Immunità / Pandemia e modello asiatico: cosa è successo?

26 Novembre 2020

Sono sempre a rigirarmi tra le mani la domanda: perché quel pezzo di Asia ha reagito meglio alla pandemia? È l’eredità del confucianesimo che rende quei popoli più capaci di far fronte collettivamente alle disgrazie? È una loro superiorità tecnologica, e quindi i migliori sistemi di tracciamento? O una disponibilità all’obbedienza come noi manco ci sogniamo? O, nel caso della Cina, la dittatura tout court? Nella newsletter asiatica di Internazionale del 31 ottobre Junko Terao intervista Ilaria Maria Sala, giornalista italiana a Hong Kong da vent’anni con una lunga esperienza di Cina e Giappone. “Non credo serva scomodare Confucio,” dice Sala, “il vero elemento che accomuna questi paesi è l’esperienza delle precedenti pandemie. La Sars nel 2013 e la Mers nel 2015…”. Da qui consapevolezza, tracciamento, quarentene, mascherine e molto altro. Ma aggiunge una chicca: “Qui non solo le misure di prevenzione non si contestano (…), ma sono richieste dai cittadini, che non si fidano delle autorità politiche, temono che non facciano abbastanza.” Pensando a quanto negazionismo e riduzionismo abbiamo avuto in occidente, siamo agli antipodi: l’esperienza della Sars ha questo lascito. E quindi, racconta Sala, ecco a Hong Kong le proteste perché la governatrice Carrie Lam non indossa la mascherina, ed ecco lo sciopero dei medici che riescono a imporne l’obbligo oltre a ottenere la chiusura del confine con la Cina.

 

Io ricordo un dialogo su wechat con un amico cinese in febbraio: da una cittadina dell’Hubei a cento chilometri dal centro di Wuhan mi raccontava la loro paura, il terrore di chiunque davanti al morbo sconosciuto: ce la raccontano tutta, o minimizzano? A Hong Kong le persone cominciarono a indossare le mascherine già ai primi di gennaio, quando filtrarono le prime notizie su uno strano virus polmonare: e chi si fida, del governo cinese? Anche ascoltando la bella intervista video a Simone Pieranni resta impressa la sua frase: “La popolazione era terrorizzata.” (Eppure consiglio di ascoltarla per intera, l’intervista, perché è forse la cosa più completa sulla reazione cinese alla pandemia, e non solo sul rapporto tra potere e popolazione: l’utilizzo della app, dell’intelligenza artificiale, il 5g come supporto, il riconoscimento facciale, tutte cose per le quali è evidente l’entusiasmo di Pieranni). Al di là del terrore, Pieranni torna però ad accreditare il punto sulla tradizione confuciana, e così fa Giulia Pompili sul Foglio del 7 novembre, allargando il discorso a tutta la tradizione culturale dell’Asia orientale: “Se da un lato la politica, in paesi come il Giappone e la Corea del sud, può e sa essere spietata, dall’altro nel momento dell’emergenza i cittadini sanno di doversi attenere a delle regole per il bene pubblico, della società.” E, oltre la Sars e la Mers, ricorda le numerose emergenze per catastrofi naturali in Giappone, che hanno allenato le persone al rispetto delle misure di prevenzione. 

 

Pieranni e Pompili ripropongono quella visione: Confucio, tradizione, esperienze di pandemie precedenti in Asia, in contrapposizione a un individualismo occidentale e a una pratica un po’ anarchica della democrazia. Proverei una diversa interpretazione. In quei paesi ogni reazione, per così dire, antisistema, non si è mai rivolta nella direzione di una negazione della pandemia, ma al contrario in quella del timore che questa venisse sottovalutata dai governi. Al diffondersi della notizia del virus wechat (il social media autorizzato e di larga diffusione in Cina) si era riempito delle proteste indignate degli utenti contro le censure governative (soprattutto quelle ai medici di Wuhan che cercarono di dare l’allarme per tempo). L’ondata (di haters, diremmo noi?) era di tale intensità che il Partito decise di lasciarla fluire, anche perché, come nota Pieranni nella videointervista, questo consentiva al governo centrale di avere notizie di prima mano su quanto accadeva a Wuhan e altrove. Insomma, in questi paesi che, con l’eccezione del Giappone, hanno visto una crescita tumultuosa negli ultimi decenni, e un indubbio miglioramento delle condizioni di vita dei più, la sfiducia nei confronti del governo non è legata al lavoro, all’economia, ma alla capacità di protezione sanitaria: quindi, altro che negazionismo, e invece richiesta di misure di contenimento e ovviamente adesione piena a quelle. E siccome il web e i social si nutrono di indignazione, questo è stato il messaggio ‘populista’ prevalente: dateci protezione.

 

Da noi è accaduto il contrario. Dopo due decenni di impoverimento di vaste fasce della popolazione, e di crescita della sfiducia nei confronti di élite visibilmente sorde alle difficoltà dei più, e anzi inclini a lezioncine sulle compatibilità economiche e sull’austerità, l’insorgere dell’epidemia viene visto con sospetto, e ha buon gioco chi presume che ci stia dietro un inganno: mi impedite di lavorare, ma io a voi non credo e quindi non aderisco alle richieste delle autorità. Forse l’origine delle diversità tra modello asiatico e modello occidentale sta qui. E se alla sfiducia verso le élite si aggiunge la cacofonia informativa che scandisce le nostre giornate, ecco che la frase più scambiata diventa “non si capisce niente”, quindi altra sfiducia. Sala ricordava come in tutti i paesi dell’area, non solo nella Cina della censura, non sia partita la sagra “degli esperti onnipresenti a dire la loro in alternativa o in contrapposizione alla linea ufficiale.”

 

Foto di Greg Girard.


Corollario occidentale: se la possibilità di discussioni piane e razionali arranca, ci si aggrappa all’emotività, quindi alla paura nei giorni di primavera, e invece a un senso diffuso di averne le scatole piene ora che siamo in piena seconda ondata: queste sensazioni guidano il giudizio, che forma una vox populi, in primavera ho paura e bravo chi mi protegge, in autunno sono stufo e al governo sono tutti rimbambiti. Ma devo dire che sull’Asia un elemento mi manca, ed è quanto i visionari, i fuffologi e i venditori di se stessi abbiano impestato anche il loro sistema dell’informazione.

 

Tutto ciò detto, resta il fatto che il ‘modello asiatico’ ha avuto un’efficacia tale che, davvero, anche queste spiegazioni non mi sembrano sufficienti. L’ho già scritto su queste pagine: come è possibile che l’adesione alle misure di contenimento, la capacità di tracciamento, producano differenze così eclatanti? Torniamo su worldometers.info. Clicco sulla nona colonna, decessi per un milione di abitanti, e la tabella mi mette in fila la classifica dei paesi. La Cina ha un tasso di decessi su un milione di abitanti ridicolo. Ricordo che a febbraio e marzo una testata cinese in lingua inglese, Caixin, mi permetteva di capire che quattro su cinque dei decessi cinesi erano nell’Hubei, la regione di Wuhan. Stando ai numeri ufficiali dunque, il restante miliardo e duecento milioni di abitanti ha visto poco più di un migliaio di decessi. Nel paese che ha chiuso Wuhan solo un buon mese e mezzo dopo che il primo allarme era partito, e dopo che tutta la Cina si era messa in movimento per il Capodanno Lunare, il virus non è quasi uscito dall’Hubei. Sono bastate le successive chiusure? In Italia, fuori dalla Lombardia, 50 milioni di abitanti con 17.000 decessi in primavera. Mah? Sempre su worldometers, incredibilmente bassa la cifra di Corea del Sud, Taiwan e Giappone, come ho già scritto, ma anche quella dei paesi del sudest. Laos, Cambogia, Birmania, Tailandia, Vietnam: ma qui cos’è successo, santo cielo?

 

Volete dirmi che c’è stato tracciamento in Cambogia? O che fossero tutti chiusi in casa in paesi dove regna l’economia informale, paesi dove si vive e lavora per strada? Su twitter mi è capitato di chiacchierare con Tommaso Pincio, scrittore con la famiglia residente in Tailandia. Ci era andato a inizio anno, ed è finito poi per restarci fino a luglio. Mi attira un suo messaggio: “In Giappone le autorità sanitarie raccomandano, oltre a indossare sempre la mascherina, di non parlare. Negli stadi è vietato incitare la propria squadra. I parchi pubblici sono rimasti aperti, ma non si può urlare né cantare.” Esprimo i miei dubbi, e finiamo per parlare del sudest: “In Tailandia non c’è questo divieto, ma di fatto è come ci fosse da sempre… in quel paese si urla di rado e spesso ci si rivolge all’interlocutore tenendo bassa la testa e comunque sempre restando a distanza.” Poi ricorda che in Tailandia l’isolamento fiduciario non esiste, ma gli infetti vengono quarantenati “in posti indicati dalle autorità per evitare il contagio domestico.” Cosa questa che a me pare possibile a bassi livelli di contagio, non certo quando l’epidemia comincia a diffondersi. Importante anche la chiusura dei confini, certo “si sono chiusi a riccio”. Poi mi cita degli studi, interessanti, sulla trasmissione aerea, e come, appunto, comportamenti differenti producano effetti lontanissimi tra loro. Accenna solo di striscio a una migliore risposta immunitaria, come possibile spiegazione. 

 

Insomma, bastava quello? Certo ce lo proponevano in Italia: distanze, mascherine, lavaggio delle mani. Come a dire che se tutti i faccioni da teleshow e i politicanti sui social ci avessero ripetuto all’infinito questa litania, l’avremmo scampata? Quel che è successo in Asia orientale e del sudest (persino in Australia e Nuova Zelanda…) non ha eguali in nessuna parte del mondo, Europa, America del nord, del centro e del sud, mondo arabo, Asia centrale, India, Sudafrica, solo l’Africa subsahariana ha numeri bassi, ma si può ragionevolmente pensare a una incapacità di registrazione del virus, a anziani che muoiono nelle baraccopoli e nei villaggi senza passare per sistemi sanitari inesistenti, e a una speranza di vita più bassa per cui i grandi anziani letteralmente non ci sono.

 

Mi apre uno spiraglio di possibile comprensione Massimo Morello, giornalista italiano di stanza a Bangkok, segnalandomi un suo pezzo sul Foglio del lontano 15 luglio. È un’intervista al Professor Bartoletti, esperto di malattie infettive che lavora con l’Università di Singapore: avanza un’interpretazione, “sottolineando come la sua sia una semplice ipotesi, forse azzardata, precisando che stiamo passando a un diverso livello di discorso, quasi una conversazione tra amici.” Molte cautele insomma: ma in sostanza apre una porta sulla possibile maggiore copertura immunitaria al Covid da parte di popoli già in passato esposti ad altri virus, magari Coronavirus. Ecco: non sarebbe il caso di indagarla meglio, questa possibilità? Anche perché io qualcosa devo poter rispondere al mio salumiere, che mi ripete che “qui non si capisce niente,” che “nessuno è in grado di decidere,” e che in Cina l’hanno sfangata perché, beati loro, sono una dittatura. E ho un bel spiegargli per l’ennesima volta che il virus, a Wuhan, è partito perché in una dittatura chi cerca di dare l’allarme non ha strumenti per farlo.

Poi, certo, leggiamo le peripezie di Filippo Santelli, inviato di Repubblica chiuso da più di un mese in un container perché trovato positivo al Covid19 all’arrivo a Nanchino, e ci viene da pensare: lì si che fanno su serio. Ma sono le misure di oggi, la blindatura dei confini, in un paese che ha spento l’epidemia quasi sei mesi fa, e dunque ancora: perché?

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