Diario 7 / Vertigini al contrario

29 Luglio 2020

Si possono pronunciare tante parole buone sulla montagna e su chi la sceglie per passare un periodo di vacanza, una fuga nel tempo o un’intera vita. Io pronuncio la parola ottundimento. Una parola che in realtà può non sembrare così buona, se è vero che di solito la usiamo per indicare un indebolimento progressivo della vivacità mentale. Eppure se la vivacità mentale è il requisito che dobbiamo sviluppare per sopravvivere nei contesti di civiltà in cui siamo costretti a spendere le nostre vite, il suo indebolimento progressivo, a favore di una capacità di meditazione più distesa come quella che si raggiunge in montagna, rappresenta una conquista notevole.

Immagino che la questione, ridotta all’osso, abbia a che fare con la percezione del tempo. Si sa che il tempo psicologico non corrisponde al tempo matematico, e che ognuno vive questo scarto a modo suo. In città il mio tempo psicologico è spaventosamente più rapido del tempo matematico. In montagna lo scarto si riduce notevolmente. In certi momenti addirittura mi sembra che i due tempi arrivino a convergere.

 

 

La decelerazione del tempo psicologico è ciò che chiamo ottundimento. Ma nel mio caso non ha nulla di patologico, non deriva cioè dalla compressione del cervello né da uno stato morboso del corpo. È un riequilibrio che ha quasi del miracoloso. Quando sono in montagna mi capita addirittura di invertire il rapporto tra i due tempi, il tempo matematico diventa più veloce del tempo psicologico. In questi casi la sensazione che provo è, sì, di ottundimento, ma un ottundimento generativo. Non concepisco cioè pensieri lenti e confusi, ma pensieri lucidissimi, solidi e fermi, pensieri che abitano un tempo meravigliosamente espanso in cui a dominare non è più la frenesia che mi obbliga a completare un pensiero nel minor tempo possibile, in modo da farne insorgere subito un altro, in una concatenazione di pensieri per i quali devo trovare compulsivamente la soluzione, ma una vertigine al contrario. Quando mi trovo in montagna e mi vedo spuntare lungo un sentiero, come se fossi lì per uno scopo meramente decorativo, come se non ci fosse differenza tra me e una campanula o un botton d’oro, la mia mente non cade in preda alle vertigini mentre scruta nell’abisso del tempo matematico, ma è come se fosse il tempo matematico a cadere dentro di me. 

 

Passo le vacanze nell’alta valle Aurina. Domenica ho visitato la chiesetta di Santo Spirito. All’interno della chiesetta, accanto all’altare, è conservato un crocifisso crivellato. Ho letto una storia a proposito di questo crocifisso. Uno spavaldo tiratore, mentre si recava a una gara di tiro a segno, sparò tre colpi contro il crocifisso, centrandolo per tre volte nell’addome. Poi vinse la gara e come premio ricevette un toro. Di ritorno, il toro si imbizzarrì e incornò a morte il tiratore proprio davanti al crocifisso. Da quel giorno i fedeli, dopo aver traslato il crocifisso all’interno della chiesetta, iniziarono a venerare il cristo fucilato che si era fatto giustiziere.

 

 

Quassù non mi incantano i massicci, le creste mastodontiche, le guglie perennemente innevate, gli squarci assolati e verdi, le valli, i laghi immobili, i ruscelli furibondi che discendono lungo i versanti alpini. Mi incantano le mosche che volano sullo specchio verde di uno stagno, sfiorandone la superficie di quel tanto da incresparla, generando dei minuscoli cerchi spiraliformi. Mi incanta la capacità che possiedono questi esserini senza intelligenza di originare mirabolanti forme geometriche nello spazio.

 

Per convincere mio figlio a raggiungere il Klaussee (duemilacentosessantadue metri di altitudine) gli ho raccontato che il Klaussee è un laghetto con delle proprietà magiche, e che nel Klaussee perdura un incantesimo che sdoppia il mondo. Pur essendo un laghetto con delle proprietà magiche, il Klaussee è molto piccolo, direi piccolissimo, un’esigua conca sotto un picco roccioso. Così mio figlio si è convinto a camminare per due ore lungo il sentiero ripido che risale il Monte Klausberg. Ma una volta raggiunto il Klaussee mio figlio è rimasto un po’ deluso, perché il laghetto non sdoppiava il mondo. Allora abbiamo fatto il giro del laghetto, e giunti dall’altra parte abbiamo osservato il tutto. Da quella prospettiva, le Alpi della Zillertal si rispecchiavano sulla superficie del Klaussee. E in effetti sembrava che il mondo fosse sdoppiato, che ci fosse un mondo che sale nel verso degli alberi e un mondo che scende nel verso delle stalattiti. Nel Klaussee quindi era riprodotto un mondo al contrario. Ma a quel punto il problema principale era stabilire quale dei due fosse il Klaussee: il mondo che sale nel verso degli alberi (il mondo in cui crediamo di trovarci) o il mondo che scende nel verso delle stalattiti (il mondo riflesso)? Perché non è affatto sicuro, ho sussurrato a mio figlio, che noi ci troviamo nel mondo che sale nel verso degli alberi. Potremmo essere prigionieri dell’incantesimo del Klaussee, potremmo cioè essere noi stessi nel Klaussee, ossia potremmo appartenere al mondo che scende nel verso delle stalattiti. E se così fosse, ho detto a mio figlio, ciò che in quel momento ci appariva capovolto nel Klaussee era il vero mondo, il mondo che noi non abbiamo mai conosciuto se non come un’idea rarefatta, come una scialba rifrazione.

 

 

Nella piazza del municipio di Campo Tures c’è la scultura in bronzo di una donna che spinge un passeggino con dentro un bambino. La raffigurazione è di tipo naturalistico. La donna e il bambino indossano abiti moderni: la donna ha una sciarpa al collo e un paio di occhiali da sole sulla testa, il bambino ha un berretto di lana, il passeggino è un moderno passeggino.

Venerdì, mentre osservavo la scultura, accanto a me è divampata una piccola polemica. Una signora si lamentava col marito della stucchevole rappresentazione: “La solita, trita riduzione della donna al ruolo di madre”. Al che mi è venuto da fare un pensiero.

Il pensiero riguardava la funzione del naturalismo nell’arte, che è raffigurare ciò che si vede così come lo si vede, senza ricorrere all’idealizzazione del classicismo, e senza asservire l’immagine a una funzione ideologica, come invece fa il realismo. Il naturalismo si fonda cioè sul primato assoluto della realtà oggettiva. In pratica il naturalismo vieta all’artista ogni possibile interpretazione.

Poiché però la realtà non può essere riprodotta così com’è senza il ricorso all’interpretazione, pensavo, il naturalismo è sempre destinato al fallimento. Lo era già nei tempi antichi, quando però la sua funzione consisteva nel documentare, per esempio, le fattezze reali di una personalità eccellente, preservandone l’immagine dalla morte, e quindi dall’oblio. Un problema che per noi contemporanei non sussiste, avendo a disposizione una quantità smisurata di mezzi tecnologici capaci di catturare la nostra immagine in divenire, a prescindere dal nostro grado di eccellenza come individui. Proprio per questo a un artista contemporaneo dovrebbe essere richiesto ciò che è negato dal naturalismo, ossia il ricorso all’interpretazione. Se non c’è interpretazione, pensavo, il naturalismo contemporaneo non assolve alcuna funzione, immortala nient’altro che la propria inutilità.

 

Ora, siccome la donna e il bambino in questione sono stati ritratti con un’esplicita pretesa naturalistica, ma senza passare attraverso il filtro dell’interpretazione, la scultura appare come un perfetto monumento all’inutilità dell’arte naturalista contemporanea. Quale che sia il messaggio che l’artista ha voluto veicolare – ammesso che con quell’opera abbia voluto proporre una visione così gretta del ruolo sociale della donna – in quel momento ai miei occhi la scultura non aveva alcun significato, valore e senso.

Allora, pensavo, la funzione celebrativa che viene accordata alla ritrattistica contemporanea – dando spesso luogo a polemiche furibonde sull’effettiva necessità di celebrare quel tale personaggio o quel tale ruolo – è del tutto concettuale. Vale a dire, è attribuibile all’intenzione più che al gesto. E questo perché il gesto, ossia l’effettiva riuscita materiale dell’opera, è sempre dozzinale. Lo è perché oggi quella funzione è svolta meglio da altri mezzi infinitamente più efficaci. Per paradosso, pensavo, concepire una polemica su opere di questo genere è il vero gesto artistico, è ciò che rende dignitosa l’opera, la quale altrimenti non avrebbe di suo alcuna dignità. Il vero artista cioè non è il creatore dell’opera, ripiegato semmai al rango di artigiano, ma colui che indignandosi alla vista dell’opera, e invocandone per esempio la rimozione, le conferisce una forza e un respiro che in nessun altro caso quell’opera avrebbe.

Ecco perché mentre la signora polemizzava con suo marito, io me ne sono rimasto prudentemente zitto.

 

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