Salone del mobile | Designers, il proletariato creativo

10 Aprile 2013

Diverso, eccentrico, fantasioso, figo, frivolo, geniale, futuristico, incasinato, incomprensibile, innovativo, leggero, marginale, moderno, multimediale, nerd, pazzesco, poco redditizio, poliedrico, sfruttato, stressante, utopico, visionario: con questi termini viene definita oggi la figura del designer. La parola più utilizzata è però ancora “creativo”, e continuano a circolare termini tradizionali: grafico, architetto, artista.

 

Leggendo l’inchiesta sulla condizione dei designer in Italia (Designers’ Inquiry) si incontra una figura ancora semisconosciuta e per molti tratti indefinibile. Cosa fa esattamente un designer? La ricerca non lo dice, dato che indaga soprattutto l’aspetto economico e sociale di questa professione, ma è evidente che la maggior parte dei giovani (tra i 21 e i 30 anni) che fanno questo mestiere in vari ambiti, dal design alla grafica, dalla pubblicità alla comunicazione visiva, appartengono al proletariato creativo, sottospecie della “nuova classe creativa” teorizzata da Richard Florida qualche anno fa.

 

Dal questionario distribuito (in due mesi ha ricevuto 767 risposte alle 78 domande), emerge il nuovo operaio dei servizi avanzati: giovane, laureato, senza figli, sfruttato, a partita Iva anche se inserito in uno studio titolato,  senza orari e senza vacanze; vive in affitto, non si sposa (non può permetterselo), e magari sta in un alloggio condiviso con altri giovani. Dietro le sue spalle c’è una famiglia con madre casalinga e diploma di scuola superiore, o un padre impiegato con analogo titolo di studio (283) oppure laurea (184). La paga media più diffusa è tra i 10 mila e i 15 mila euro l’anno (131 persone), ma ci sono anche quelli che guadagnano 1000-5000 euro l’anno (129 persone). La ricerca è prevalentemente numerica, ma contiene anche informazioni che mostrano la condizione di grande difficoltà psicologica ed emotiva in cui vive questa generazione che dovrebbe risollevare le sorti del Made in Italy.

 

Che il designer sia un mestiere per benestanti, se non proprio per ricchi, appare evidente: si va a bottega da noti professionisti, ma difficilmente ci si emancipa da una situazione sottopagata, o addirittura non pagata. Sono lontani i tempi in cui i Munari, Sottsass, Mari, Castiglioni, Max Huber, ecc., eccellenze del design, vivevano un momento di grande fulgore nella Milano degli anni Cinquanta e Sessanta. Oggi il mestiere di progettista, sia nelle due come nelle tre dimensioni, è fortemente inflazionato. Ci sono innumerevoli corsi universitari, da Venezia a Milano, da Urbino a Roma, e tantissime scuola post-diploma (7-8 solo nella capitale morale), che sfornano centinaia di laureati e diplomati ogni anno, mentre il lavoro non sembra aumentato per studi o singoli designer.

 

La crisi degli anni Novanta ha creato i freelance, e anche nell’ambito della progettazione è accaduto ciò che negli anni Ottanta ha segnato l’industria in generale: decentramento produttivo. È considerevolmente cresciuta l’offerta di professionisti, e quindi, per effetto della concorrenza, si sono abbassati i compensi. Inoltre, l’avvento delle tecnologie informatiche, del computer in particolare, ha messo alla portata di tanti un mestiere che prima appariva legato a un apprendimento manuale, a pratiche lunghe e laboriose: il sapere è stato incorporato dalle macchine, come il vecchio Marx ci ha insegnato.

 

Più poveri di denaro e di sapere? In parte sì, il proletariato creativo è deluso, insoddisfatto, risentito, anche se pur sempre innamorato del proprio mestiere di creatore: una schiera di entusiasti. Tracciare l’identità professionale del designer non era tra i compiti di questa inchiesta, ma un dato colpisce: la struttura tradizionale del lavoro scelta. Pochi usano la forma del co-working, luoghi e spazi dove si condividono spese, competenze, contatti, consulenze. Prevale ancora la logica dello studio, magari in due o tre, come se il lavoro di designer fosse un lavoro solitario e, tutto sommato, gerarchico (il “vecchio” con i “giovani” assistenti).

 

Chris Anderson, esperto di nuove tecnologie, ha ipotizzato un prossimo cambiamento nell’ambito della attività progettuale. Nel suo libro, Makers. Il ritorno dei produttori (Rizzoli), le tecnologie informatiche, che hanno proletarizzato l’ampia schiera dei designer, potrebbero fornire ora la risposta a problemi occupazionali, produttivi e di reddito. Le stampanti in tre dimensioni potrebbero generare le “fabbriche personali”, dove produrre in serie limitate gli oggetti di cui abbiamo bisogno: bicchieri, posate, telefoni, tavoli, porte, ecc.

 

In questo nuovo scenario il proletariato creativo potrebbe svolgere un ruolo importante per il ritorno in Italia delle produzioni fuggite altrove. Sarà questa la soluzione per salvare un’intera generazione di creativi, e insieme la nostra economia sfiancata dal Made in Cina? Difficile dirlo, ma il Sol dell’avvenir potrebbe tornare a sorgere di nuovo nel Bel Paese.

 

 

Questo pezzo è apparso su La Stampa il 9 aprile 2013

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