Sergio Dangelo, con i quali condivideva la passione per la musica jazz, maturando lì la sua spiccata propensione per tutto ciò che era audacemente futuribile e tecnologicamente avanzato. 

Quale amante del jazz, Joe non si limitava a frequentare l’Arethusa, a due passi da piazza Diaz, e il Santa Tecla, all'ombra del campanile di San Gottardo, i due storici locali milanesi in cui si “faceva jazz”, ma insieme a Baj e a Dangelo contribuì alla loro decorazione, dipingendone pareti e soffitti. 

Così racconta Tinin Mantegazza: 

 

Nel dopoguerra, quando aprirono locali come il Santa Tecla o l’Arethusa dove si suonava jazz, andai a decorare le pareti con dei giovani pittori: Enrico Baj, Joe Colombo, Sergio Dangelo. Fondammo un gruppo, Pittura Nucleare, e in seguito diventammo amici di Fontana e di Sassu.”

E ancora Rodolfo Bonetto: 

Di Joe Colombo ero amico. Quando studiavo il jazz all'inizio degli anni Sessanta finivo a mezzanotte e andavo all'Arethusa, in una vietta che sbocca in Piazza Diaz, dove Baj, Dangelo e Colombo avevano decorato un locale tipo esistenzialista.

La cave del Santa Tecla meritò di essere definita la piccola-Sistina-della-pittura-moderna-milanese, purtroppo, negli anni Settanta, quegli sciagurati dei suoi proprietari ne distrussero i preziosi graffiti, gli affreschi e gli altorilievi per far posto ad un allestimento banalmente convenzionale.

 

In alto a sinistra: Milano. Enrico Baj, Joe Colombo e Sergio Dangelo nello studio di Via Teuliè, 1952; Artethusa, un momento musicale, sullo sfondo le decorazioni di Enrico Baj, di Sergio Dangelo e di Joe Colombo, 1951. In basso. Anni Cinquanta. Lino Patruno e la sua band al Santa Tecla, sullo sfondo le decorazioni di Enrico Baj, di Sergio Dangelo e di Joe Colombo. A destra: Giorgio Gaber, Paolo Tomelleri, Gianfranco Reverberi, Luigi Tenco e Rolando Ceragioli, al Santa Tecla.


Di design, Joe inizierà ad occuparsi soltanto a partire dal 1956, dietro sollecitazione dell’amico e compagno d’avventura artistica al MAC (Movimento di Arte Concreta), Bruno Munari, il quale, avendo decretato la fine della pittura, sosteneva che la creatività dovesse essere convogliata verso la produzione di oggetti d’uso su scala industriale. E fu subito grande successo. In una sua intervista, Enrico Baj raccontava che il 1 ottobre 1961 mentre si trovava al MoMA per incontrare Marcel Duchamp, con il quale avrebbe poi stabilito un lungo sodalizio artistico, ebbe modo di leggere i titoli della stampa di quella città (dal Times, al New Yorker) inneggianti al design di Joe Colombo, con espressioni del tipo: “L'America scopre Colombo”.

 

È incredibile come soltanto in poco più di un decennio questo vulcanico artista abbia potuto progettare e vedere realizzata quella innumerevole serie di oggetti (che lui preferiva definire attrezzature: "La terminologia 'arredamento', 'decorazione', 'mobile', è oggi superata dai suoi stessi contenuti in quanto è superato il rapporto tra realtà in cui viviamo, e i vecchi oggetti che servono in una casa devono essere integrativi degli spazi fruibili, pertanto non si dovrebbero più chiamare 'arredi', ma piuttosto 'attrezzature'") che oggi popolano a buon diritto i musei di design, che sono protagonisti dei testi specifici di quella disciplina e persino delle tesi di laurea di chi si appresta a seguire le orme del suo creatore-inventore.

 

Se Le Corbusier aveva concepito la casa come una “machine à habiter”, Joe Colombo la riempie di “macchine per dormire” (il letto cabriolet, il 'closingbed’) e di “macchine per mangiare” (la mini kitchen), e la fornisce di molte delle dotazioni proprie delle automobili (di cui era appassionato, vi ci correva pure e nel 1970 curò presso il Musée des Arts Décoratifs di Parigi, insieme a Roger Tallon, Pio Manzù, Jean-Paul Riopelle, Jean Tinguely e Victor Vasarely, la mostra "Bolide Design", dedicata a quelle auto da corsa in cui la tecnica si coniugasse al design: rassegna divenuta un must del settore) dai cruscotti, ai pulsanti, dalle leve, alle lucine colorate. Nel letto inserisce addirittura un accendisigari (era un fumatore accanito che si faceva ritrarre volentieri con la sua pipa, ovviamente progettata da lui, la Optimal 121), un telefono, un ventilatore, un termometro, un barometro, un igrometro e perfino reostati e altoparlanti, tanto per non farsi mancare nulla. Nel 1969 realizza per la Fiera di Colonia il Visiona '69, una cellula integrata di circa 80 mq, dotata di differenti unità multifunzionali, con cucina, letto, bagno e soggiorno, pensata per una coppia senza figli. Questa comprendeva il blocco ''Night-Cell'' (letto con annesse armadiature e bagno), la ''Kitchen-Box'' (cucina-pranzo) e il ''Central-Living'' (soggiorno). Nel 1970-71 crea infine la Unità di Arredamento Totale (Total Furnishing Unit), esposta in permanenza al MoMA fin da quando vi giunse in occasione della mostra “Italy: The New Domestic Landscape”, curata da Emilio Ambasz.

 

I suoi pezzi sono spesso costituiti da componenti da montare in serie, da cui si può generare un numero teoricamente infinito di variazioni compositive, secondo il gusto e la necessità di chi li utilizzerà. In piena sintonia con i trend del “coinvolgimento”, che caratterizzava anche le coeve esperienze dell'arte figurativa e del teatro, il destinatario finale poteva interagire con il progetto, reinventandolo a suo piacimento. Spesso Joe realizzava le sue “attrezzature”, a mo’ di prototipi, prima per la propria abitazione di via Argelati a Milano, dove sperimentava e metteva in mostra il clou della sua prorompente capacità inventiva. Tra il 1961 e il 1971 finì per riarredarla per ben quattro volte e nell'ultima versione, arrivò a concepirla addirittura con un look sidereo, tipo Discovery, la nave spaziale del film di Stanley Kubrick: “2001: Odissea nello spazio”.

 

Joe Colombo, uno scorcio della sua abitazione di via Argelati; progetto di arredi “a scomparsa”; lampada Acrilica, ideata insieme al fratello Giovanni nel 1964.


Le case da lui progettate, oppure messe a punto a livello sperimentale, erano spesso dotate di pareti scorrevoli, di arredi girevoli, di scale attrezzate come armadi, di piani sfalsati che creavano ambienti giocati su differenti quote, di televisori collocati sul soffitto, di nicchie a scomparsa inserite nei muri e fuoriuscenti elettricamente grazie alla semplice pressione di tasti, di pulsantiere di comando simili a quelle degli aerei e di leve che permettevano di aumentare o di diminuire l’altezza di tavoli e scaffali (il più famoso è lo scaffale modulare kilometro, che sembra galleggiare sulla parete appeso a rotaie invisibili). Lo spazio, poi, era sempre fluido, ovvero privo di ostacoli: liberato da qualunque diaframma o elemento divisorio, consentiva di essere fruito in qualsiasi punto senza modalità prefissate. Quello prefigurato da Joe Colombo era, insomma, un modo di abitare in cui non esistevano luoghi deputati ad azioni stabilite a priori: 

"Uno spazio da organizzare e attrezzare, in tutti i suoi volumi, con elementi adatti alle nostre necessità e corrispondenti alla nostra epoca” – scriveva. – “Si potrà parlare di un contenitore e di un contenuto che, pur essendo complemento l'uno dell'altro, possano all'occorrenza essere svincolati per permettere maggiore flessibilità l'insieme. Il contenitore dovrà essere il più possibile elastico e dimensionato secondo le caratteristiche delle varie zone in cui si svolgeranno le azioni fondamentali dell'abitare, lasciando al contenuto di muoversi liberamente in esso." E altrove: “Io davvero ho progettato e realizzato nuclei Funzionali Autonomi, ho cercato di fondere mobili e elettromeccanica in un’unità programmabile. L'arredo abitativo non solo deve reagire in tempo reale alle sollecitazioni dell'utente, ma tale reazione deve poter essere programmabile per il futuro." 

 

Il suo spiccato interesse per il futuro era già presente nei suoi primi schizzi di "città nucleari" (1952), dove navette spaziali, vie aeree e sotterranee, costituivano lo scenario della vita urbana. Trovo curioso come questo progetto – con le dovute differenze storico-culturali e formali, s'intende – nel suo costituirsi per strati sovrapposti somigli vichianamente alla città ideale pensata da Leonardo da Vinci tra il 1487 e il 1490 per Ludovico il Moro, anch'essa futuribile, vero e proprio prodigio di tecnica e di meccanica.

 

Città


Ciò che contraddistingue tutti i progetti di Joe Colombo, dagli oggetti singoli, ai sistemi di arredo complessi, è la loro intrinseca artisticità (intendo il termine nel significato attribuitogli da Dino Formaggio ne: L'idea di artisticità, Ceschina, Milano, 1962. D'altra parte era quella l’Air du temps), il loro essere cioè imparentati in primis alle coeve ricerche dell'arte e solo in secundis all'industria e alla tecnologia, piegando sempre e imprevedibilmente le ultime alla volontà della prima. Credo consista in questo il segreto della sua originalità, che non ha eguali nel mondo del design ma semmai emuli che, privi di questo humus, hanno trasformato in bizzarro ciò che in lui era ironico e giocoso. Il profondo legame di Joe Colombo con l'arte del suo tempo (sebbene dichiarasse di averla rinnegata, ne è stato invece uno dei più alti interpreti) ha fatto sì che per molti anni egli abbia scelto di condividere lo studio con il fratello minore Gianni, esponente dell'arte cinetica, insieme al quale ha anche firmato alcuni progetti, come la lampada Acrilica, nel 1964, e poco prima di morire il film di presentazione del Total Furnishing Unit, per la mostra “Italy: The New Domestic Landscape”, al MoMA.

 

Oltre allo studio, quello di via Piave fino al 1965 e quello di via Argelati dal 1965 al 1968, i due fratelli condividevano anche il modo di concepire lo spazio, che intendevano mutevole e dilatato e non soltanto nelle tre dimensioni, ma anche nella quarta, quella temporale, vista la versatilità delle loro reciproche creazioni. A tale proposito, quasi nessuno dei pezzi e degli arredi ‘inventati' da Joe è statico o banalmente rigido e in sé conchiuso. Dal più  semplice al più complesso ognuno di essi possiede invece una componente dinamica: la rotazione su un perno di alcune sue parti (Boby, Combi-Center), la trasformabilità lungo un asse orizzontale (Tube Chair), o per mezzo di meccanismi elettrificati (blocco 'Night-Cell'), fino al movimento più elementare dell’impilabilità e della variazione di quota con la semplice sostituzione delle gambe (4867). Spesso è il loro essere dotati di ruote (Living Center) e di sistemi meccanici intrinseci a renderli  mutevoli.

 

Ciascuno di essi, nel suo traslare nello spazio per effetto di un intervento dinamico, subisce una vera e propria metamorfosi determinata e determinabile dal tempo necessario ad azionare i meccanismi o a compiere le azioni necessarie. Essi, insomma, se interpretati in chiave artistica e non solo funzionale, in quanto mobili in divenire, sono dei veri e propri “oggetti cinetici”, imparentati a quelli che, in quegli stessi anni, realizzavano, sempre a Milano, gli artisti del Gruppo T (cui aveva aderito suo fratello Gianni, insieme a Giovanni Anceschi, a Davide Boriani, a Gabriele De Vecchi e a Grazia Varisco) e quelli del MID di Alfonso Grassi & Company, che avevano dato vita alla corrente dell’arte Programmata e Cinetica.

 

Carrello Boby, 1967; Tube Chair, 1969; mini-kitchen, 1963/64; Cabriolet Bed, 1969.

 

Erano gli anni in cui si incominciavano a vedere nelle ricerche di questi giovani artisti gli effetti degli studi di Rudolf Arnheim, pubblicati nel 1954 e tradotti in italiano da Gillo Dorfles soltanto nel 1961 in “Arte e percezione visiva”, dove, sulla base della psicologia della Gestalt, l'autore metteva in evidenza le soluzioni di equilibrio, di forma, di spazio, di luce, di colore e di movimento di ogni opera, attuate dall’artista che l’aveva realizzata. Alla ricerca condotta dagli esponenti dell'arte Programmata e Cinetica giovarono anche gli studi neuro cognitivi sulla fenomenologia della percezione di Maurice Merleau Ponty e quelli di semiotica espressi da Umberto Eco ne l'“Opera Aperta” (1962), dove si sanciva l'avvenuta trasformazione dell'opera d’arte  da “oggetto” in “processo”. Esattamente come stava facendo Joe Colombo nei suoi marchingegni.

 

Un’altra delle prerogative di Joe, che affidava al disegno, nel quale eccelleva, ogni sua comunicazione, consisteva nello sperimentare nuovi materiali, così come avveniva anche nelle esperienze degli artisti cinetici. Egli era uso sfogliare montagne di cataloghi tecnici e frequentare tutte le fiere tecnologiche dove acquisiva notizie sia sui nuovi materiali messi a punto dell'industria, sia sulla componentistica meccanica; dopo averli studiati, collaudatene le novità proposte, le utilizzava in modo assolutamente creativo e imprevedibile nei suoi progetti. Oltre al già citato ABS, impiegato ad iniezione, preso a prestito dall’industria automobilistica, egli si avvalse per primo del metacrilato con un notevole spessore in un oggetto di design. Questo materiale era già stato adottato da circa un decennio dal settore dell'illuminazione, però in fogli sottili, Joe e Gianni Colombo crearono invece la lampada ''modello 281'', detta ''Acrilica'' – che vincerà, nel 1964, la medaglia d'oro alla XIII Triennale di Milano – curvandone un foglio di elevato spessore in modo tale che la luce di una lampadina fluorescente contenuta all'interno della base in acciaio, in virtù delle proprietà di conduzione del materiale stesso, risalisse lungo il corpo trasparente e venisse emessa dalla parte superiore. Nei piani dei suoi tavoli fu tra i primi ad introdurre i laminati plastici stratificati e ad inserire lampade alogene negli apparecchi di illuminazione domestica (1970), con manopole per la regolazione meccanica dell’intensità luminosa ed altre per l'orientabilità del flusso. Usò persino il fiberglass (Elda) prendendolo a prestito dal mondo della nautica.

 

Joe Colombo ha lavorato con le più prestigiose industrie di design, italiane e non, quali: Alessi, Alitalia, Arnolfo di Cambio, Bayer, Bernini, Bieffeplast (B-Line), Boffi, Bonacina, Brionvega, Butz-Choquin, Candy, Carnovali, Comfort, Eleo, Fatif, Flexform, Kartell, Ideal Standard, Oliveri, O-luce, Pallucco, Pozzi Ceramica, Rosenthal, Sormani, Stilnovo, Wittman, Zanotta e molte altre, progettando oggetti, molti dei quali sono ancor oggi in produzione, in quanto tuttora perfettamente rispondenti alle esigenze di vita per cui erano stati creati, oltre ad essere divenuti vere icone di estrosità.

Nel 2015, Milano, la sua città, gli ha dedicato una strada, situata tra a Piazza Gae Aulenti e Piazza Alvar Aalto, nel quadrilatero dell'architettura. Sarebbe auspicabile che presto approntasse anche uno spazio espositivo permanente dove ospitare e mostrare al pubblico le sue opere, perché Joe Colombo è davvero un tipo da museo.

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