Scambiarsi i verbi difettivi

12 Gennaio 2016

Ci sono dei casi spesso fortuiti, a volte cercati, in cui due o più persone si incontrano “in angolo”, nel riflusso di una marea e loro sono controcorrente, nel bagliore di un fiammifero per scambiarsi una sigaretta, nell’autobus che entrambi o più hanno preso per sbaglio. Accade quando si è costretti da una maggioranza silenziosa a nascondersi nella vergogna di un atto non sostenibile o di una parola che si sa che non potrà essere detta. Non mi riferisco qui al coraggio eroico di chi in circostanze avverse combatte contro regimi e totalitarismi, no, piuttosto rivendico la modestia di potere scambiarsi la propria incertezza. Sia chiaro, nessuna ideologia del “queer” mi interessa, appunto perché appunto l’incertezza è quanto di più lontano dalla prosopopea della “diversità”. Per “scambiarsi i verbi difettivi” bisogna trovarsi dalla parte di chi non fa una teoria del proprio comportarsi perché quello che lo spinge non è un presupposto, ma lo stupore dell’aspetto inedito e sorprendente della vita. Per avere questa voglia di “scambiarsi i verbi difettivi” bisogna non poterne più di una contemporaneità che identifica il proprio scrivere su facebook come parte di una “militanza” quotidiana, dove bisogna convincere “gli altri” dell’assoluta necessità di diventare qualcosa. È il comando che Sloterdjik nel suo Devi cambiare la tua vita dice essere la vera costellazione della contemporaneità. Che si sia vegani, animalisti, antiumanisti, queer, anti-patriarcali, sensibili ai rifugiati e agli immigrati, inorriditi dalla crudeltà della cronaca, anticapitalisti o tutto il contrario, di questo c’è nella nostra contemporaneità una malattia cronica, quella di volere cambiare gli altri. Non esiste alcun discorso che esuli questa sfera del dover convincere, rimproverare, indurre, far vergognare. Facebook, ma ovviamente buona parte dei social media sono diventati la maggioranza silenziosa, spacciandosi come luogo di una socialità minoritaria ed egualitaria. Nella Zuckerberg ideologia la filantropia consiste nell’indurre gli altri ad essere e a fare qualcosa che vada bene a chi pensa che ci sia un modo giusto, corretto, moderno, avanzato di dover essere. La cosa che fa impressione è che in questa ideologia ci casca proprio chi pensa di essere parte di una cultura “alternativa”, mentre non ci si accorge che i contenuti qui importano poco, quello che conta è il “comando” che soggiace a tutto ciò. Se perfino persone intelligenti come Rebecca Solnit finiscono per usare i social per dire che ci sono libri che le donne non “dovrebbero leggere”, primo tra tutti Lolita di Nabokov, vuol dire che siamo messi davvero male. La Solnit sta virando, con buona pace di chi la santifica sulle pagine dell’Internazionale verso un moralismo radicale. Dice che è importante “giudicare” con parametri morali arte e letteratura perché sono ambiti che hanno molta influenza sulle persone. Le ho scritto facendole osservare che è la stessa procedura dell’Indice della Chiesa Cattolica e mi ha risposto che “per l’appunto le istituzioni totalitarie avevano capito quanto fosse influente arte e letteratura” e quindi da ciò bisogna prendere spunto per difendersi oggi dai pericoli che ne provengono (chi vuole seguire il dibattito è sul Guardian delle ultime settimane di Dicembre). Io credo che la letteratura sia uno di quei luoghi di “scambio dei verbi difettivi” che ha costituito nel Novecento e fino ad oggi una roccaforte contro il moralismo e una difesa dell’ambiguità della vita e della sua irriducibilità a morale. Il problema è che non ci stiamo accorgendo di essere entrati in un terribile periodo di nuovo moralismo, come strumento che viene lasciato a chi non ha potere per rovinarsi la vita e rovinarla agli altri. Il potere è sempre stato immorale e amorale, ma non è che lo si contrasti diventando moralisti radicali. Da questo punto di vista Isis l’abbiamo creato noi, come sono felici di dirci gli anti-americani, ma proprio perché Isis è figlio del moralismo della nostra contemporaneità e dalla volontà di fare fuori qualunque tipo di ambiguità “non schierata”. Una volta chi si batteva contro questa follia erano i poeti, garanti che la vita fosse ben più ampia di qualunque regime e correttezza politica. Oggi essi tacciono e spesso prendono le stesse vesti dei buonisti e dei moralisti. Ma veniamo al dettaglio dello “scambiarsi i verbi difettivi”. C’è un modo di descrivere in cosa consista questo piccolo miracolo inaspettato? Forse più che una spiegazione qui quello che conta sono le storie. Mi piacerebbe raccogliere qui, su Doppiozero storie mie e di altri su momenti in cui si è sperimentato lo scambio dei verbi difettivi. Quando ci si è trovati a vivere una situazione che non era possibile spiegare a terzi, ad esempio (è il caso tipico degli amanti, ma prendetelo qui come paradigma), i verbi difettivi sono la conoscenza che c’è una vita che supera le regole. Oppure tutti i casi in cui ci si sottrae al mondo patriarcale, ma anche a quello matriarcale, i casi di infedeltà all’appartenenza (si legga il magnifico libro su Scientology uscito per Adelphi e le storie di chi è riuscito a uscirne: ma qui per Scientology si legga Opus Dei, Pd, 5stelle, femminismo, queer ideology, cristianesimo o islam radicale, veganesimo e via dicendo). Mi piacerebbe raccogliere in un libro le “infedeltà” di chi ha smesso di farne parte perché la vita è molto più ampia dell’ideologia. Dovrebbe essere un libro asociale, amorale, fatto di eccezioni che si vergognano – e che non pretendano di essere regola. Come sarebbe bello se dentro all’idea di “Scambiarsi i verbi difettivi” vincesse la voglia e il desiderio che accomuna gli umani e non la terribile malattia del secolo, quella non del “dover essere” ma del “dover far essere”.

 

 

Ps. Mi impegno nelle prossime settimane di raccontare io le prime storie, come so fare, nell’unico modo che mi è proprio, qualcosa a metà tra il saggio e il racconto.

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