Speciale
Alla guerra in nome di Godot
Quando a gennaio ho cominciato questa rubrica, avevo in mente di tracciare un piccolo compendio di storia del teatro occidentale che andasse dalle origini a oggi. Ponendo il punto di partenza nella tragedia greca, più per convenzione che per convinzione, volevo seguire un ordine cronologico che avrebbe portato, epoca dopo epoca, a costruirsi un’idea di quel che è stata la teatralità negli ultimi due millenni e mezzo. Ma poi, nel giro di poco tempo, mi sono accorto che era impossibile: nel mondo accadevano cose che entravano in risonanza con quello che stavo scrivendo, e questo mi forzava a trattare argomenti imprevisti, a saltare le tappe, con un’urgenza prima non pensata. Insomma: l’attualità si faceva largo nella storia e richiamava la storia (anche quella del teatro) all’attualità. Forse è più utile così – mi sono detto; forse è più interessante lasciare che, di volta in volta, ogni piccolo frammento di presente presenti la sua questione, senza costruire per forza una linea cronologica. La cronologia è la spina dorsale della storia; ma chi dice che abbiamo bisogno di una storia, per parlare di qualcosa? Anzi: forse per parlare di certe cose occorre innanzitutto rinunciare a metterle una in fila all’altra, e lasciare che emergano in superficie proprio nella loro impossibilità di strutturarsi e formalizzarsi.
Probabilmente nessuno meglio di Samuel Beckett ha saputo restituire nella sua scrittura la complessità e la tragicità di questo abbandono della storia; che nell’autore irlandese è coinciso con una progressiva erosione della forma drammatica e di tutte le categorie da essa dipendenti: quella di azione, di personaggio, di dialogo. E, proprio per questo, probabilmente nessuno più di Beckett è riuscito a ritrarre così fedelmente lo spirito dell’epoca in cui ha vissuto: la sua opera, all’apparenza astratta e senza tempo, è invece carica di attualità. Un’attualità che assume paradossalmente un carattere universale, come se piccoli fatti quotidiani, all’apparenza insignificanti, condensassero l’intera essenza della storia umana; con personaggi che prendono coscienza di non avere un futuro e si afferrano a un passato che scappa loro dalle mani, trovandosi così condannati a un eterno presente. Martin Esslin, in un celebre saggio, lo inseriva nel novero del teatro dell’assurdo in voga negli anni ’50 e ‘60, inquadrandolo in una definizione che però mal gli si addice. Etimologicamente, assurda è la voce “che si allontana dal suono comune”; ma io ho la sensazione che la voce di Beckett sia perfettamente intonata ai suoi tempi, che sono tempi in cui la metanarrazione del progresso perde la sua valenza positiva, e di conseguenza la storia mette in dubbio il senso del suo avanzare. Tempi in cui il pianeta si è portato sull’orlo dell’autodistruzione ed è rimasto lì, a guardare il baratro. Tempi in cui è impossibile credere di vivere nel migliore dei mondi possibili, perché coloro che vivono nel mondo sono i sopravvissuti a un qualcosa di imprevisto, che ha fatto saltare le tappe della storia e ha messo in luce un’urgenza prima non pensata; e cioè due guerre mondiali.
Ho visto molte messe in scena del Godot in questi anni, ma nessuna più illuminante di quella di Theodoros Terzopoulos, prodotta un paio di anni fa da ERT e Teatro di Napoli. Il regista greco dipinge biblicamente questo Dio assente – il nome Godot è la storpiatura francesizzata dell’inglese God – come il dio degli eserciti. Vladimir ed Estragon, i due protagonisti che aspettano invano, sono braccianti che hanno perso tutto; Pozzo è il capitalista che ha speculato sulle spalle di chi è stato in trincea, cioè Lucky: un essere più bestiale che umano, tenuto al guinzaglio, comandato a bacchetta e incapace di elaborare un discorso coerente non perché stupido, ma perché traumatizzato. In quel suo monologo disarticolato – quel flusso di parole che ci ricorda che Beckett, all’inizio della sua carriera, ha lavorato fianco a fianco con quell’altro genio dublinese decostruttore di storie che è stato James Joyce – ricorre tre volte un toponimo: “Normandia”. Pozzo gli impartisce ordini con il piglio di un generale. Il cappello che l’attore porta in testa è un elmetto militare. Tutto è chiaro: Lucky è un reduce di guerra che ha fatto lo sbarco e non ha parole per quello che ha visto. Ora a molti verrà in mente la sequenza iniziale di Salvate il soldato Ryan, in cui Spielberg, per interminabili minuti, affida alle immagini e al suono il compito di portarci in quel luogo di cui abbiamo tutte e tutti sentito parlare, ma di cui nessuno di noi ha fatto esperienza. Beckett, quarant’anni prima, si poneva lo stesso problema: come trasmettere un’esperienza, se il linguaggio non sopporta il peso di tanto reale? Quel che però il linguaggio può ancora fare – si risponde il nostro – è mostrare questa incapacità di descrivere ciò che è accaduto. Così, se il regista statunitense eliminava la parola, in Beckett la parola deve restare; ma resta proprio per ammettere la sua insufficienza, per meglio affermare la sua propria sparizione. Diviene in sostanza quella «letteratura alle porte di un mondo senza letteratura, di cui tuttavia – questo lo dice qualche anno dopo Roland Barthes – chi scrive ha il compito di testimoniare». Come si può descrivere una cosa così tremenda come l’annichilamento dell’essere umano da parte dell’essere umano? Eppure, di tutto ciò non possiamo non parlare! Le opere di Beckett si muovono tutte nell’ombra di questo paradosso tragico, che getta una luce oscura sull’intera ontologia occidentale nel momento in cui può essere riformulato nel modo seguente: come dire l’indicibile?
E da qui il miracolo: proprio da questo indicibile scaturisce il teatro di Beckett, che altro non è se non un’esplorazione disperata delle possibilità che restano al linguaggio. Questo si incanala in un flusso monologico personale e personalissimo, come in Giorni felici o in Non Io; si spezzetta in frammenti e residui in L’ultimo nastro di Krapp; si riduce a descrizione fallita in Finale di partita; si fa tutto questo e altro ancora in Aspettando Godot, in cui il parlare è soprattutto chiacchiera, chiacchiericcio insulso, superficiale e ripetitivo, mentre gira – consapevolmente e volontariamente, sia chiaro! – intorno al centro di una questione che non può mai essere veramente nominata. Un centro incandescente, intoccabile e, per l’appunto, non verbalizzabile: un tabù (in proposito consiglio la visione di Quad, un esperimento scenico senza parole che Beckett scrisse per la televisione – si trova anche su YouTube). Mi ero sempre chiesto cosa fosse questo argomento che Vladimir ed Estragon evitano e che non riescono mai a menzionare direttamente; finché non mi sono reso conto che i riferimenti ai morti, agli ossari, alle fosse... e quello scambio che si produce tra i due dopo aver scrutato l’orizzonte dall’alto della collina: «Arrivano! – Chi? – Non lo so. – Quanti – Non lo so.»... Beh, a me fa pensare che questo indicibile sia proprio la guerra.

Come il linguaggio articolato, la guerra è un’altra caratteristica eminentemente umana: nessun altro essere vivente si racconta storie, nessun altro essere vivente si affibbia nomi e definizioni, e nessun altro essere vivente si combatte per ragioni aliene alla mera sopravvivenza alimentare, e comunque non così massivamente. La guerra è cosa umana nella misura in cui – altra aporia tragica – distrugge l’umano. Chissà che non sia proprio a causa di questa impossibilità di riconoscerci autori di un fenomeno così tremendo, che la guerra si fa spesso e volentieri in nome di Dio. Senza andare a scomodare evidenze storiche, anche in questi ultimi tempi tutti i promotori delle guerre in medio-oriente, da Bashar al-Asad a Vladimir Putin, da Donald Trump ai capi di Hamas, da Benjamin Netanyahu ad Alī Ḥoseynī Khāmeneī, hanno tirato in mezzo in qualche modo il nome di Dio. Ed ecco che il Dio degli eserciti dell’Antico Testamento è chiamato di nuovo in causa attraverso il linguaggio. E proprio come Godot, questo Dio sembra un Dio estraneo ai fatti: evocato tutto il tempo, non arriva mai. Esiste? È esistito? Esisterà? Com’è che non si fa vedere, che non si risolve né per una fazione, né per l’altra – come invece facevano quelle simpatiche (e ben visibili) canaglie delle divinità omeriche...? Forse non arriva perché guarda incredulo come i suoi fedeli si annientano stupidamente l’un l’altro, incapaci di riconoscersi come fratelli e sorelle? O forse semplicemente perché non si riconosce in questa scomoda chiamata in causa; lui che vorrebbe essere un Dio della pace...?
Dio: ecco un altro fatto eminentemente umano, sconosciuto a qualsiasi altro essere vivente, che come la storia e il linguaggio viene risucchiato nel gorgo beckettiano dell’inesprimibile. Attenzione: non è nichilismo! È piuttosto un’affermazione di interesse politico; perché cosa c’è di più attuale in politica, che il rapporto insano tra Dio, guerra e non detto? Il conflitto che coinvolge Israele e i suoi vicini, per esempio, è sempre più caratterizzato da un non dicibile, dietro cui lo Stato di Israele (e non la fede ebraica) si fa scudo, mettendosi in salvo da ogni critica; un escamotage linguistico che si fonda sull’equivoca assimilazione tra le parole “israeliano” ed “ebreo”, tra governo e popolo, tra politica e religione, e che arriva a far sparire magicamente la pur chiara differenza tra la condanna a un certo disegno politico (che dovrebbe essere accettabile) e l’antisemitismo (che accettabile non deve esserlo mai). Ed ecco che beckettianamente il linguaggio mette in scacco la realtà e allo stesso tempo mette la realtà al riparo dal discorso critico. Miracoli divini di cui si stupirà solo chi non ricorda che la cultura ebraica ha un rapporto misterioso e meraviglioso con la parola, a partire dalla questione del nome di Dio, che appunto non può essere detto. Scusatemi se la faccio facile, perché è molto più complessa di così, ma: il tetragramma, che noi traslitteriamo comunemente con le lettere YHWH, è costituito unicamente da consonanti, mentre le vocali non vengono scritte; e poiché il nome di Dio è troppo sacro per essere pronunciato, se n’è persa la corretta vocalizzazione. Il Dio degli Ebrei è un Dio il cui nome è scomparso: paradossale, per un Dio del linguaggio che crea attraverso il linguaggio (che disse: «Sia la luce!»; e la luce fu). Ma, pur nella sua indicibilità, questo Dio c’è: presente e ingombrante, in ogni tappa della storia del popolo ebraico. Come, d’altronde, una buona parte del reale di cui facciamo esperienza nella vita quotidiana (un esempio? L’amore), Dio si fa sentire pur restando inesorabilmente al di là delle possibilità del linguaggio.
In una delle più belle pagine della sua Teoria estetica, Adorno scrive che la dissoluzione del mondo tale e come lo conosciamo razionalmente si riflette nella forma degenerante del dramma beckettiano: «ciò che è logoro e leso di quel mondo di immagini è calco, negativo del mondo amministrato. In tal misura Beckett è realistico». Questa nozione di realismo proposta da Adorno mi pare illuminante: ciò che è “realista” non è il contenuto delle opere, a prima vista ben differente dalla nostra idea di realtà; né la forma con cui questo contenuto si esprime, così “strana”, così distante dal dramma naturalista. Ma proprio in questa loro estraneità, contenuto e forma coincidono, riflettendosi l’uno nell’altra: quel mondo logorato ha necessità di esprimersi attraverso una forma altrettanto logora. Il grande giro di vite dell’estetica hegeliana, che marcherà indelebilmente la visione marxista della storia dell’arte, sta nel dichiarare l’opera d’arte come riuscita solo se forma e contenuto si rovesciano l’una nell’altro; divenendo così Aussage, espressione dello spirito dei tempi in cui l’opera nasce. Ecco perché Beckett è attuale: un mondo in rovina necessità di una drammaturgia della rovina, che è primariamente la rovina linguistica. Così come attuale è quell’altra grande cifra stilistica beckettiana, fin qui non ancora nominata, che è il silenzio. Là dove il linguaggio non può più, può il silenzio. Un silenzio che non è rinuncia; al contrario, serve a far risuonare l’assenza di quella parola che non riesce più a dire. Nel silenzio si percepisce la voce dell’assente, la presenza dell’invisibile. Questo silenzio è dunque una forma di critica: silenzio come disattivazione del meccanismo retorico e come premessa a un dire che, non dicendo, dice. Il silenzio indica che il linguaggio non è tutto, che c’è dell’altro che non riesce a prendere forma, che non ha ancora preso forma, che non può prendere forma (peraltro bellissimo tratto comune tra il Dio degli Ebrei e quello dei Musulmani – che poi, spesso dimentichiamo, è lo stesso Dio). Questo altro c’è; eccome! L’apparente nichilismo di Beckett è dunque in realtà da leggersi come una proposta carica di speranza. Un’estrema forma di resistenza, esercitata dalla storia, dal linguaggio e da quel Dio a cui basta far risuonare l’eco della propria assenza per affermarsi. Un Dio che – ricordiamolo! – non vuole che il suo nome si pronunci invano. Anche se nessuno dei politici a cui fa comodo agire in suo nome sembra essersene mai accorto.
Per saperne di più
Aspettando Godot è pubblicato nella collana dei libri bianchi, con l’iconica foto di Beckett in copertina e l’iconica traduzione italiana di Carlo Fruttero – e insieme agli altri testi principali, nella raccolta Teatro. Di Einaudi sono anche la Teoria estetica di Theodor Ludwig Wiesengrund Adorno (pesantissima come il suo nome) e Il grado zero della scrittura di Roland Barthes (sottile e leggero). Il teatro dell’assurdo di Martin Esslin è invece uscito per le Edizioni Abete. Qui, il link a Quad, emesso per la prima volta dalla tedesca Süddeutscher Rundfunk nel 1981, e dalla BBC qualche anno dopo:
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In copertina, opera © Christiane Spangsberg.
