Intervista a Nicolas Negroponte / Per una nuova ecologia delle idee

10 Novembre 2018

Produrre un’intera auto con una stampante 3D. Coltivare oggetti come fossero piante, piantandone i semi e aspettando che crescano. Imparare una lingua straniera semplicemente inghiottendo una pillola, capace di produrre apprendimento direttamente a livello neuronale. Sono solo alcune delle “previsioni di futuro” – invero piuttosto ardite – che Nicolas Negroponte, leggendario fondatore del MIT Media Lab e pioniere degli studi di interazione uomo-computer, ha lanciato al suo pubblico negli ultimi anni. E per quanto lui stesso rifiuti con studiata discrezione il ruolo di aruspice dell’era digitale, è difficile non credergli, quando si ripercorrono i progetti e le visioni che il suo team ha prodotto dagli anni 70 a oggi.

Era ancora un giovane ricercatore del MIT, ad esempio, quando iniziò a sperimentare interfacce video sensibili al tocco e sistemi di riconoscimento vocale. I monitor erano ancora enormi scatole grigie e gli schermi pozzi neri lampeggianti di pixel fluorescenti, ma il futuro era già alla porta. «Era l’inizio di quella che avrei chiamato informatica sensoriale e tutti pensarono che fosse ridicolo» ha raccontato sul palco del TED qualche tempo fa. «Vennero pubblicati studi per spiegare quanto fosse stupido usare le dita. E la motivazione principale era che, toccandolo continuamente, lo schermo si sarebbe sporcato…». E ancora: libri elettronici, una telecamera montata su un’auto per tracciare e registrare i percorsi su strada, un programma informatico di gestione per servizi di taxi privato. Tutte idee che venti o trent’anni dopo si sono tramutate inesorabilmente in realtà. 

 

Oggi Negroponte continua a immaginare il futuro attraverso la tecnologia, ma la sua preoccupazione principale è diventata l’uomo, il suo ruolo sociale e il suo benessere reale e duraturo. Il diritto alla connessione, l’educazione dei più giovani, una cultura genuinamente collaborativa, ma soprattutto una nuova “ecologia delle idee” sono i temi che gli stanno più a cuore.

«C’è una enorme siccità, una vera e propria carestia di idee. La maggiore parte delle persone pensa che siamo inondati da idee, che non ne abbiamo mai avute così tante: visioni, opinioni, progetti sempre nuovi. Ma è un miraggio». Le migliori menti della nuova generazione, spiega, sprecano il proprio talento per progetti minimi e irrilevanti oppure vengono assorbite dalle grandi corporazioni della new economy. Abbiamo una app per ogni esigenza quotidiana, ma in pochi si dedicano davvero ai grandi problemi della comunità. Per farlo, suggerisce, bisogna tornare a fare (e farsi) domande assurde, quelle che farebbe un bambino di cinque anni. Come dorme una giraffa? Perché quando ci si guarda allo specchio la destra diventa sinistra ma l’alto non diventa il basso? Trovare risposte sempre più coraggiose o fantasiose a queste domande, come farebbe appunto un bambino, è per Negroponte la via per un nuovo modello di apprendimento. Per rieducarsi a pensare e in questo modo ricominciare a inventare. 

 

In più di un’occasione lei ha dichiarato che oggi l’accesso a internet andrebbe considerato un diritto universale, da garantire a ogni persona in ogni luogo. Allo stesso tempo, però, la questione della protezione dei dati personali sulle piattaforme digitali, strettamente legata alla “frenesia da connessione”, diventa sempre più delicata – basti pensare al caso di Cambridge Analytica e alla recente normativa europea GDPR. È possibile trovare un equilibrio tra questi due diritti, ugualmente importanti?

 

Confrontare la questione dell’accessibilità con quella della privacy può essere, in realtà, fuorviante. È un po’ come contestare la fotografia in base all’uso che se ne può fare, come la pornografia ad esempio. Certamente da un lato serve una sempre maggiore educazione al mezzo e al tempo stesso un sempre maggiore progresso del mezzo stesso, ma la violazione della privacy è solo uno dei possibili rischi che bisogna affrontare in questo processo. Insomma, terrei separate le due questioni. Non possiamo incolpare i processi di educazione e alfabetizzazione digitale in sé per i molti possibili effetti o ricadute che ne derivano.

 

In che modo il diritto universale alla connessione può essere garantito e da chi?

È una questione interessante. Certamente non saranno le grandi corporazioni a occuparsene. E probabilmente neppure i governi, perché sarebbero troppi gli attori in gioco. Dovrà invece occuparsene una qualche forma di settore pubblico globale. Un po’ come è avvenuto per la Convenzione sul diritto del mare o il Trattato sullo spazio extra-atmosferico, accordi globali su questioni che travalicano i singoli paesi, ma sulla cui importanza siamo tutti d’accordo: aria pulita, acqua non inquinata e così via. L’acqua pulita è un diritto per tutti e non è detto che solo i paesi che si affacciano su mari e laghi debbano esserne responsabili. È un problema globale, che è neppure così oneroso come si potrebbe credere, ma anzi potrebbe essere risolto in modo abbastanza semplice nell’ambito di un’economia globale.

 

Opera di Ian Cheng.


I dati rappresentano oggi un valore prezioso in ogni campo: non solo per gli esperti di marketing, ma anche sempre più per governi e istituzioni. Secondo alcune teorie di innovazione pubblica, è tempo che parte di questo valore economico venga “restituito” ai normali cittadini, ad esempio usando i dati personali come una risorsa comune per costruire servizi pubblici più efficienti. Utopia o possibile realtà? 

Ci sono molti modi per trasformare i nostri dati in un bene comune, ma per farlo occorre separare questa prospettiva dalla convinzione da parte dei singoli di poterne ottenere una qualche remunerazione. Sempre più le persone pensano: “Dovrei usare i miei dati personali per guadagnare qualcosa”. Ma è un atteggiamento sbagliato. Pensiamo all’Europa: nel complesso sul tema della privacy dei dati la legislazione è piuttosto avanzata, eppure ci sono casi di persone che muoiono perché la legge non consente di condividere i dati sanitari in modo da ottimizzare la ricerca di una cura. Bisogna quindi bilanciare bene i due aspetti: il bene pubblico è, appunto, pubblico, non individuale e bisogna essere molto severi nel valutare ciò che lo caratterizza. Il generale, il bene pubblico non è qualcosa di cui la gente si preoccupa molto: siamo diventati una società molto egocentrica: “io, la mia posizione, il mio lavoro, i miei successi…”. Ed è un modo di pensare molto americano o europeo, meno tipico invece delle culture asiatiche. 

 

Secondo alcune teorie, l’importanza crescente dei dati sta creando una sorta di “supremazia” del pensiero quantitativo, come se qualunque cosa possa o debba essere quantificata e valutata in termini numerici. Cosa ne pensa? Davvero tutto può essere convertito in dati?

A dire il vero non sono un grande fan delle misurazioni. Oggi tutti assicurano che misureranno l’impatto di ciò che fanno. Ma io mi chiedo: perché farlo? Se devi misurarlo, significa che non è così grande. L'impatto di qualcosa dovrebbe essere così evidente da non richiedere alcuna misurazione. Ora, l’auto-evidenza è una facoltà umana relativamente astratta e certamente possiamo capire molte cose dall'autoevidenza. Personalmente, quando si tratta di comprendere i fenomeni, preferisco un ragionamento molto più intuitivo, ovvero processi di pensiero che, diversamente dalla misurazione dei big data, non possono essere automatizzati.

 

Più di una volta le sue ricerche si sono rivelate quasi delle “previsioni”, considerate assurde all’epoca in cui vennero formulate. Sappiamo, tuttavia, che le previsioni non sono questione di magia, ma di decodificare e comprendere accuratamente i possibili sviluppi del tempo presente. Quali “assurde previsioni” possono essere fatte, oggi, in base alle tendenze attuali dello scenario digitale? 

Non direi che ho fatto o tantomeno che continuo a fare previsioni. Quello che ho fatto è stato essenzialmente estrapolare conclusioni possibili dalle condizioni esistenti, il che è decisamente più semplice. Penso ad esempio ad Alvin Toffler, che di fatto non ha mai prodotto nulla: ha letto, studiato e infine estrapolato i fatti. Ma lo ha fatto benissimo. Ecco, quello che facciamo è in fondo semplice: lavoriamo su un progetto nel laboratorio e immaginiamo cosa potrebbe succedere. E tuttavia, se proprio vogliamo parlare di previsioni, forse oggi la più importante è che il mondo digitale avrà solo un ruolo minore nel futuro a lungo termine. Il grande cambiamento – che pure, si potrebbe replicare, è comunque una sorta di digitalizzazione – va piuttosto cercato nel campo della biotecnologia, nelle sperimentazioni in biologia sintetica. Si tratta, a mio avviso, di un cambiamento enorme, grande quanto lo fu la rivoluzione digitale 30-40 anni fa. 

 

Questa intervista è tratta dal numero #2/2018 di ICS magzine, edito da Pomilio Blumm.

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