Una riflessione sulla globalizzazione / Pandemia: un passo avanti e un gradino indietro

23 Febbraio 2022

Quello che avviene nell’epoca digitale è distante. Ampliando l’osservazione di Guy Debord che uno spettacolo non è la relazione degli spettatori con quello che avviene in scena ma degli spettatori tra loro attraverso la scena, tutti i social sono spettacolo. Si presentano come facilitatori di relazioni umane, ma al contrario provocano una terribile solitudine. 

I fruitori, tutti noi che compriamo online anche solo un biglietto del treno, non hanno più a che fare gli uni con gli altri, ma con la tecnologia che è tra l’uno e l’altro. Uno strumento, un mezzo, che come ci ha insegnato McLuhan è in realtà il proprio contenuto.  Il vero messaggio è la solitudine, le lingue naturali ridotte a un linguaggio artificiale, binario, le immagini, che sono doppi del reale, e gli emoj che sostituiscono le emozioni e le loro ambiguità. L’imbarazzo per il nostro corpo, il desiderio di toccare l’altro, la paura di essere respinti, anestetizzato, astratto, traslato, reso virtuale. Siamo così in fuga perenne gli uni dagli altri, arroccati in un’anaffettività in cui tutti i desideri tradiscono le difficoltà di esserci e, temendo di essere prede o predatori, ci rifugiamo sull’isolotto dove gli altri non si toccano mai. Solo le protesi, il telefonino o il computer, si incrociano, ma anche questo è virtuale, si può istruire un computer a produrre insulti o poesia, il tutto senza che nessun umano debba sentire più nulla.

 

La pandemia ha ulteriormente astratto dalla vita: nelle classi di scuola e università, nei luoghi di lavoro e negli spazi pubblici. Il contatto si è semanticamente confuso con il contagio, ci siamo ritirati da baci e abbracci, e certo, lo abbiamo fatto per buone ragioni, ma questo peggiora le cose, aumenta la solitudine. Perché è ragionevole, prudente, necessario, e questa algida assenza diventa il presente e il futuro. 

Anche la percezione della società e del nostro mondo avviene attraverso cifre statistiche, grafici che segnano gli andamenti delle economie, dei contagi, dei flussi enormi di informazioni e della liquidità. Per guardare un film o una partita di calcio, per usare il telefono o la banca, per il passaporto o per amicizia acconsentiamo a rispondere domande sempre più intrusive: di quale sesso siamo? Ci identifichiamo in quello biologico o ne preferimmo un altro? Quale età? Quante volte siamo stati vaccinati? Qual è il numero del passaporto? E come giudichiamo il servizio che è stato offerto? Non sappiamo neppure più bene se chi lo chiede è un privato, Vodafone, un supermercato, oppure un’agenzia governativa. E cosa sarebbe peggio? Essere schedati dallo stato o da un’impresa che può vendere e comprare il profilo di milioni di persone? E dove finiscono questi dati? Chi li ha in mano? 

 

Già prima di acconsentire a che qualunque servizio online ci chiedesse di acquisire informazioni personali, la polizia politica di qualunque stato raccoglieva tutte le informazioni che poteva su tutti i cittadini. Dopo la bomba del 7 luglio del 2005, la polizia inglese è riuscita a riconoscere in pochi giorni i quattro attentatori esaminando i CCTV, riconoscendoli tra milioni di passeggeri in diverse stazioni. Da questo punto di vista le preoccupazioni sui diritti civili espresse a proposito della pandemia non sono sbagliate, ma in ritardo. Siamo tutti schedatissimi e schedabili anche senza vaccini. Anche senza essere la polizia, ognuno di noi è in grado di googlare chiunque, vedere il suo viso, capire cosa fa.

L’erosione al diritto alla privacy e quindi del diritto di essere una persona prima di essere cittadino o consumatore, è avvenuta in una generale distrazione, nella nostra assenza, nel rumore bianco della fine delle trasmissioni televisive. Nella distanza della solitudine digitale. Oggi pare che il mondo si svolga oltre gli schermi dei computer da cui ormai passa tutto, dalle prenotazioni aeree ai conti correnti, dalla posta ai giornali agli incontri sentimentali. 

 

E qui, nella nostra vita, cosa succede? Quanto abitiamo davvero le crisi sistemiche, climatiche, il contrasto tra scienza e non scienza, il capitalismo che forse collassa, i vax e i no-vax, i sovranisti e i globalisti? Siamo davvero di fronte a un nuovo, terribile autoritarismo che ci riduce a cavie di esperimenti continui? Se ad esempio scoprissimo domani che la valanga di tamponi, vaccini, quarantene hanno di fatto ristrutturato le nostre società preparandole a un’epoca in cui baciarsi e toccarsi saranno considerati un male, come già avvenne in altre epoche in cui il puritanesimo spazzò via dall’Europa il Rinascimento, il cristianesimo la classicità greca e romana, il fascismo l’Italia risorgimentale? Sempre proibendo, isolando, reprimendo, spaccando teste e bruciando libri. Condannando a morte Claudio, come in Measure for Measure, perché ha messo incinta una ragazza fuori dal matrimonio.

 

La pandemia è comunque un passaggio importante: si è distesa sulle nostre società presentandosi come la crisi della globalizzazione e contemporaneamente un gradino della sua evoluzione. Questo è tipico del capitalismo, che come spiegava Marx ha sempre bisogno di crisi. Ma in realtà funziona così ogni sistema: cercando di chiarire le proprie regole, si nutre sempre di eccezioni. 

 

 

Ci siamo così abituati, nella narrazione del dopoguerra, a sentirci la democrazia, a coltivare libertà sociali e individuali e ci siamo raccontati che questo modello, economicamente e culturalmente vincente, avrebbe attratto a sé il resto del pianeta. Ma se invece a prevalere nella nostra epoca fosse stato un modello asiatico, centralizzato e autoritario, e Trump, Brexit, i sovranismi, solo i sintomi di un adattamento a un nuovo scenario mondiale dominato da società più autoritarie? Da una parte la pandemia ci ha spinti a ripristinare confini, diminuire il traffico commerciale internazionale, a chiudere frontiere. Si è cercato in altre parole di resuscitare lo stato nazione, con i suoi sistemi sanitari, addirittura l’esercito per organizzare la logistica delle sepolture e delle vaccinazioni, come in una guerra. Sono state misure adottate dai governi di diversi paesi europei in circostanze eccezionali e hanno prodotto un effetto domino, in cui ogni pedina faceva cadere le altre.Non solo nei contagi, ma nelle risposte istituzionali.

 

Dalla parte opposta del nazionalismo sanitario sappiamo che, sia gli interventi della scienza sia l’elaborazione dei protocolli di epidemiologi e politici (anche quelli nazionali), sono in realtà mondiali. Attraverso pandemia, crisi climatica, economica, politica, flussi planetari di informazioni, si elabora e costituisce un potere mondiale che sta rapidamente passando dalle prove generali a un esecutivo di fatto molto più potente dei governi nazionali, che ci sono apparsi alla rincorsa affannosa di norme imposte dalla scienza in una pressione sovranazionale. Sono in questo forse più pericolose le profilazioni dei consumi culturali, la musica o le serie televisive che ormai si guardano al computer, perché pescano i soggetti nello spazio del non lavoro, quello che una volta si chiamava vita privata, e che mercifica aspettative sentimentali, desideri, psicologia.

 

Anche tutto questo finisce nei poteri sovranazionali? Prevale sistematicamente su qualunque maggioranza politica espressa dai singoli paesi un interesse di cui noi siamo in realtà, tragicamente, gli azionisti. Lo siamo perché al supermercato, nel cercare i prezzi più bassi, nutriamo il mostro che mette in ginocchia l’industria alimentare. Lo siamo perché frustrati dal non trovare un pezzo di ricambio in un negozio ci rivolgiamo ad Amazon, ed è proprio questo comportamento che mette in ginocchio il negozio locale che riesce di conseguenza sempre meno a fornirci l’oggetto che cerchiamo. Dai ferramenta alle librerie, dai negozi di scarpe agli empori di paese. Negozi che erano anche comunità, clientele, così come lo erano i giornali o persino la televisione. Nessun giovane legge giornali o guarda più la televisione, seguono canali a pagamento per lo sport e le serie. Viviamo in tribù solipsistiche che non espongono all’esistenza di altri, ma confortano il noi. Siamo tutti sempre più deboli di fronte all’espandersi di un virus che ben più profondamente del Covid digitalizza ogni aspetto della vita, trasforma gli incontri umani in chat attraverso piattaforme online, in incontri online dove non ci sono più neppure i corpi delle persone. 

Non c’è da stupirsi se tanti oggi cerchino disperatamente una definizione identitaria in cui le caratteristiche sessuali siano sempre più sfumate, contro il fatto che gli uomini e le donne esistano davvero e siano diversi. Precipitiamo in una perdita del genere che è perdita dell’essere umani.

 

Il processo non solo non ha sosta, ma si nutre delle sue crisi e riscrive le regole di tutti noi. Dalla crisi delle torri gemelle in poi siamo entrati nella crisi climatica e quindi in quella pandemica, e ad ogni passo si è risposto con il rafforzamento di sistemi di sorveglianza e sicurezza che i governi nazionali hanno messo in piedi. 

Questo è il vero significato del 6 gennaio a Capital Hill, questa è Brexit, questo il nuovo fascismo in cui stiamo precipitando. Non un’eccezione, purtroppo, ma uno sgretolamento istituzionale continuo, regolare, dove alla gestione della cosa pubblica subentrano i servizi di grandi corporazioni multinazionali. Ci troviamo di fronte a una massiccia privatizzazione, le poste che cedono ai corrieri, la BBC che cede alle reti private. 

Il risultato è l’erosione dei contenuti politici dei governi che ci porta a usare il termine fascista in modo generico contro la violenza, l’oppressione, il maschilismo, persino contro attori istituzionali come i professori o gli agenti delle tasse. 

 

Al centro di questa crisi perenne c’è una domanda che accelera il nostro allontanarci dalla cosa pubblica: vale la pena continuare a lavorare? È questa la vita che vogliamo vivere? Oggi non sono gli hippies a porla, ma la piccola e media borghesia: anche qui le statistiche fanno più confusione che chiarezza, ma parliamo del 30% di dipendenti che negli USA (e quindi presto anche da noi) abbandonano il lavoro. Qualcosa di simile avviene anche in Cina. Del resto come possiamo non chiederci se la vita valga la pena di essere vissuta? se non ci sarà più tempo per innamorarsi e far figli, ma solo la necessità di nutrire un mostro di cui siamo tutti azionisti, di quale futuro stiamo parlando?

 

Se USA, Cina, Russia e Europa convergessero nella politica sui vaccini, come già convergono nel dire cosa sia la scienza, e dietro a questo patto, magari per vaccinare tutta l’Africa, si trovassero a cooperare anche in altri settori, integrandosi e mutando in un unico sistema, sarebbe un bene? Certo sappiamo che i disastri climatici non li possiamo governare in altro modo. Ma gli accordi che si prendono, non finiscono poi sempre per favorire il governo del mondo da parte di un minuscolo gruppo di miliardari, smantellando gli stati in nome di un libero commercio dove fioriscono proprio le corporazioni più distruttive? Non sono gli Airbnb a distruggere l’industria alberghiera? L’internet a polverizzare i giornali? La grande distribuzione, Amazon, a distruggere il commercio locale? 

 

Sono domande che nel porsi in tutti noi, anonimamente, quasi fossero anche loro prodotte dalla rete, illuminano il modo in cui si articolano passaggi che abbiamo davanti agli occhi. Gilles Deleuze e Felix Guattari, che per primi descrissero questi fenomeni contrastanti (deterittorializzazione e riterritorializzazione) hanno sempre parlato di resistenza. Come Freud. Io direi innamorarsi, incontrarsi, vivere. La vita, e non solo quella umana, pone le uniche domande che possiamo davvero abitare. I corpi, nostri e degli altri animali, e le piante, le pietre, i ghiacciai, sono la resistenza, sono l’esistenza.

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