Cosa significa essere umani / Uno, nessuno, centomila

8 Gennaio 2019

Ma non eravamo uno, unitario, stabile e immodificabile? No, pare che ci siamo moltiplicati? Ma dov’è, o meglio dove sono, allora? Ma chi, di cosa parli? Di me, di te, di cosa vuoi che parli. Beh! Te, me, non è poi così facile stabilire dove finisci tu e comincio io. E il contesto, poi dove lo metti? E dove metti quello che siamo e facciamo senza esserne coscienti? Mi confondi e non ti seguo, mi inquieti! Smettila! Vedi, basterebbe che ti chiedessi da dove viene la tua inquietudine: da te, da me che ti parlo di queste cose, dal tuo inconscio. E dov’è l’inconscio? Non è mai stato possibile localizzarlo o localizzarli, perché di questi tempi c’è chi dice che ne abbiamo più di uno. Eh! Ma questo è un problema. E poi di cosa è fatto o sono fatti? Niente di materiale, pare. Accidenti, sempre più difficile. Come si fa a parlare di qualcosa di invisibile? Ma è vicino, lontano, dentro noi, fuori? Troppe domande in una volta sola. Ne basterebbe una per creare confusione, figurarsi così. Eh, sì; già per noi esseri umani è difficile fare i conti con l’invisibile, con l’immateriale e con tutto quello che è lontano. Siamo evoluti come specie umana avendo dovuto vivere o sopravvivere con una forte attenzione al materiale, proteggendoci con tutto quello che era vicino e visibile. Se però le cose sono cambiate, e oggi quello che conta e domina la scena è fatto di invisibile, immateriale, virtuale e lontano, perché non riusciamo a riconoscerlo e perseveriamo nel modo di fare e pensare precedente? Ecco che si affaccia l’inconscio: siamo sempre noi e allo stesso tempo ci sembra di non essere noi o non ci accorgiamo di esserlo. Sappiamo che stiamo sbagliando e non riusciamo a fare diversamente. Non smettiamo, come Hobbes, di tentare di purgare le parole che usiamo dall’ambiguità, e non ci disponiamo agevolmente a riconoscere che l’incertezza è parte costitutiva della nostra vita. La gioia e il dolore della scoperta dell’altro e la meraviglia e le fatiche della comunicazione sono le fonti di senso della nostra vita, della nostra individuazione e del nostro senso del possibile. Così come il mistero dell’altro porta con sé la paura dell’incontro e il fascino della scoperta.

 

Non sembra paradossale che la domanda più difficile a cui rispondere riguardi la cosa più vicina, cioè noi stessi: cosa significa essere umani? Troppo vicini, verrebbe da dire, e incredibilmente lontani da noi, non è per niente facile accettare di non essere padroni di se stessi, né è agevole dubitare del fatto che esista qualcosa di cui si possa essere certi. Cerchiamo certezze per rassicurarci e creiamo in continuazione copie del mondo a cui consegniamo la nostra ansia di rassicurazione, fingendo che quelle copie, di volta in volta, siano la verità a cui affidarsi. 

Ce ne stiamo a distanza a guardare il mondo e anche noi stessi, e più scaviamo stando a distanza, più ci sembra di giungere alla cosiddetta realtà. Fino a quando non ci accorgiamo che creiamo copie su copie, copie dopo copie, più o meno conformi all’originale, ma copie. Nel nostro viaggio infinito tra mente e mondo, ognuno si è inventato tante spiegazioni per poi verificarne il fallimento. A un certo punto poi si comincia a capire che forse proprio in quel gioco tra realtà e copia sta la conoscenza che cerchiamo. Qualcosa di simile sostiene con chiarezza e saggezza Eric Kandel nel suo ultimo libro, [La mente alterata. Cosa dicono di noi le anomalie del cervello, Raffaello Cortina Editore, Milano 2018]: “Il nostro cervello ci rende ciò che siamo. Probabilmente siete sicuri di vivere il mondo così com’è, che la pesca che vedete, annusate e assaggiate è esattamente come la percepite.

 

Vi affidate ai vostri sensi per ricevere informazioni precise, in modo che le vostre percezioni e le vostre azioni si fondino su una realtà oggettiva. Ma questo è vero solo in parte. I vostri sensi forniscono le informazioni necessarie per agire, ma non presentano al cervello una realtà oggettiva; forniscono al cervello le informazioni di cui ha bisogno per costruire la realtà.” [p. 20]. “Le informazioni provenienti da ciascuno dei sensi sono raccolte da cellule progettate per captare il suono più debole, il tocco o il movimento più lieve, e queste informazioni sono trasportate lungo un percorso dedicato fino a una regione del cervello specializzata in quel particolare senso. Il cervello analizza poi le sensazioni, coinvolgendo emozioni e ricordi significativi di esperienze passate per costruire una rappresentazione interna del mondo esterno. Questa realtà autogenerata, in parte inconscia e in parte cosciente, guida i nostri pensieri e il nostro comportamento.” [pp. 21]. 

 

Del resto, se anche nell’Aplysia, un semplice animale marino invertebrato a lungo studiato da Kandel con i suoi colleghi, le connessioni sinaptiche possono essere alterate dall’esperienza, sia l’incertezza che le alterazioni e i disturbi, lungi dall’essere circostanze rare, costituiscono il senso e il valore della nostra esperienza, il contesto in cui diveniamo incessantemente quello che siamo. Proprio l’esperienza è probabilmente il luogo in cui guardare per comprenderci. Né lo scientismo esasperato che considera solo i processi biochimici del nostro sistema cerebrale, né la considerazione della nostra biologia come governata dalla nostra mente, ci possono bastare per comprendere qualcosa di più di noi stessi. L’intersoggettività in cui si muove il sistema corpo-cervello-mente nella contingenza dei contesti della nostra vita lascia emergere l’esperienza e narrandola a noi e agli altri diveniamo quello che siamo.

Anche studiando aspetti dei nostri stati emotivi in altri animali siamo in grado di cogliere antecedenti evolutivi che ci riguardano e ci caratterizzano. Kandel mostra come l’approccio biologico alla mente stia cominciando a svelare molti aspetti di noi, fino a coinvolgere la comprensione di alcuni dei processi della creatività e della coscienza. Studiando i disturbi della coscienza, ad esempio, se ne ricavano conoscenze importanti anche sugli stati cosiddetti normali e i risultati suggeriscono che essa non sia una singola e unitaria funzione del cervello, ma che sia costituita da stati diversi della mente in differenti contesti, ancora una volta mettendo in evidenza il ruolo e la funzione della contingenza nell’evoluzione e nella costruzione dell’esperienza. Le nostre percezioni coscienti, inoltre, insieme ai nostri pensieri e alle nostre azioni, sono influenzati da processi mentali inconsci, come approfondiremo brevemente in seguito, in questo contributo.

 

 

Lo studio dei nostri antecedenti evolutivi come, ad esempio, negli esperimenti condotti con l'Aplysia [Eric Kandel, Aprendizaje y Memoria] mostrano la rilevanza della neuroplasticità nella costruzione della nostra esperienza, e il ruolo dell’apprendimento e della memoria. L’integrazione degli approcci di molteplici discipline configura, tra l’altro, la rilevanza di quello che Kandel chiama un “nuovo umanesimo scientifico”, che sta generando una visione inedita della risposta alla domanda “cosa significa essere umani”. Avremo per questa via, probabilmente, la possibilità di comprendere meglio, insieme la nostra unicità e la nostra intersoggettività

 

 

In interdipendenza con i temi di Kandel si pone il raffinato libro di Siri Hustvedt, analizzato da Simone D’Alessandro su doppiozero del 16 dicembre 2018, che ci porta proprio dalle parti di queste fondamentali questioni, fin dal titolo che in inglese è The Delusion of Certainty e in italiano è stato stranamente – o forse non tanto – tradotto: Le illusioni della certezza, (Einaudi, Torino 2018). Del resto la stessa Hustvedt scrive, citando Hannah Arendt, che “per gli esseri umani arrivare a sapere cosa sono gli esseri umani è un’impresa simile a ‘scavalcare la nostra ombra’” [p. 19]. 

 

 

L’autrice ha scritto un libro che opportunamente Vittorio Gallese, in quarta di copertina, definisce “uno dei migliori libri sul problema mente-corpo che abbia mai letto”. E continua scrivendo: “Siri Hustvedt ci accompagna in un viaggio affascinante al cuore di una domanda troppo spesso rimasta senza risposta: cosa significa essere umani?”

È vero che le prove della nostra incompletezza, della nostra mancanza, del nostro comportamento spesso non governato dalla volontà e dalla razionalità, sono sotto i nostri occhi nella vita di ogni giorno. Eppure non è facile accettare la federazione di istanze cangianti e contraddittorie che compongono quello che siamo e diventiamo.

Oggi che la sfida a comprenderci sembra essersi ribaltata e, come scrivono Legrenzi e Umiltà nel loro libro Molti inconsci per un cervello. Perché crediamo di sapere quello che non sappiamo [Il Mulino, Bologna 2018], ci troviamo a “cercare di rispondere alla domanda: «come mai alcuni processi mentali sono consci?»”[p. 43].

Ci viene da reagire con un certo fastidio e persino con indignazione, quando un profondo scrittore ci provoca portandoci nei labirinti della nostra mente e nelle sue fantastiche creazioni: “Forse la medicina e la scienza non potevano spiegare proprio tutto, pensò. Gli entomologi scoprono ancora insetti sconosciuti. La scienza non conosce l’universo e l’universo non sa niente di scienza. Le stelle in cielo seguono la loro natura di stelle. Così le altre sostanze sconosciute che occupano il cosmo. Dunque possono benissimo esistere creature che stanno tra la terra e il cielo.” [Claudio Piersanti, La forza di gravità, Feltrinelli, Milano 2018; p. 178]. Forse facciamo questo perché non riusciamo a contenere la meraviglia o, forse, non tolleriamo oltre una certa soglia la bellezza, fino a darne una spiegazione che ci trascende. Sempre Piersanti, infatti scrive, con rara altezza narrativa: “Le persone trovano difficile cogliere i rari momenti di perfezione che si manifestano attorno a loro.” [pp. 163 – 164]. La narrazione e la poesia hanno esplorato ed esplorano l’infinito incommensurabile dei mondi esterni con una puntuale mobilitazione dell’infinito altrettanto incommensurabile del mondo interno, tentando le vie dello stupore, come aveva già fatto, ad esempio, magistralmente Daniele Del Giudice [in Atlante Occidentale, Einaudi, Torino 1985]. In quel libro Del Giudice, narrando la porosità dei confini tra mondo interno e mondo esterno, aveva scritto: “Ciò che pensava come una sua posizione era in realtà l’adeguamento a tutto quanto, dall’aereo e da fuori, gli veniva incontro, compresa la sua faccia resa anamorfica dal sole sulla curvatura del plexiglas.” [p. 3]. Siamo in una certa misura tutto ciò che ci viene incontro con cui coevolviamo, parte del tutto in cui ci sforziamo costantemente di definirci, ma quei confini sono mobili e soprattutto, come ogni confine, sono un’invenzione della nostra mente e del costante bisogno di provare a individuarci. Con l’implicazione che se ci riusciamo del tutto implodiamo in noi stessi e se non ci riusciamo almeno in parte, per quanto provvisoriamente, ci sgretoliamo e perdiamo nel nulla.

Nel mondo delle Metamorfosi di Ovidio tutto è dinamico, nella perenne tensione verso l’inafferrabile. Così è pure il mondo dell’inconscio. Il problema è nostro nel cogliere mondi simili, presi come siamo da una propensione alla linearità e a definire causa ed effetto dei fenomeni, con difficoltà per l’immateriale, l’intangibile e gli indecidibili.

 

Fu forse anche per quel suo insistere sulla tensione verso l’inafferrabile che l’imperatore Augusto comminò a Ovidio la relegatio, costringendolo a trascorrere il resto dei suoi giorni nella remota Torni, la rumena Costanza, sul Mar Nero. 

Aggiungiamo alla propensione individuale alla linearità, il rinforzo che deriva dalle discipline, dai loro paradigmi e dalle comunità che le praticano, e può accadere che tacitamente si persista in una posizione e in una visione dei fenomeni assunta in un periodo e che non si riesce a dismettere, anche quando essa è falsificata o basata su un presunto, fallace fin dall’inizio.

Un confronto tra l’analisi di Kandel e quella di Hustvedt può essere utile per approfondire lo stato di avanzamento delle conoscenze su noi stessi e sul nostro essere con gli altri e nel mondo. Per Kandel la nuova biologia della mente emersa alla fine del XX secolo si basa sul presupposto che tutti i processi mentali sono mediati dal cervello, dai processi inconsci che guidano i nostri movimenti da quando colpiamo una pallina da golf, ai complessi processi creativi che sono alla base della composizione di un concerto per pianoforte, fino ai processi sociali che ci permettono di interagire tra noi. “Di conseguenza”, scrive Kandel, “gli psichiatri ora vedono la nostra mente come una serie di funzioni svolte dal cervello, e vedono tutti i disturbi mentali, sia psichiatrici, sia da dipendenza, come disturbi cerebrali.” [p. 36]. Sono almeno tre i progressi della scienza che hanno portato all’affermazione di questa visione: l’emergere di una genetica dei disturbi psichiatrici e delle dipendenze; l’imaging cerebrale che ha associato i disturbi psichiatrici ad aree cerebrali distinte; lo sviluppo di modelli animali di malattie. Secondo Kandel ciò conduce a una convergenza tra patologie neurologiche e psichiatriche dando spazio a un “nuovo umanesimo scientifico, offrendo l’opportunità di vedere come le nostre esperienze e i nostri comportamenti individuali sono radicati in quell’interazione fra geni e ambiente che plasma il nostro cervello.” [p. 47].

 

L’autore, premio Nobel per la medicina grazie alle sue ricerche sui meccanismi biochimici che portano alla formazione della memoria nelle cellule nervose, nel libro si propone di contribuire alla scoperta di ciò che i disturbi cerebrali rivelano sulla natura umana. Chiedendosi come nasca la nostra mente dalla materia fisica del cervello, Kandel fa riferimento alle connessioni molto precise con cui gli 86 miliardi di neuroni del cervello comunicano tra loro. L’alterazione o l’interruzione di quelle connessioni può disturbare i processi cerebrali che danno origine alla nostra mente e portare a malattie come la depressione, la schizofrenia, il morbo di Parkinson. Dallo studio di questi fenomeni Kandel si propone di poter giungere ad approfondire la comprensione di pensiero, sentimento, comportamento, memoria e creatività, tendendo a costruire una teoria unificata della mente. Per farlo considera nel libro, in particolare, il ruolo delle emozioni e dell’integrità del sé, cercando le vie per la comprensione della depressione e dei disturbi bipolari [p. 75]. Si rivolge poi alla capacità di pensare e di prendere decisioni portandole a termine, approfondendo in questo caso le dinamiche proprie della schizofrenia [p. 107]. È poi la volta della memoria e di quello che Kandel chiama “il deposito di sé”, dove l’autore investe in particolare i risultati della sua ricerca per comprendere la demenza [p. 133]. Come aveva fatto in due altri libri di particolare importanza, L’età dell’inconscio. Arte, mente e cervello dalla grande Vienna ai nostri giorni (2016), e Arte e neuroscienze. Le due culture a confronto (2017), entrambi pubblicati in Italia da Raffaello Cortina Editore, nel capitolo sesto del libro Kandel si rivolge a quella che egli chiama “la nostra creatività innata”, cercando di vagliare il rapporto tra i disturbi cerebrali e l’arte [p. 159]. L’attenzione al sistema sensori-motorio porta l’autore a considerare il ruolo del movimento nella costruzione della nostra esperienza e, in particolare, a porre il movimento in rapporto alla patologia di Parkinson e alla malattia di Huntington [p. 187]. Uno degli approfondimenti più rilevanti del contributo di Kandel riguarda l’interazione fra emozioni coscienti e inconsce, analizzate in rapporto all’ansia, allo stress post-traumatico e ai fallimenti nei processi decisionali [p. 207]. Su questi temi l’orientamento seguito dall’autore è quello formulato da Antonio Damasio e, quindi, la distinzione tra “emozione” intesa come componente comportamentale osservabile, inconscia, e “sentimento” con riguardo all’esperienza soggettiva dell’emozione. La struttura del desiderio, il principio di piacere e il libero arbitrio sono studiati dall’autore per associarli alle dipendenze, alla loro genesi e alle loro molteplici manifestazioni [p. 233]. Così come viene affrontata la differenziazione sessuale del cervello in rapporto all’identità di genere [p. 251], per concludere con quello che Kandel chiama il grande mistero del cervello: la coscienza [p. 269].

La prospettiva di Kandel è dichiarata: egli ritiene che il suo percorso di ricerca abbia dimostrato che l’apprendimento e l’esperienza modifichino le connessioni tra i neuroni cerebrali e che sia molto probabile che, “illuminando sempre più funzioni cerebrali, l’imaging cerebrale ci permetta prima o poi di scoprire una base biologica per l’individualità della nostra vita mentale.” [p. 298].

 

A questa visione e a questo approccio, incentrati sull’affidamento all’orientamento scientifico che cerca di spiegare il mentale e il fisico come unità, andando oltre i dualismi, fa da contrappunto di particolare intensità e profondità il percorso tracciato da Siri Hustvedt che, pur mantenendo un rigore analitico costante e pur riconoscendo la necessità di superare i dualismi, sostiene:

“Alcune semplificazioni fungono da veicolo per la scoperta; d’altra parte, però, alcune rischiano di eliminare ciò che più conta.” [p. 154]. Il problema mente-corpo che sta al centro degli interessi di Hustvedt riceve certamente dalla simulazione e dalla riduzione un contributo conoscitivo fondamentale. La studiosa, infatti, scrive: “La simulazione richiede semplificazione e sarebbe e sarebbe sciocco rifiutare la semplificazione o la riduzione come strumenti scientifici. Come i ballerini ritagliati di Matisse sembrano descrivere la musica del corpo umano, un modello semplificato può rivelare alcune caratteristiche essenziali del soggetto di studio. Nella scienza e nell’arte, la riduzione all’essenza spesso è più rappresentativa della descrizione barocca dello stesso oggetto o della stessa storia.” [p. 153]. 

E tuttavia Hustvedt mette in evidenza anche i limiti di quello che chiama “il classico modello delle neuroscienze” nel cercare di comprendere cosa significa essere umani. Anche perché pare che sia importante distinguere “cosa significa” un essere umano da “cosa è” un essere umano, se si considera che per un essere simbolico quale noi siamo all’essere si giunge attraverso la ricerca del significato, l’espressione di aspettative e l’attribuzione di significato. Il classico approccio neuroscientifico mantiene distinti i livelli che aleggiano uno sopra l’altro. In basso ci sono i neuroni, sopra i neuroni la psiche e sopra, o oltre, o attorno alla psiche, c’è il sociale. come questi tre livelli si incastrino resta un mistero. Inoltre il modello è essenzialmente statico.

 

Quello che spesso rimane in ombra è la storia dello sviluppo del sistema nervoso, la storia dell’attaccamento, della memoria e della parente stretta della memoria, l’immaginazione.” [p. 245]. Hustvedt commenta: “È affascinante vedere in quale misura i modelli teorici non solo generano pensiero ma lo limitano”. Se il condizionamento è inconscio e l’aspettativa è conscia, rimane da comprendere come si manifesti la connessione fra le due dimensioni, come cioè si produca l’azione del mentale sul fisico e come si realizzi l’autoregolazione attraverso la memoria inconscia. O è la relazione che, nella nostra intersoggettività costitutiva, mediante la memoria e l’immaginazione, produce quella che Tronik chiama l’espansione diadica della coscienza? Nella complessità di queste questioni si aprono spiragli come quelli relativi agli approfondimenti del modello dell’effetto placebo, laddove si verifica che il contesto psicosociale che circonda il paziente produce un’attività in cui l’aspettativa interagisce con diversi sistemi neuronali e il contesto finisce per diventare il paziente. Capire come le idee divengono persone e come le molecole divengono messaggio è un compito affascinante quanto lontano dalla realizzazione, come sostiene Hustvedt. La strada da fare è tanta e forse lavorare sui pochi punti di accordo può aiutare a percorrerla. “Se c’è una cosa su cui oggi gli scienziati concordano è che esiste un inconscio”, scrive, “e molto di quello che fa la nostra mente accade a livello inconscio. La loro concezione dell’inconscio di solito si distacca da quella freudiana, e ci sono molte controversie su come funzioni nella pratica questa grande realtà sotterranea; nessuno, però, discute più sul fatto che esista e non possa essere ignorata” [p. 253]. 

 

A produrre un rovesciamento necessario nel considerare come siamo fatti e come ci comportiamo concorre un approfondimento sui temi dell’inconscio o degli inconsci.

Se, infatti, si parte da un assunto implicito di base che ritiene eccezionali e rari i “contenuti mentali di cui non siamo consci” [P. Legrenzi, C. Umiltà, Molti inconsci per un cervello. Perché crediamo di sapere quello che non sappiamo; p. 15], non si può che arrivare a trattare come eccezionale tutto ciò che conscio non è. 

Applichiamo questo ragionamento ai modi in cui oggi una certa psicologia e l’economia, con qualche inopportuno avallo delle neuroscienze, considerano l’inconscio o, potremmo dire, si accorgono dell’inconscio. 

 

Se ci fosse bisogno di comprendere la complessità del rapporto che abbiamo con la conoscenza, basterebbe farsi alcune domande a partire dal libro di Legrenzi e Umiltà in cui gli autori, giunti al riconoscimento dell’inconscio, che si affrettano a distinguere come “cognitivo”, propongono di essere approdati a una meta della conoscenza del nostro comportamento.

Perché abbiamo considerato come una scoperta la razionalità limitata se un altro tipo di razionalità non l’abbiamo mai avuto? Come mai siamo capaci di concepire quello che non c’è, una razionalità olimpica e decisioni perfettamente razionali basate su una completa padronanza di noi stessi?

Da studiare e comprendere è come, e possibilmente perché, abbiamo inventato la razionalità olimpica. Quale proiezione è alla sua base e come mai si è affermata quella convinzione, come accade del resto per l’invenzione del sacro o per l’invenzione di ciò che non esiste.

Ora che l’inevitabile riconoscimento dei limiti della razionalità e dell’inconscio o degli inconsci si affaccia al riconoscimento di una certa psicologia e perfino dell’economia, viene da chiedersi dove si è prodotto il gap paradigmatico e perché.

Si può tentare una risposta, posta prima in termini semplici per cercare poi di approfondirla:

 

  • la psicologia è rimasta e tuttora mostra di rimanere prigioniera di un paradigma mentalista e individualistico, trascurando il corpo e l’intersoggettività; né il comportamentismo, né il cognitivismo hanno avuto attenzione per i sistemi emozionali e per la dimensione incarnata e relazionale del comportamento, lasciando in fondo ai margini contributi fondativi come quelli, ad esempio, di William James, di Lev Vigotskij o di Jerome Bruner;
  • l’economia, che pure si è avvalsa ad un certo punto di una certa psicologia per sostenere la crisi evidente del proprio paradigma basato sull’uomo economico razionale, a quale psicologia ha fatto riferimento? Proprio a quella psicologia che assume a riferimento “un-maschio-medio-occidentale-che-gioca-a-carte-da-solo-e-sceglie-sbagliando-ogni-tanto”. Non è difficile rendersi conto che ciò sia avvenuto per affinità e vicinanza di quella psicologia cognitivista che corrispondeva all’epistemologia newtoniana e meccanicistica propria dell’orientamento dominante delle discipline economiche neo-classiche. Nonostante gli sforzi di premi Nobel come Herbert Simon, Daniel Kahneman, Richard Thaler, quel paradigma resiste e genera anche effetti di ritorno sulla stessa psicologia di cui obtorto collo si avvale. 

 

Fa un poco impressione allora trovarsi di fronte allo stupore di Legrenzi e Umiltà (non sappiamo dal libro, peraltro, chi dei due autori ha scritto i capitoli e i paragrafi) che si accorgono che non è il caso di parlare di “razionalità limitata”, per il semplice fatto che quella è la razionalità e siamo stati solo noi a presumerne un’altra, olimpica e assoluta, rispetto alla quale la razionalità incarnata di cui disponiamo ci appariva limitata.

La sensazione che si ha leggendo il libro è di due avventori che giungessero oggi a raccontarci che è la Terra che gira intorno al Sole, nel sistema solare, senza interrogarsi su come fosse accaduto di presumere il contrario; quella sì, una bella questione da spiegare.

Che vi fossero più cose in cielo e in terra di quante ne considerassero i paradigmi della psicologia mentalista e individualistica e l’economia neoclassica, per dirla con Shakespeare, era noto da tempo.

Per queste e altre ragioni è un bel lapsus che l’ultima citazione del libro sia quella del Thomas Kuhn della Struttura delle rivoluzioni scientifiche, dove com’è arcinoto si evidenzia la tenacia dei paradigmi dominanti a persistere alle loro falsificazioni con risvolti di evidenti esercizi di potere nell’evoluzione della conoscenza e della scienza.

Ci vogliono evidentemente altri strumenti per comprendere quelle resistenze e quelle difese a cambiare idea di fronte all’evidenza. E si tratta, con ogni probabilità, proprio di strumenti e variabili che ancora una volta non si vogliono considerare, come se la psicologia del profondo e la dimensione incarnata, relazionale ed emozionale del comportamento umano fossero un tabù non frequentabile; come se l’embodied cognition e la risonanza incarnata (l’embodied simulation proposta da Vittorio Gallese e lo spirito critico fecondo di Siri Hustvedt) che ci indicano la rilevanza dell’intersoggettività, non ci conducessero a un campo di ricerca che, mentre esercita il dubbio, non smette di considerare il monito di Shakespeare richiamato prima: “Vi sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante se ne sognano nella vostra filosofia” [Amleto].

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