5 per mille

Biennale Teatro. Guerra!

20 Giugno 2025

C’erano tanti fili nella prima Biennale diretta da Willem Dafoe. Da perdersi. Anche se la traccia principale rievocava un “come eravamo”, come era il teatro dal quale veniamo, quello di cinquanta, quarant’anni fa, il Wooster Group, Schechner, Foreman, l’Odin Teatret, Grotowski nei suoi discendenti del Workcenter diretto da Thomas Richards. Archeologia vivente? Con tre grandi nomi internazionali, Romeo Castellucci, Thomas Ostermeier, Milo Rau, e varie altre proposte. E naturalmente uno sguardo sui giovani con i College, che però sono stati una (magnifica) invenzione della presidenza Baratta, risalente a più di dieci anni fa.

La guerra, quella passata, quella che ci ha circondato fino a non molti anni fa, è un filo conduttore forte, lancinante. Le guerre. Quelle che da ogni parte si accendono in un mondo che sembra aver voglia di distruggere e di autodistruggersi, dove pare non esistano più confini all’odio e alla prevaricazione, in nome del proprio diritto. Se il motto del festival è Theatre is body – Body is poetry, un mondo che maciulla i corpi lo potremmo definire, con buona ragione, antipoetico, oltre che antiumano. Criminale.

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Romeo Castellucci, I mangiatori di patate, ph Andrea Avezzù, Courtesy La Biennale di Venezia.

L’abbiamo visto in quei corpi in sacchi neri della spazzatura, che apparivano negli spazi enormi del vecchio lazzaretto, su un’isola separata dalla città. Attraversando quegli ambienti come ciechi, nel buio più completo apprestato da Romeo Castellucci per I mangiatori di patate (drammaturgia di Piersandra Di Matteo), potevi figurarti i lebbrosi, gli appestati che la Repubblica vi confinava, accatastati nella polvere e nel fango. Era uno spazio separato dalla città, come nello spettacolo quel regno di morte era distanziato dal mondo dei vivi e della luce esterna. Lo spettatore vi arrivava con un vaporetto speciale, moderna barca di Caronte. Sprofondava nell’orrore della storia, guidato da qualche figura scura, invitato a non oltrepassare linee di demarcazione, a guardare, solo a guardare. Poi, quando aveva perso il senso dello spazio, dell’orientamento, veniva investito, travolto da un tempesta di buio, vento, suono (di Scott e Oliver Gibbons), in una stanza che sembrava più grande delle altre, ma solo perché le altre non le aveva potute percepire nei loro confini, sconvolto da quell’uragano simile a quello che travolse la brechtiana città di Mahagonny. Nel tifone appariva un Angelus Novus, quello di cui parlava Benjamin, quello che guarda avanti lasciando dietro di sé i detriti della Storia. Noi ora eravamo tra quei rottami. Apparivano umili figure che cercavano di compiere atti essenziali come sfamarsi, minatori, un popolo degli abissi che tirava fuori da uno di quei sacchi neri un corpo femminile di colore cadaverico. Qualcuno lo baciava, qualcun altro applicava alla sua bocca piattelli labiali, specie di nacchere che trasformavano i tentativi di articolare linguaggio in colpi ritmici senza significato, o con significati segreti, cifrati, come in un vecchio spettacolo, Kaput Necropolis. Tornava l’angelo, senza testa: la sua direzione sembrava smarrita. Restava la cura dei minatori: mettere un calzino, imboccare quel corpo, sotto una stella luminosa e un’altra nera. Uno schermo lampeggiava bianco sulla deposizione di quella massa disarticolata, su quel corpo sacrificato, femminile.

“Monumentalità”? Castellucci, usando un sistema di segni ricorrente, che rifugge dalle spiegazioni, rode alla base la monumentalità. Anche se sempre di più negli anni, anche nelle sue creazioni si riscontra il ritorno di segni, che possono configurare un vocabolario “di maniera”.

Usare un linguaggio consolidato, in un festival che presenta esperienze del passato, in molti casi esaurite e ripescate, è un peccato? Quanto bisogna bruciare, essere sempre nuovi, per rincorrere il presente o figurare il futuro? Questioni, da un presente senza aria. Che equivalgono a interrogarsi se un festival come questo deve ricapitolare o tracciare nuovi sentieri; e a domandarsi: dove va il teatro?

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Hamlet’s Cloud di Eugenio Barba, ph. Stefano di Buduo.

Un vocabolario consolidato è quello dell’Odin Teatret, la magnifica creatura di Eugenio Barba e compagni che da più di sessant’anni percorre le scene, in un continuo nomadismo. Le nuvole di Amleto parla di figli sacrificati dai padri, nel momento in cui il padre Barba, con alcuni dei suoi compagni della prim’ora, è stato sacrificato dai figli ed estromesso dal Nordisk Teaterlaboratorium di Holstebro. Non convince lo spunto di partenza di questo nuovo spettacolo, fisico come tanti altri, un romanzo abbastanza fantasioso, Hadmet di Maggie O’Farrell (Guanda) che ipotizza un travaso dalla (incerta, appoggiata su scarsissima documentazione) vicenda biografica di Shakespeare padre, la perdita del figlio Hadmet, in Hamlet. Comunque tra canti, costumi esotici, maschere, attitudini energiche si agisce il trauma di padri che perdono o, in questo caso, sacrificano i figli. In una parte dello spettacolo scorre una sequenza fotografica di tanti, tanti bambini armati, nelle varie guerre del mondo. Didascalica e alquanto furba: il tema è particolarmente “sensibile”.

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Changes di Thomas Ostermeier, ph. Andrea Avezzù, Courtesy La Biennale di Venezia.

In Changes di Maja Zade, regia di Thomas Ostermeier, non si tratta apparentemente di guerra, se non di quella che si combatte tutti i giorni nelle famiglie borghesi, quella della simulazione, delle maschere che si indossano per vivere, per sopravvivere. Sono magnifici i due attori (Anna Schudt e Jörg Hartmann) che incarnano il tema trasformandosi in una trentina di personaggi semplicemente cambiando postura, indossando un impermeabile o una parrucca. Avviluppano e sciolgono una trama complessa sulle menzogne delle relazioni interpersonali. Il regista continua la sua analisi della borghesia, della famiglia borghese, con una nota acida, sempre assistita dalla sensibilità del tocco e dalla felicità nella scelta di interpreti stratosferici.

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Die Seherin, ph. Nurith Wagner-Strauss.

Milo Rau con Die Seherin, la veggente, incrocia il mito di Cassandra, la sacerdotessa figlia di Priamo che vedeva prima degli altri le sciagure e non era creduta, con la vicenda di una fotografa, capace di cogliere i disastri nel momento in cui avvenivano o avvengono. Vi inserisce anche il mito di Filottete, abbandonato con una piaga purulenta su un’isola. Usa il mito, come in altri spettacoli, per percorrere i grandi disastri degli ultimi anni e le rivolte, come quella di piazza Tahir in Egitto, con la reporter tastata, stuprata: non basta stare dalla parte dei “buoni”, perché spesso, quelli, “buoni” non lo sono del tutto. Il mondo è fatto di confusioni (e anche la drammaturgia in certi momenti sfiora il disordine, la confusione). Poi, con l’attrice dal vivo, sola in una scena di polvere e macerie, dialoga in video uno scampato all’Isis, che racconta, sempre con una mano in tasca, gli orrori del califfato, le esecuzioni. Capiremo, presto, che quella mano gliel’hanno tagliata, secondo la legge islamica. Lo spettacolo ci fa un riassunto di situazioni di crisi, secondo i moduli espressivi consolidati di Milo Rau, un iperrealismo che si nutre della cronaca e cerca di interpretrarla. Non aggiunge molto al fiume di news, commenti, analisi, iperdiscussioni che ci avvolgono.

O meglio: una cosa, formidabile, la aggiunge. È l’attrice, Ursina Lardi, insignita giustamente del Leone d’argento (quello d’oro è andato a Elisabeth LeCompte, fondatrice del Wooster Group, in cui iniziò a recitare Dafoe). Ursina ci porta nell’orrore con pazienza, ci fa sentire nella pelle, con le parole, quelle “bombe sul paradiso”. Nel modo in cui rende il suo personaggio la fotografia diventa rivelazione e compassione, tentativo di ritrarre il mondo per cambiarlo, o anche solo per avvertirlo di dove sta precipitando. Quando si avvicina in primissimo piano a guardare le esecuzioni dell’Isis, solo con i suoi occhi ci porta vicino, dentro i fatti, nella bestia che tutti nutriamo dentro di noi.

Con semplicità antiretorica, in un festival che è stato anche un po’ una fiera della retorica del “bel passato”, nell’accettare il premio ci spiega, e spiega al ministro Giuli, presente, perché questo riconoscimento le aggrada:

Forse il valore di una cosa si coglie davvero soltanto quando quella cosa è minacciata. Questa minaccia non riguarda me stessa ma ciò che questo premio rappresenta: il rispetto e la stima per l’arte.

Soprattutto in tempi come questi, con le destre estreme e libertarie ma anche con forze conservatrici più moderate che continuano a smantellare e annientare non solo i finanziamenti e le infrastrutture, ma le condizioni stesse che rendono possibile l’arte, fare teatro è diventato, di per sé, un atto politico.

Il teatro, nel solo fatto di esistere, ci rivela come possiamo essere liberi. Ci impedisce di dimenticare ciò che l’uomo sa dell’uomo.

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Antonio Latella – Accademia Silvio D'Amico – Gli ultimi giorni dell'umanità, ph Andrea Avezzù, Courtesy La Biennale di Venezia.

Ho lasciato per ultimo lo spettacolo che più mi ha colpito, Gli ultimi giorni dell’umanità, da Karl Kraus, interpretato da sei giovani specializzandi dell’Accademia d’arte drammatica Silvio D’Amico (sono da ricordare, e da tenere d’occhio, tutti: Eva Cela, Pietro Giannini, Fabiola Leone, Irene Mantova, Riccardo Rampazzo, Daniele Valdemarin). La guida era Antonio Latella (drammaturgia di Federico Bellini).

Il regista in questi ultimi due anni ha preso di petto la politica, mostrando come il teatro può affrontarla senza essere tautologico o più povero (e quindi inconsistente) di altri strumenti di interpretazione. Ricordiamo Wonder Woman, sull’assoluzione di uno stupratore, un balletto frontale senza respiro, come quello della vita e dell’indignazione; Zorro, sulla povertà che cerchiamo di non vedere, interpretato con lustrini e mise alla Elvis Presley; Morte accidentale di un anarchico, a Napoli, con l’azione che si svolge sul profilo grande segnato sul palcoscenico di un cadavere, di quelli che traccia la polizia. Qui i sei interpreti si avvicendano, con furia, divertimento, ritmo incalzante, nelle decine di quei personaggi di un testo che l’autore, Kraus, immaginava possibile da rappresentare solo “in un teatro di Marte”, perché costituito di centinaia di pagine di scemenzaio sull’inevitabilità della guerra, di notizie manipolate dai giornali, di comportamenti dagli stessi indotti, e perché parlava di quella cosa abominevole che l’arte di Marte. Attori e attrici, di cui sentiremo riparlare (non è un caso che le nuove leve della nostra scena siano passate tra le “mani” di Latella, da Leonardo Lidi e Matilde Vigna a Christian La Rosa, Giuliana Vigogna, Federica Rosellini e molti altri), sotto la scritta luminosa “www.worldworldbomb.war” si donano, raccontano, si sfrenano, si trasformano. Finiscono con un vorticoso balletto con scarpe da tiptap, prima sfaldando le voci sull’Adagietto della Quinta sinfonia di Mahler, poi lanciandosi in un bacchico ballo techno su Deutschland Deuschland über alles, nella versione trash, queer (giacche di pelle, tacchi altissimi) dei Rammstein. Dalla Prima guerra mondiale ai neonazismi, con quella cosa in più che deve dare il teatro: senso dell’orrore e profondo divertimento. Si accappona la pelle, perché siamo noi là, è la nostra società dell’iperspettacolo, senza speranza, che ha in sé quei germi infetti. Ha la guerra dentro di sé. Alla fine si sente la voce di Dio: “Io non l’ho voluto”. Distante, pure lui. In cerca di giustificazioni. Come noi.

L’ultima fotografia, di Andrea Avezzù (Courtesy La Biennale di Venezia),documenta il finale di Gli ultimi giorni dell’umanità.

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