Robert Walser, perso e ritrovato nei suoi microgrammi

11 Dicembre 2015

Nell’agosto del 1957 Carl Seeling riceve per posta una vecchia scatola da scarpe contenente manoscritti e testi a stampa. Dentro ci sono anche 526 fogli coperti da una scrittura illeggibile vergata a matita. Glieli spedisce Hans Steiner, assistente medico della clinica psichiatrica di Herisau, nel Canton Appenzello, Svizzera. Appartenevano a Robert Walser morto il giorno di Natale d’anno precedente. Seeling è l’erede letterario dello scrittore, l’uomo che l’ha accompagnato per vent’anni nelle sue passeggiate, di cui ha reso conto in un’opera inconsueta, Passeggiate con Robert Walser (Adelphi). Lo scrittore e mecenate zurighese non è stato presente al decesso dell’amico, avvenuta nel corso di una passeggiata solitaria, tuttavia la descrive ugualmente nelle pagine finali del libro: “A un tratto, ecco il cuore del viandante comincia a interrompere il suo battito. La testa gli gira. È certamente un segno dell’arteriosclerosi da vecchiaia di cui una volta gli aveva parlato il medico, ammonendolo che deve saper usare prudenza nelle passeggiate (…) Cade di schianto di schiena, porta la mano destra al cuore e rimane immobile. L’immobilità della morte”. Lo ritrovano due scolaretti di una fattoria vicina venuti a veder sugli sci chi giace nella neve.

 

I foglietti della scatola costituiscono quella che qualche tempo dopo Jochen Greven definirà i “microgrammi”. Scrittura segreta, indecifrabile, una sorta di camuffamento calligrafico inventato dall’autore, scriverà Seeling su una rivista svizzera nel 1957, decretandone l’illeggibilità. Sarà invece Greven, insieme con Martin Jürgens, a decifrare quei segni calligrafici minuscoli, sottili, quasi invisibili, traendone, tra molte cose, anche un romanzo, forse il più autobiografico, Il brigante, oltre a racconti e prose sparse. Quasi trenta anni dopo, tra il 1980 e il 2000 verranno pubblicati in tedesco contribuendo alla leggenda di questo scrittore, “il più solitario tra tutti i poeti solitari”, come lo definisce W. G. Sebald.

 

Chi va ora a Mendrisio nel locale museo potrà vedere questi fogli esposti in una mostra esemplare dedicata all’autore svizzero nato nel 1878 a Bienne (Robert Walser: i microgrammi, Casa Croci). Sono retri di buste, parti di lettere, fogli di recupero, coperti da una scrittura serrata, fitta, a volte su colonne strette, a volte distesa a piena pagina, come se un insetto avesse strisciato sull’intero foglio lasciando dietro di sé una striscia di grafite sottile, densa, eppure sempre leggera e impalpabile. Walser ha definito questa scrittura con la parola Bleistftgebeit, ovvero “il territorio della matita”, o “il Paese del Lapis”, come la rende Sebald nel suo Il passeggiatore solitario (Adelphi). In una lettera del 1927, indirizzata al critico letterario Max Rychenr, Walser aveva spiegato che il suo era “il metodo della matita”, un modo di procedere che gli permetteva, rispetto alla scrittura a penna, una maggior libertà. Lavora con il lapis, scrivendo racconti o poesie, poi trascrive a penna, a volte anche modificando, cambiando, correggendo. Una sorta di doppia scrittura, “in brutta”, si potrebbe quasi dire, e una “in bella”, che ricorda quello di alcuni dei suoi personaggi.

 

Sulle ragioni di questa doppia scrittura non ci sono certezze. Antonio Rossi, che introduce il bel catalogo della mostra, allude a varie ipotesi, “per lo più collegate alla sfera psichica” di Walser. In effetti c’è qualcosa in questi foglietti e riquadri coperti di segni remoti, antichissimi, e insieme futuribili, qualcosa che ricorda le scritture di un altro svizzero, Adolf Wölfli, di poco più vecchio di Walser, bernese, folle e maniacale, che ha riempito nel manicomio in cui era internato, a Waldau, con disegni e fitte calligrafie una pila di fogli e spartiti alta quasi fino al soffitto. All’autore de I fratelli Tanner e L’assistente, usando la matita pareva di scrivere in modo più sognante, più tranquillo, più confortevole e riflessivo, così da raggiungere nelle sue micrografie qualcosa di molto vicino alla felicità, cosa che non gli procurava invece la scrittura con la penna e l’inchiostro. Rossi parla di una pratica di “tipo biologico”, in cui “il respiro trova un equivalente nei reticoli verbali costruiti dall’autore, nei movimenti impressi alla sintassi, nelle svariate fisionomie che, alla stregua di quanto avviene nella poesia visiva, si profilano sul foglio microgrammatico”. Ma non c’è solo questa calligrafia da insetto, quasi Gregor Samsa avesse cominciato nel suo letto di sofferenza a scrivere sui fogli reperiti nel comodino o nella borsa da commesso viaggiatore, per raccontare cosa gli era successo svegliandosi quel mattino. Guardando i fogli esposti a Mendrisio ci sono delle vere e proprie “cornici”, entro cui trovano sviluppo testi dalla forma disparata. Il confine tra testo e testo è labile, tutto è fluttuante e sembra seguire solo un criterio visivo, e non quello dei significati delle parole stesse, che si frammentano in un pulviscolo di segnetti , alla stregua di primitivi geroglifici, così che ogni scrittura sembra divorare l’altra, inglobarla, scavalcando il proprio spazio, la propria colonna o riquadro, così che la rigida divisione tra romanzo, prosa, poesia, teatro, che pure esiste sotto e dentro le parole, diventa irrilevante: tutto somiglia a tutto senza differenza, senza forma, puro disegno come in un pezzo di art brut, dove pure l’ordine, nonostante l’apparenza di follia, pare regnare sovrano. Un universo di tremolii, graffi, cancellature, sfregi, baffi. Tuttavia i microgrammi non somigliano per nulla a scarabocchi, per quanto rivelino il fondo oscuro di questo manierista sottile della letteratura. Sebald, sulla scorta di Walter Beniamjn, ha individuato il carattere folle dei personaggi walseriani, “figure che hanno la follia alle spalle e perciò restano sempre impregnate di una superficialità così lacerante, così totalmente disumana, così imperturbabile”. I microgrammi rappresentano proprio questa forma della superficie, una superficie chiosata e ritmata di piccoli gesti infantili. Sebald sostiene che in queste scritture, come in quelle dei racconti o romanzi passati a penna, c’è qualcosa che appartiene all’ordine della mancanza; manca l’ubi consistam: “la terribile precarietà della loro esistenza, la prismatica mutevolezza dell’animo, il panico, l’umorismo meravigliosamente capriccioso e imbevuto di cupa afflizione, l’infinito e caotico accumularsi di foglietti”.

 

Osservando i microgrammi esposti a Mendrisio non si può resistere al loro fascino estetico, bellezza delle calligrafie infantili o di quelle dei folli. Si cerca naturalmente di indovinare l’intreccio che esiste tra arte e vita, ma non è per nulla facile trovarlo. Osservando meglio ci si accorge che i supporti su cui appaiono questi segni sono i più diversi: moduli, buste, pagine di riviste, telegrammi, cartoline, biglietti da visita, pagine in ottavo. Sono riusi, riutilizzi. Se tutto fosse trascritto – e lo è stato, se capisco bene – sarebbero oltre 4000 pagine a stampa. Un’opera imponente di un calligrafo insonne e felicemente attivo con il suo lapis. Sempre Sebald sostiene che si tratta dei messaggi cifrati di un individuo confinato nell’illegalità, “mezzo per mimetizzarsi al di sotto del livello linguistico fino a dissolversi completamente”, scrittura patologica, encefalogramma inafferrabile di un individuo insieme felice e dolorosamente coinvolto da una forma di malattia mentale.

 

Nel gennaio del 1929 Robert Walser si è presentato in una clinica per malattie nervose accompagnato dalla sorella Lisa, e dopo il cambio di residenza vi è rimasto confinato fino al Natale del 1956. Lo scrittore quale folle compulsivo? Difficile rispondere. Si potrebbe dire di sì, perché così appaiono nella esposizione svizzera le sue carte coperte di segnetti. Mi sporgo a guardare meglio, avvicino agli occhi i fogli del catalogo davanti cui ora scrivo e finisco per commuovermi. Perché? Lo dice bene Sebald: la sua malattia mentale, il suo male, trae in gran parte origine da un’educazione costituita quasi solo da piccole incurie. Walser continua ad avvertire in sé il bambino, il ragazzo che è stato un tempo, il sentirsi accerchiati, circondati, che si prova da bambini davanti a ciò che è più grande, irraggiungibile, fosse anche il proprio sé ideale agognato e mai conseguito. Una chimera che le micrografie inseguono infallibilmente riga dopo riga – se le righe di scrittura sono qui davvero una misura accessibile.

 

Chi ha letto le pagine di Walser – un’esperienza unica e indimenticabile – sa che il suo ideale è quello di “vincere la gravitazione”, quella che ci tiene a terra, fermi, fissi, immobili. Basta leggere I temi di Friz Kocher per capire che a scrivere è proprio quello scolaro, che non ferma il suo lapis se non quando ha terminato il giro delle frasi: di getto, in un unico movimento di mano e fiato. Dalle pagine esposte s’indovina quanto fosse mal messa la vita interiore di Robert Walser, per dirla ancora con Sebald, suo mentore e interprete coinvolto dallo spaesamento dello svizzero davanti alla vita – Sebald è anche lui uno smarrito. Eppure c’è stato almeno un momento in cui l’uomo delle passeggiate, il poeta del camminare, aveva pensato di sottrarsi alla gravità del mondo, della sua incessante macina, deviando dal destino di follia che lo destinava la sua anima bambina. Guardo meglio alla ricerca di quel buco nella rete che lo circonda, la smagliatura, il punto di fuga, ma non riesco nonostante tutto a trovarlo. La sua scrittura possiede la suprema prerogativa di cancellare frase dopo frase le precedenti: vuole fuggire scrivendo, ma anche abolendo lo stesso atto di scrivere. Ne resta solo il movimento.

 

Trascrivo tre suoi versi: “Di prosa in prosa guizzo/ e occulto ciò che un tempo ero/ se emozioni sgradite s’avvicinano”. Sul pendio nevoso, ha scritto alla fine del suo libro di passeggiate comuni Carl Seeling, c’è il corpo di un poeta “che amava appassionatamente l’inverno con la sua leggera e gaia danza dei fiocchi – un vero poeta, che si struggeva come un bambino per un mondo di quiete, di purezza, di amore: Robert Walser”.

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