Regressione letteraria? / Lolita al tempo di “Me too”

7 Aprile 2019

1. “No, non pubblicherei Lolita” avrebbe detto recentemente un editore, Dan Franklin, allo scrittore Will Self. Nell’articolo “Lolita troverebbe un editore nel 2019?” (Il foglio, 23 marzo), da cui attingo queste informazioni, si sostiene (sembra sia ancora Will Self a parlare) che “Se fosse inserito nei programmi universitari (un grande ‘se’), sicuramente susciterebbe una reazione automatica di indignazione perché ‘la trama del romanzo è lo stupro sistematico di una ragazza giovane’”. Il clima culturale a cui l’articolo fa riferimento è quello oggi imperante negli Stati Uniti: il trionfo del politically correct, con una serie di conseguenze, tra cui la particolare facilità di pubblicare storie da parte di scrittrici giovani, etichettabili come BAME (nera, asiatica, e di una minoranza etnica) o LGBT (lesbo, gay, bisessuale, transessuale).  Siamo attraversando “una regressione letteraria”, si dice nell’articolo: un’espressione azzeccata, che merita riflessioni più ampie.

   

Ci sono diversi punti che andrebbero approfonditi. Anzitutto, la regressione che introdurrebbe meccanismi di censura nei confronti uno dei più bei romanzi del XX secolo non deriva solo dall’ideologia femminista nella versione più rozza, che si è attualmente intensificata ma non nasce certamente oggi. Ricordo, tra l’altro, un articolo di Mario Vargas Llosa che invitava le femministe a non accanirsi ciecamente sulla letteratura, e in cui si menzionava con tono sconfortato il giudizio di una scrittrice: “Non farei mai leggere Lolita a mia figlia”. La faziosità femminista (e tutto ciò che prolifera nei cultural studies) trova i suoi punti di forza nelle semplificazioni intellettuali, a cui almeno l’Università dovrebbe opporsi: invece, dobbiamo constatare e temere ancora di più il contrario, e cioè che il romanzo di Nabokov scateni indignazioni perché ‘la trama del romanzo è lo stupro sistematico di una ragazza giovane’. 

  

Ma un romanzo come “Lolita” è forse riducibile alla trama? La battuta di Woody Allen “Ho letto Guerra e pace in 20 minuti. Parla della Russia” ci diverte perché solo un minus habens potrebbe leggere Guerra e pace accontentandosi della trama. Non c’è nulla di divertente, invece, nel dover pensare che l’unico motivo di condanna ideologica nei confronti di Lolita potrebbe essere la riduzione alla trama, all’argomento (questo romanzo parla di uno stupro reiterato). Siamo di fronte a una forma di analfabetismo probabilmente inestirpabile, almeno in relazione a persone di scarso livello culturale, oppure totalmente chiuse nel loro specialismo professionale: ma che questa mentalità torni ad essere dominante anche in editori, giornalisti, docenti universitari, è intollerabile (o dovrebbe essere giudicato tale). 

  

Vorrei richiamare però l’attenzione su un altro punto: è raro che una semplificazione ideologica cammini solo con le proprie gambe; quasi sempre si appoggia e si consolida grazie a un’altra semplificazione, meno visibile. La semplificazione oggi di moda su cui si appoggia la miopia femminista e LGBT (perché non servirsi di questa etichetta per rovesciarne la direzione e smascherarne la faziosità?) consiste nell’esaltazione dello storytelling. Non credo di dover rimarcare quanto diffusa sia questa esaltazione, nel mondo della comunicazione, evidentemente, ma anche in molti corsi universitari, e nella nuova narratologia di matrice cognitivista. Sembra che raccontare sia essenzialmente collegare delle azioni, e che il ‘come’ della narrazione efficace consista unicamente nella capacità di sorpresa e di intrattenimento. Si celebrano le serie televisive. Si dice che sono bellissime. Quante di loro lo sono? La casa di carta è molto avvincente. In molti altri casi non si riesce ad andare oltre la prima puntata. Ma anche La casa di carta conquista lo spettatore allo stesso modo in cui I tre moschettieri hanno conquistato la nostra fantasia quando eravamo ragazzi: alcune trovate narrative irresistibili e un gruppo di personaggi (un attante collettivo, diceva la narratologia classica), tra i quali scegliere il nostro eroe. Per quanto mi riguarda, non avrei mai continuato a leggere I tre moschettieri se i protagonisti fossero stati soltanto Athos, Porthos, Aramis. E tuttavia: bellezza è una parola polisemica, e non dovrebbe venir frantumata nell’equivocità. 

   

E lo stesso si dovrebbe dire per le emozioni: nessuna di quelle che proviamo leggendo il romanzo di Dumas somiglia all’emozione provocata (virtualmente, in chi è in grado di provarla) anche solo dalla prima pagina di Madame Bovary. Ricordate la descrizione del berretto di Charles? In proposito, vale sempre la pena di leggere il commento (il bellissimo commento) di Toni Tanner (L’adulterio nel romanzo, 1979). Si entra in un mondo che non è quello del “patetico”, delle reazioni emotive pre-confezionate, ma – in quale mondo? La psicoanalisi non si stanca di sottolineare la differenza tra l’Io e il soggetto. L’io è solo una parte del soggetto, è un’entità parziale: è quella attraverso cui passa ogni gratificazione? Sì e no, si dovrebbe rispondere. Sì, perché l’Io non è scavalcabile. No, perché il soggetto è più ampio, e le emozioni più importanti (l’amore, per esempio) non trovano un territorio abbastanza ampio per dispiegarsi, se ci limitiamo a zone di periferica trasparenza e a reazioni immediate.

  

Ph Tabitha Barnard.


Non insisto adesso in questa direzione, che diventerebbe troppo complessa. Torniamo a Lolita. Basterebbe leggere non distrattamente la prima pagina – uno degli inizi più belli nella storia della letteratura – per acquisire anticorpi sufficienti a respingere qualunque delirante condanna ideologica. Dovrebbero bastare le prime righe: “Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi. Mio peccato, anima mia. Lo-li-ta: la punta della lingua compie un percorso di tre passi sul palato per battere, al terzo, contro i denti. Lo. Li. Ta”. Queste righe ci dicono che stiamo per leggere un libro in cui la trama non è separabile dallo stile, dai modi della scrittura: l’onnipresente ironia, il biliguismo anglo-francese, il linguaggio funambolico. Non riesco a frenare il mio entusiasmo ogni volta che mi capita di rileggere, ad esempio, la descrizione della lotta tra Humbert Humbert e Clare Quint. Una lotta grottesca, non-mimetica, che trasforma improvvisamente la narrazione (lo storytelling) nella coniugazione di un verbo! “Ci rotolammo per tutto il pavimento, l’uno tra le braccia dell’altro, come due bambinoni incapaci. Lui era nudo e puzzava di capra sotto la vestaglia, e mi sentii soffocare mentre rotolava sopra di me. Rotolai sopra di lui. Rotolammo sopra di me. Rotolarono sopra di lui. Rotolammo sopra di noi” (Adelphi, p. 371).

Con un minimo di onestà, dovremmo ammettere in ogni caso che “Lolita” è un romanzo imperniato su due trame: quella che riguarda il protagonista e la ragazzina, e quella che riguarda Humbert Humbert e Quint, il suo diabolico “doppio”. Le due trame hanno pari importanza.

 

2.  D’accordo, si dirà: ma resta la pericolosa scabrosità della prima trama. In che cosa, però, dovremmo vedere un pericolo? Nell’empatia, evidentemente, nella forza seduttiva che un pedofilo eserciterebbe su lettrici troppo giovani (“non farei mai leggere questo romanzo a mia figlia”, come asserito dalla prudente femminista). Empatia è attualmente una nozione assai abusata, che ha favorito troppe semplificazioni: un altro effetto deleterio, prodotto dal cognitivismo. Anzitutto: l’empatia non è un meccanismo irresistibile, ma soltanto una possibilità. Può scattare oppure no. I nazisti, per riprendere un’argomentazione già utilizzata da altri, non provavano empatia verso gli ebrei. Quanto alla letteratura: l’entusiasmo suscitato dai personaggi di Dostoevskij è assai più forte di una banale empatia, eppure non spinge il lettore a compiere un omicidio, neanche verso esseri ripugnanti. Insistere sulle virtualità empatiche della letteratura è un grande errore, quale che sia la prospettiva. Quella di Martha Nussbaum, secondo cui “il ruolo delle arti nella vita umana è principalmente quello di nutrire ed estendere la capacità di empatia” (Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, 2010; il Mulino, p. 116) fa coincidere miopia e masochismo. Se la letteratura (la vera letteratura, bisogna dire a questo punto) fosse in grado solo di produrre empatia, perché non sostituirla con narrazioni semplici, con racconti, romanzi o telefilm basati su sentimenti “corretti”? E in cui trovare il conflitto manicheo tra il Bene e il Male, rappresentato da personaggi immediatamente disgustosi?  

  

Humbert Humbert non suscita il nostro disgusto: ma ciò non significa che “empatizzare” con questo personaggio implichi il sorgere di scelte pedofile. Vorrei che non si perdesse di vista il legame tra semplificazione ideologica e concezioni inadeguata della letteratura ma anche dei processi cognitivi. La letteratura è una forma di conoscenza, che ci attrae a tal punto da allontanare ogni impulso mimetico (salvo in alcuni casi, collocabili nell’ambito della patologia: suicidarsi dopo aver letto il Werther, ecc.). L’esperienza estetica, che la letteratura sa creare, è una mescolanza difficilmente decifrabile di emozioni e conoscenza: possiamo dire con sufficiente certezza, però, che l’empatia è la più debole delle reazioni generate da un personaggio complesso, in cui vediamo piuttosto un’interpretazione di possibilità esistenziali. E anche quando si è troppo giovani per interpretare nell’accezione tecnica e concettuale di questo termine, l’adesione all’identità di un eroe problematico – anche quelli condannati alla dannazione (quelli di Dante, ad esempio) – è un incontro con se stessi che porta al di là di ciò che si è. 

   

Lolita è un libro sull’amore e non sul sesso, disse uno dei suoi primi difensori (Lionel Trilling). Una difesa più che giustificabile, rispetto alle accuse di pornografia, ma non adeguata. Lolita costringe a chiedersi che cosa sia l’amore: se sia amore anche una forma di passione estrema, prefigurata da un archetipo angelicato (la Annabel dell’adolescenza, la cui morte prematura sembra aver causato un trauma insuperabile nel protagonista). La risposta è negativa: Humbert Humbert è un perverso. Ma nella sua perversione si fa strada la passione romantica, una dedizione ad ogni dettaglio della persona amata, che rappresenta il suo tentativo di difesa verso l’impulso pedofilo, a cui H.H. purtroppo soggiace. La sua sconfitta non cancella di desiderio di amare “pazzamente, goffamente, spudoratamente, tormentosamente” (p. 21), come le due metà divise nel mito dell’androgino. È nel conflitto tra romanticismo e perversione che H.H. tenta di redimersi. Lolita è la storia del suo fallimento.

 

3.  Le ideologie sono semplificazioni dannose. Nel migliore dei casi sono dei boomerang, che nel corso del tempo favoriscono gli avversari. Sono forme di fondamentalismo, e in quanto tali vanno respinte anche quando propongono valori condivisibili. Non c’è bisogno dell’ideologia per difendere le donne dalle molestie sessuali, le minoranze dalle persecuzioni, ecc. Ma l’ideologia si afferma con tanta più forza in assenza della politica, e questo è uno dei grandi problemi di oggi. In ogni caso la critica all’ideologia, soprattutto nell’ambito della formazione universitaria, non può limitarsi a sottolinearne la povertà: uno dei nostri compiti è indicare la complicità silenziosa tra tutti i discorsi riduttivi, quelli dichiaratamente “politici” e quelli apparentemente neutri. Le “scienze umane” non sono scienze e non lo saranno mai, sarebbe bene non dimenticarlo.

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