Robert Shiller, Economia e narrazioni / Michael Fagan e la regina Elisabetta

6 Dicembre 2020

Come le narrazioni dell’economia diventano esse stesse economia. Nel senso che influenzano i comportamenti economici e ne guidano i cambiamenti. A questo tema Robert Shiller, vincitore del premio Nobel per l’economia nel 2013 (insieme a Eugene Fama e Lars Peter Hansen) dedica un libro, intitolato appunto Economia e narrazioni (Franco Angeli, 2020). Tra le quali l’economista statunitense non comprende, nella lunga trattazione, la più potente delle narrazioni attuali, quella delle serie tv. A una di queste ricorriamo per introdurre il suo libro. È una storia tratta da un episodio della quarta stagione della serie The Crown, nel quale si racconta di quando un disoccupato inglese, Michael Fagan, facendo breccia nella sicurezza di Buckingham Palace si intrufolò nella camera da letto della regina Elisabetta, la svegliò e le parlò. Cinque minuti in cui un cittadino qualsiasi, simile a tanti altri ma più inguaiato di tanti altri, parlò con sua maestà. Nessuno sa cosa le disse, ma gli autori della serie l’hanno immaginato così.

 

“Voglio solo parlarle per raccontare cosa sta succedendo nel Paese. Ci salvi da lei”

“Lei chi?”

“Thatcher. Sta distruggendo il Paese, i disoccupati sono più di tre milioni. Mai così tanti dalla Grande Depressione”

A Elisabetta II, che dice “Disoccupazione, recessione, crimini, guerra, queste cose si sistemano da sole. I Paesi e le persone si rialzano da sole”, Fagan risponde: “Lo pensavo anche io. Prima ho perso il lavoro, poi la fiducia in me stesso, poi l’amore di mia moglie. Al che inizi a chiederti: dov’è andato tutto? … Dicono che ho problemi di salute mentale, ma non è vero, sono solo povero”.

“Lo Stato può aiutarla”, prova a ribattere the Queen.

“Quale Stato? Questo Stato è andato, lei lo ha demolito, insieme a tutto ciò su cui abbiamo sempre fatto affidamento. Un senso di comunità, di obbligo reciproco. Un senso di gentilezza. Sta scomparendo tutto quanto”.

“Io credo che lei stia esagerando. Le persone sono ancora gentili l’una con l’altra e pagano le tasse allo Stato”

“E lei spende quei soldi per una guerra superflua e dichiara che è tornato il fattore benessere. Nello stesso tempo tutto ciò che davvero ci fa star bene – il diritto al lavoro, il diritto di ammalarsi, il diritto di essere vecchi, il diritto di essere fragili, di essere umani, sono spariti”.

 

Pochi minuti. Fagan – poi arrestato, e ricoverato per tre mesi in un centro per malati mentali – ha detto quel che doveva. È una potente contronarrazione, che nell’anno 1982 è la verità di un deviante. Per la narrazione dell’epoca, Fagan non è povero, è pazzo. La storia dominante è quella di Thatcher, “la società non esiste”. I disoccupati non hanno voglia di lavorare, le persone vanno staccate dalla mammella dello Stato, chi cade deve rialzarsi da solo, se non lo fa è perché li abbiamo abituati male, il Paese va cambiato, rivoltato come un calzino.

 

 

Nell’anno 2020 della fragilità pandemica, gli sceneggiatori (e il pubblico?) della popolare serie simpatizzano con il pazzo che afferma il diritto a essere vecchi, fragili, malati.

Il libro di Schiller ci aiuta a capire non solo che la società esiste, ma che il racconto dell’economia influenza la società, come insieme di individui tra i quali le storie corrono, diventano virali, creano delle “costellazioni di narrazioni”. E per farlo ricorre – scrivendo prima del Covid 19 – alla scienza epidemiologica, facendo un confronto tra le curve delle epidemie e quelle delle narrazioni. Per tracciare queste ultime si serve di vari strumenti che permettono la ricerca sull’enorme quantità di archivi online adesso disponibili, anche sulle narrazioni del passato. Attenzione: non è una ricerca storica, non è neanche la proposta di una visione alternativa dei fatti economici, ma un tentativo di “incorporare il contagio nella teoria economica”. Dove per “contagio” si intende appunto il diventare virale di una “narrative”, ossia di “una storia o rappresentazione usata per fornire un resoconto esplicativo o giustificativo di una società, un periodo, ecc.” (definizione dall’Oxford English Dictionary).

 

Il primo esperto di economia narrativa, scrive Shiller, è stato John Maynard Keynes, che nel suo libro del 1919 Le conseguenze economiche della pace predisse l’effetto che il trattato di Versailles, che a conclusione della Prima guerra mondiale impose alla Germania di pagare ingenti danni, avrebbe avuto sul sentimento del popolo tedesco: “La sua intuizione è un esempio di economia narrativa, perché è focalizzata sul modo in cui la gente avrebbe interpretato la storia del trattato di Versailles date le condizioni economiche in cui si trovava. Fu anche una previsione, perché Keynes avvertì, nel pieno del ‘melodramma da due soldi’ in corso sul fronte della politica estera nel 1919, di una guerra che sarebbe scoppiata in futuro”.

Non si tratta dunque solo di incorporare le aspettative irrazionali degli agenti economici nella descrizione e previsione dei loro comportamenti (Shiller è uno dei padri della finanza comportamentale); ma anche di analizzare e capire il contagio delle storie, che sono una componente essenziale della vita umana. Qui l’economista cita Sartre: “Un uomo è sempre un narratore di storie, vive circondato dalle sue storie e dalle storie altrui, tutto quello che gli capita lo vede attraverso di esse, e cerca di vivere la sua vita come se la raccontasse”. Perché il comportamento economico dovrebbe sfuggire a questa caratteristica? Perché l’homo economicus dovrebbe dissociarsi dall’homo narrans?

 

Il libro è una imponente carrellata di narrazioni economiche. A partire da una molto recente, quella dei Bitcoin (la bolla della moneta virtuale), e una famosissima, quella della curva di Laffer: ossia il diagramma – secondo la vulgata, disegnato una sera del 1974 su un tovagliolo al ristorante dove cenava con Dick Cheney e Donald Rumsfeld – con il quale l’economista Art Laffer buttò giù la sua visione del rapporto tra le aliquote e il gettito fiscale e che basò la politica economica del decennio successivo, ossia i tagli fiscali ai più ricchi a opera dell’amministrazione Reagan. Shiller non entra nella contestazione dell’assunto (non nuovo, quello per cui se le tassi di più le persone lavorano di meno), né prende posizione sulla fallacia dell’argomentazione (che fu poi dimostrata dal gigantesco aumento del debito pubblico americano). Quello che gli interessa è il potere del racconto: di un fatto precedente di quattro anni l’arrivo al potere degli interessati; probabilmente falso (la circostanza del tovagliolo fu smentita dallo stesso Laffer); una fake news, diremmo oggi, virale, con due ondate successive della “epidemia di Laffer” nella narrazione economica. 

 

Questo e altri episodi, nell’arco delle quattrocento pagine del libro, dimostrano secondo l’autore un’urgenza, ossia che la teoria economica si aggiorni, incorporando le narrazioni al suo interno. Per farlo, deve dotarsi di strumenti scientifici, per misurare la viralità delle narrazioni economiche: in questo, il fatto che la propagazione avvenga sempre più sui social network complica il quadro ma fornisce anche degli strumenti nuovi e più accurati. Non esiste, constata Shiller, “alcuna scienza esatta che permetta di capire l’impatto delle narrazioni sull’economia. Ma possono esserci metodi esatti di ricerca che favoriscono tale comprensione”. Insomma, metodi quantitativi per indagare la più squisitamente qualitativa delle caratteristiche umane: raccontare le storie, e crederci.

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