La responsabilità della testimonianza / Un ricordo di Anna Bravo

10 Dicembre 2019

L'8 dicembre è mancata improvvisamente Anna Bravo. Nata nel 1938, la storica e docente all’Università di Torino ha dedicato il suo lavoro di studiosa e militante ai temi della politica, della guerra e della violenza nel '900, con particolare attenzione alla storia delle donne e dei movimenti. Nei suoi studi, innervati da una costante tensione morale, ha praticato con forte personalità una storia sociale capace di mettere in luce le forme di Resistenza senza armi e quella nonviolenta; in quelli dedicati alla deportazione, alla morte e alla sopravvivenza nei lager nazisti ha sottolineato la specificità della condizione femminile e la centralità della testimonianza.

Nelle righe che seguono Bruno Maida ne tratteggia un ritratto personale in cui emergono la sensibilità, la dolcezza e la cura con cui ha saputo dare grande profondità umana alla sua ricerca.

(Enrico Manera)

 

Venticinque anni fa venne organizzato a Torino un convegno dedicato alla deportazione femminile nei Lager nazisti. Era il primo in Italia e a volerlo fortemente, lavorandoci come sempre con forza e convinzione, era stata Lidia Rolfi. L’introduzione fu affidata, direi naturalmente, ad Anna Bravo. Il suo fu un intervento di grande intensità che non solo faceva il punto sulla memorialistica e sui problemi storiografici ma che apriva molte strade di ricerca.

A rileggerlo oggi ci si accorge purtroppo che quelle strade sono state percorse solo parzialmente. Il mio ricordo di quel convegno è però legato a un intervallo. 

 

 

Seduto sugli scalini appena fuori dall’aula del Consiglio regionale, insieme ad Anna, Lidia ed Edith Bruck, ascoltavo i loro commenti sul convegno, sul maschilismo delle associazioni dei reduci, su quanto andava fatto per mettere al centro la specificità femminile nella vicenda della deportazione e dello sterminio. Ricordo soprattutto due sensazioni. La prima di profonda gratitudine per il fatto che quelle donne, indipendentemente che fossero storiche o testimoni, ma che comunque per me erano fonte quotidiana di conoscenza e riflessione, mi accogliessero in quella piccola provvisoria comunità (e che presto avrei capito che non era affatto provvisoria).

 

La seconda era legata alla chiara consapevolezza che il loro legame era profondo e che Anna poteva essere una interlocutrice privilegiata per due donne deportate a Ravensbrück e Auschwitz perché il loro era innanzitutto un rapporto umano e tra donne. 

Lo avrei compreso meglio da lì a poco quando il mio legame con Lidia sarebbe diventato una vera amicizia e quando un pomeriggio avrebbe tirato fuori da un cassetto uno scartafaccio chiedendomi di trasformarlo insieme in un libro. I quarant’anni che ci dividevano furono cancellati in poche ore e quel libro lo scrivemmo davvero. Dopo la sua pubblicazione, preceduta di pochi mesi dalla morte di Lidia, chiesi ad Anna, seduti nel suo salotto, perché secondo lei Lidia avesse voluto scrivere quel libro con uno come me, che aveva appena iniziato la sua professione di storico. E lei mi rispose, senza esitazione, che Lidia aveva scelto me come testimone.

 

Qui non conta se avesse ragione o meno, ma la lezione che appresi. Quello che Anna mi stava insegnando, o meglio facendo capire, è che la storia non è solo fatta di e da persone ma che bisogna prendersene cura, sapere che sono fonti e allo stesso tempo pezzi della tua vita, anche per un unico tratto di strada, e che solo facendo così puoi meritarti che ti regalino – davvero, senza troppa retorica – le loro storie e le loro parole. È una responsabilità, la stessa che ritroviamo in ogni pagina che Anna ha scritto, un basso continuo che unisce, senza bisogno di dirlo, acribia storica, etica e umanità. Quella stessa responsabilità che ha reso per me necessario scrivere, qualche anno dopo, la biografia di Lidia. Quando la portai ad Anna, fu lei a ringraziarmi, guardandomi e sorridendomi, con un’aria di approvazione che me per voleva dire moltissimo e che in fondo significava che avevo fatto il mio dovere. 

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