Per avere il passaporto di vittima. 3

31 Gennaio 2024

Forse non avrei scritto questa serie di articoli sulla reazione americana all’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 e della successiva invasione di Gaza se non mi avesse mosso il disagio che da tempo percepisco, nelle classi che insegno, rispetto allo statuto della donna, a che cosa la società si aspetta da lei e a che cosa le donne si aspettano da se stesse. I due temi si sono intrecciati, purtroppo, per via del ricorso alla violenza sessuale come arma da guerra da parte di Hamas. È stata la reazione soffocata, indifferente o perfino ostile, da parte di organizzazioni femministe americane, che mi ha spinto a riflettere. Ho anticipato il tema nei due articoli precedenti, ma ora voglio offrire qualche spunto di riflessione in più, a me stesso e a chi mi legge. 

Il 4 dicembre 2023, in una conferenza stampa alle Nazioni Unite, sono state portate le testimonianze dei primi soccorritori delle vittime dell’attacco di Hamas. Le notizie sugli stupri e le mutilazioni di massa hanno così trovato conferma in un organo internazionale. Il 28 dicembre 2023 il “New York Times” ha pubblicato un resoconto basato sul racconto dei testimoni, poi ripreso da quotidiani italiani e che dunque non ho bisogno di riassumere. 

Ma come mai le informazioni che erano circolate subito dopo l’assalto, poi tutte confermate, sono state negate o sminuite, per due mesi, proprio da associazioni femministe americane? La lista (non completa) comprende: U.N. Women (un organismo delle Nazioni Unite che ha riconosciuto l’accaduto solo il 4 dicembre), Feminists for a Free Palestine, vari gruppi di studentesse di Harvard, il Sexual Assault Center della University of Alberta in Canada e il centro per la Social Justice della New School University di New York. La National Organization for Women ha condannato gli stupri ma senza nominare Hamas. Human Rights Watch e Amnesty International non hanno rilasciato dichiarazioni.

E ancora: intervistata da CNN, la deputata democratica Pramila Jayapal ha detto che “in guerra queste cose succedono” e che il suo giudizio doveva rimanere equilibrato. Briahna Joy Gray, ex segretaria per le pubbliche relazioni del senatore democratico Bernie Sanders (che non ha fatto propria nessuna di queste posizioni), ha affermato che le “menzogne” sugli stupri e le decapitazioni servivano solo a creare un equivalente morale tra le vittime di Hamas e quelle di Israele, e in ogni caso non c’era niente da discutere perché non c’erano testimoni. L’attrice Amy Schumer, notoriamente liberal, ha postato su X una vignetta ironica in cui un dimostrante alzava un cartello con su scritto: “Hamas violenta ragazze ebree solo per legittima difesa”. In risposta ha ricevuto commenti che la definivano “bugiarda sionista”, “suprematista bianca” e “la più stupida stronza sulla faccia della Terra”. Durante una seduta del Consiglio Comunale di Oakland, in California, numerose donne presenti hanno protestato contro la proposta di condannare le violenze di Hamas e hanno negato che ci fossero state.

Perché così tante reazioni di diniego? Perché si è detto che bisognava aspettare, verificare, controllare? Perché i teorizzatori delle microaggressioni che vogliono farti licenziare se sbagli a usare un pronome sono rimasti in silenzio davanti a questa macroaggressione? Non si è sempre affermato, dalla nascita del movimento #metoo in poi, che alle donne che dicono di aver subìto violenza si deve credere? Quello che vale per un’attrice di Hollywood molestata dal suo produttore non vale per una donna ebrea torturata?

Gli studenti delle università che non fanno parte della ristretta élite; gli studenti lavoratori o i primi nella loro famiglia a raggiungere un’istruzione superiore, sono in genere molto più attrezzati, psicologicamente ed emotivamente, degli studenti “borghesi” che accedono alle scuole più rinomate. I “fiocchi di neve”, come li chiamano con spregio i conservatori, sempre a un passo dallo sciogliersi in un “trauma”, si trovano più facilmente a Harvard o a Yale che altrove. Ma sono loro ad iniziare le tendenze che poi trasmigrano. Nel 2015, un bollettino studentesco della Columbia University citava una studentessa che, dopo aver letto la descrizione di uno “stupro divino” nelle Metamorfosi di Ovidio (le mitologie di tutto il mondo ne sono piene), “non si sentiva sicura in classe”. Nel 2014, un articolo del “New Yorker” ha riportato che vari studenti di legge non vogliono che negli esami di fine corso vengano assegnate domande che riguardano la legislazione sulla violenza sessuale “per non rimanere troppo turbati”. Altri hanno richiesto che quel capitolo del Codice penale proprio non venga insegnato. Altri ancora hanno chiesto ai loro professori di non usare mai in classe il verbo “violare”, nemmeno per illustrare casi in cui la legge è stata “violata”. 

Si parla di studenti di legge, che prima o poi potrebbero trovarsi davanti a casi di violenza sessuale da affrontare come avvocati o giudici. Quale preparazione potranno vantare non so. Temo però che questa sensibilità sovracuta possa contribuire a spiegare il suo opposto, vale a dire la mancanza di empatia rispetto a donne che hanno subito un evento traumatico di cui (come la società patriarcale ha sempre fatto) non si vuole nemmeno conoscere l’esistenza, né sapere come affrontarlo.

Non è difficile comprendere come tale atteggiamento neovittoriano rimanga indifeso rispetto al dispiegamento di quella che Simone Weil nel suo saggio sull’Iliade chiamava semplicemente “forza”, la pura condizione trascendentale della guerra, della violenza, della vendetta, e, secondo gli esprits forts di tutti i tempi, il vero fondamento della legge e della politica. Non c’è una distanza incolmabile tra il sentirsi mancare leggendo di Zeus che si trasforma in pioggia d’oro per impregnare Danae e il silenzio imbarazzato davanti agli stupri di Hamas.

Ben prima dell’attacco del 7 ottobre avevo notato una seria oscillazione, da parte delle mie studentesse, ma anche degli studenti maschi, rispetto alla percezione della donna, di cosa è e di cosa pensano che dovrebbe essere. Tra i corsi che insegno, è Teoria del cinema quello in cui è più facile ingaggiare discussioni, e gli esempi che riferisco sono tutti degli ultimi tre semestri. 

Bene, uno dei film in programma è Rashomon: qualcosa è successo tra un bandito, un samurai che viene ucciso, la moglie del samurai che sostiene di essere stata violentata dal bandito, e un boscaiolo di passaggio che ha visto tutto, o così fa credere. Non sappiamo chi tra di loro dice la verità al tribunale che li interroga (il samurai ucciso parla attraverso una sensitiva), né sappiamo se dice tutta la verità. La donna dà una testimonianza molto drammatica della violenza che ha subito: si lamenta, piange e si butta a terra davanti ai giudici. Alla fine della proiezione, una studentessa (anglosassone, bianca) protesta: quella donna esagera, fa l’isterica, è la tipica posa di chi usa lo stereotipo della donna emotiva.

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Dire che rimango perplesso è poco, anche perché la studentessa in questione, che sta attraversando un periodo difficile (una sua amica è morta davanti a lei, mi dirà settimane dopo), non fa nulla per nascondere la propria emotività in classe. D’accordo, può essere un caso singolo. Passiamo al semestre successivo. Il film in questione è Roma città aperta. La scena in cui Anna Magnani si fa ammazzare per strada, mi scrive uno studente afroamericano, dimostra quanto il personaggio sia stupido e isterico, visto che comunque non poteva raggiungere il camion in corsa. Evidentemente il regista voleva far capire che le donne erano troppo emotive per poter partecipare alla Resistenza. A questo punto comincio a sospettare che ci sia un filo comune che lega tali affermazioni e chiedo lumi a una mia collega. La quale mi conferma che sì, la nuova tendenza è che le donne non devono mostrare emozioni, altrimenti rafforzano lo stereotipo patriarcale della donna irrazionale. Ma gli uomini, le chiedo, sono invece lodati se mostrano emozioni? Certo, come no, gli uomini devono dimostrare di essere “vulnerabili”, è il termine chiave. Ma se una donna subisce un trauma (altra parola chiave), perché mai dovrebbe sopprimere le sue emozioni? Se lo fa solo per non apparire isterica, non rafforza in questo modo, e ancora di più, i pregiudizi patriarcali che negano la serietà del trauma stesso? Non ricevo risposta, solo un gesto di rassegnazione.

Un semestre indietro. Il film stavolta è La battaglia di Algeri. Prima di farlo vedere una studentessa algerina, musulmana, con lo hijab, mi dice che quello è film sessista. Non le interessa affatto che sia l’epica della liberazione del suo popolo dal colonialismo francese, è sessista e basta. La invito caldamente a partecipare alla discussione, ma a proiezione finita non apre bocca e due settimane dopo abbandona il corso. So perché l’ha detto, ma volevo sentirlo spiegare da lei. La scena in cui tre donne algerine si vestono e si truccano da francesi per poter piazzare bombe in tre bar del centro non ha dialoghi, è sottolineata solo dalla musica di Morricone. I dialoghi in origine c’erano, ma Pontecorvo decise di toglierli per aumentare la drammaticità della scena. Con questa scelta, secondo alcune teorizzazioni, Pontecorvo ha tolto agency (potere, capacità di decisione) alla rappresentazione della donna, come se la sua partecipazione alla lotta anticoloniale fosse sempre stata muta. Non conta nulla il fatto che queste tre donne vadano a mettere bombe e che il loro silenzio sia molto più eloquente di qualunque dialogo. Non è così per chi ha deciso che la agency si decide in ragioneria, sul numero di fotogrammi in cui una donna appare e su quante parole pronuncia. Eppure il silenzio della studentessa algerina è parallelo al silenzio delle donne nel film, non so se ci abbia pensato. Uno studente bianco, anglosassone, se ne esce invece a dire che tutto sommato i francesi non erano poi così male, nel film si vede che rispettavano le donne algerine.

Un semestre avanti. Sono i mesi della rivolta delle donne iraniane contro il regime degli ayatollah. Decido di dedicare una parte del corso al cinema iraniano, scegliendo solo film che hanno come tema la condizione della donna o sono diretti da donne (che magari per via di quei film hanno passato anni in prigione, come Tahmineh Milani per La metà nascosta). In classe ho una coppia di fidanzati, lei con un chador grigio, molto elegante, che siedono assieme nell’ultimo banco. Dal cognome direi che sono pakistani, ma non glielo posso chiedere. La domanda “Da dove vieni?” rivolta a una “persona di colore” è considerata razzista e può portare a una denuncia all’ufficio contro la discriminazione. Chiederlo a un bianco non è razzista. A me chiedono sempre da dove vengo, non appena sentono il mio accento. 

Lo studente, precisamente come la studentessa della Columbia nel 2015, è scandalizzato dagli “stupri divini” della mitologia greca e difende l’uso del chador per preservare la modestia della donna. Lei non interviene, mai una parola in tutto il semestre. Anche in quello che mi scrive, non prende posizione e si tiene sulle generali. Ma un’altra studentessa, bianca, anglosassone, ammette che vedere quei film per lei non è facile perché le donne iraniane “fanno anche delle cose disgustose”. 

Per esempio, in Il giorno in cui diventai una donna, sceneggiatura di Mohsen Makhmalbaf (uomo), regia di Marzieh Meshkini (donna), siamo nel sud dell’Iran, sulle rive del Golfo Persico. Nella prima parte, una bambina di nove anni (iraniana bianca) scambia un lecca-lecca con un bambino (iraniano di colore, nero) della stessa età. Ciò è disgustoso. Nella seconda parte, una donna che fa parte di un club di cicliste partecipa a una gara in bicicletta su una strada che costeggia il mare (trasgressione per la quale il marito chiederà il divorzio). La protagonista, in chador nero, è ripresa spesso in primo piano, e si vede un po’ di sudore sul suo viso. Anche questo è disgustoso (in America il sudore è considerato volgare; invece di sweat bisognerebbe dire perspiration). Nella terza parte del film, un’anziana vedova ha ricevuto un’eredità inaspettata e decide di comprare tutti gli elettrodomestici e i piccoli lussi che non ha mai potuto permettersi. Una studentessa la critica per essersi piegata agli imperativi del consumismo (suppongo che a casa sua possegga quegli stessi lussi – una lavatrice, un aspirapolvere – da quando è nata).

In generale, la risposta dei miei studenti alla repressione contro le donne iraniane, sulla quale ho fornito loro varie informazioni, è stata piuttosto blanda. Visto che di indignazione nei campus americani se ne compra e se ne vende moltissima, anzi è uno degli articoli più a buon mercato, mi aspettavo un filo di partecipazione in più. Ma ciò che conta è analizzare la risposta “politica” alle diverse situazioni presentate. Ciò che accade alla moglie del samurai in Rashomon o ad Anna Magnani in Roma città aperta non si qualifica come trauma perché le donne in questione non sono persone di colore. La giapponese dovrebbe esserlo in quanto asiatica, ma i giapponesi sono ormai equiparati ai bianchi, partecipano dell’Occidente e non sono considerati una minoranza. Le donne algerine e iraniane sono persone di colore (non importa che molti iraniani siano più bianchi dei bianchi) e dovrebbero essere considerate oppresse, ma anche i loro mariti sono persone di colore (anche gli Ayatollah lo sono), e questo rende problematica una solidarietà istituita su base femminile. 

Le reazioni che ho appena menzionato sono individuali, ma non per questo trascurabili. Sarebbero state impensabili anche solo quattro o cinque anni fa. Il femminismo americano, che deve scontare il peccato originale di avere avuto un passato razzista (il suffragismo del primo Novecento voleva il voto per le donne, sì, ma solo per le bianche, e faticava ad accettare la presenza di militanti nere), si è così trasformato in un movimento esclusivamente antirazzista. La specificità biologica, antropologica, sociale e psicologica della donna (qualunque cosa si voglia intendere con questi termini) è stata accantonata in vista di obiettivi politici più inclusivi, più intersezionali, non più basati su quel “pensiero della differenza sessuale” che fino a poco tempo fa pareva un risultato acquisito.

Essere una donna non basta più, sono richieste altre qualifiche. Tutte le mie studentesse hanno un’infarinatura di femminismo, ma tutte avvertono che qualcosa non torna, che da loro si pretende ancora di più, sempre di più, e cercano di rispondere a questa ennesima domanda che viene rivolta loro, spesso senza avere nessuno ad aiutarle. Accade così che loro stesse alzino la soglia delle aspettative. Se una donna mette una bomba in un bar di Algeri, deve anche verbalizzare per filo e per segno perché lo fa (a un uomo non verrebbe chiesto). Se corre in bicicletta sotto il sole del Golfo Persico coperta di nero dalla testa ai piedi, non deve sudare. Se le rapiscono l’uomo che deve sposare non deve fare gesti plateali. Perfino se afferma di essere stata violentata, non deve piangere davanti ai giudici. C’è sempre una prova in più che deve superare per essere degna del ruolo di vittima. 

È facile proclamare “valori universali” finché rimangono in astratto, ma quando devono prendere corpo in un “universale concreto”, come diceva Hegel, nascono difficoltà che colgono impreparati anche i più volonterosi difensori dei diritti umani. Nelle Origini del totalitarismo, Hannah Arendt aveva già notato che dietro l’espressione “diritti umani” può anche non esserci niente. C’è sempre qualcuno che cade fuori dalla solidarietà generale, ad esempio gli apolidi alla fine della Seconda guerra mondiale, rimasti senza un paese e dunque solamente “umani”, senza altra definizione, e che vennero sballottati per anni da un campo profughi a un altro perché tutto sommato era molto più importante avere un passaporto che essere soltanto un “umano”. 

Io non so se le ragazze che incontro in classe – in realtà donne, e alcune con famiglia – proiettano le loro insicurezze e i loro problemi, diversi per ognuna e giustificati per tutte, su un’immagine di donna ideale che vorrebbero sempre vincente in ogni circostanza della vita. Non so se celano del risentimento verso l’impossibilità di essere donna (per citare il monologo di America Ferrera in Barbie, un film tutt’altro che stupido) o se non mettono mai in dubbio quei film d’azione in cui una donna da sola sconfigge a pugni e calci venti uomini grossi il doppio di lei. Come insegnante, non posso schivare questi problemi con la scusa di essere maschio, bianco, eterosessuale e quindi non autorizzato a parlarne. Vedo piuttosto un legame da un lato tra l’incertezza delle mie studentesse nell’affrontare la condizione di donne diverse da loro, sempre troppo differenti e insieme mai abbastanza differenti, e dall’altro l’imbarazzo nel condannare la violenza perpetrata da uomini ritenuti oppressi su donne ritenute corresponsabili dell’oppressione. Ciò che fino a ieri fa era “sorella, ti credo” ci ha messo poco a mutarsi in “sorella, dipende dal contesto”. 

È stata proprio questa parola, “contesto”, a scatenare una battaglia politica che sui media americani ha occupato tanto spazio quanto la guerra di Gaza, e che ha portato alle dimissioni della rettrice della University of Pennsylvania e della rettrice di Harvard. Ne parlerò nel prossimo articolo.

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Alessandro Carrera, Breve storia dell’antisemitismo americano. 2

In copertina, opera di Adelisa Selimbasic.

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