Goethe Institut Torino / Siamo cambiati dalle immagini

11 Marzo 2017

 

Il 15/16 marzo a Torino due giorni di incontri sul tema delle immagini e della violenza: come dobbiamo e vogliamo rapportarci a tutte queste immagini che pervadono e ossessionano la società occidentale? Che effetto ha il predominio dell’immagine sulla costruzione e tradizione del nostro canone culturale? È possibile formulare un’etica dell’immagine per il XXI secolo? Doppiozero riprende qui un contributo di Riccardo Panattoni per contribuire a costruire un dibattito attorno al tema, urgente e fondamentale.

 

Durante un’intervista rilasciata a Claude Bonnefoy alla fine degli anni sessanta, soffermandosi sul rapporto tra il suo fare filosofia e la propria scrittura, Michel Foucault dichiara in primo luogo di non sentirsi un interprete, di non avere l’ambizione di riportare alla luce cose sepolte o di rendere evidente il segreto che si nasconde dietro a ciò che è stato detto da altri. Non si sente neppure coinvolto in una ricerca rivolta a evidenziare il senso dissimulato nelle cose o nei discorsi: gli preme innanzitutto rendere conto di ciò che è immediatamente presente, perché in realtà, a guardarlo bene, rischia di rimanere avvolto in una sorta di invisibilità.

 

Foucault associa così metaforicamente il proprio lavoro alla visione di un presbite, per rendere evidente ciò che è troppo vicino allo sguardo per poterlo vedere. Sebbene la nostra visione si posi ogni volta su qualcosa che è davanti ai nostri occhi, quasi tangibile, il nostro sguardo, avvolto com’è dal sapere che lo costituisce, è portato a vedere qualcosa di predeterminato. Anziché soffermarsi su ciò che sta vedendo, lo sguardo abitualmente tende a identificare nel modo più veloce possibile ciò che vede, ad assegnargli un nome e un significato per poter passare così immediatamente oltre, mantenendo il soggetto impegnato nell’azione.

 

Foucault non si addentra tuttavia a indicare dei criteri per provare almeno a ridurre questa generale attitudine, propone invece la necessità di restituire densità e spessore a qualcosa che rimane comunque di per sé impalpabile: quella che potremmo definire come la trasparenza pulviscolare che avvolge le nostre visioni. Si tratta infatti della percezione di un punto cieco per un eccesso di evidenza, a partire dal quale il nostro sguardo continua a distendersi normalmente sul senso della propria visione, ma al contempo è come se tale visione rimanesse un attimo in più come riflessa nei nostri occhi. Un riferimento percettivo non chiaramente definibile, appartenente soltanto alla sfera della nostra esperienza visiva, che tuttavia ha l’ambizione di riposizionare addirittura il campo generale del nostro sguardo rispetto a quello del nostro sapere. Cogliere questa apparente invisibilità correlata allo sguardo e contrassegnata da una sovraesposizione per eccesso di visibilità, da una lontananza pulviscolare di ciò che ci è troppo vicino, da una familiarità che ci rimane ogni volta ancora e sempre sconosciuta, è il compito nel quale Foucault dichiara di sentirsi maggiormente impegnato rispetto al proprio lavoro.

 

Anche il testo che qui presentiamo si inscrive all’interno del medesimo solco: cerca di evidenziare l’impalpabilità pulviscolare di questa trasparenza assumendo il movimento dialettico che si instaura tra lo sguardo, colto nella semplicità del proprio gesto e la sua capacità di fissare, come in fotografie mai scattate, i momenti che incontra e che nella loro quasi inapparenza compongono la nostra realtà, come accade ad esempio quando fissiamo l’espressione fuggevole di un volto. Si tratta di immagini che rimangono riflesse un attimo in più nello specchio dei nostri occhi e vengono a far parte quasi involontariamente del mondo della nostra memoria visiva. Poi, come accade nei fenomeni intermittenti, possono tornare sovrapponendosi a ciò che stiamo osservando, creando come una diacronia temporale nella struttura lineare in cui riteniamo si svolga il tempo della nostra soggettività.

 

Non si tratta tuttavia del connotarsi di un luogo di pura sensazione, quanto piuttosto di un aumento o diminuzione di potenza nel passaggio da una sensazione all’altra, è l’evidenziarsi di una qualità virtuale delle immagini che deriva dalla loro reversibilità intensiva nel momento in cui si riflettono nel nostro sguardo. Perché quel punto cieco di passaggio da una sensazione all’altra non corrisponde a un puro vuoto, ma forse al luogo in cui le immagini prendono forma, lasciandosi impregnare dall’indeterminazione qualitativa di quel vuoto e permettendo così l’affiorare di un momento di incanto, un’esitazione del tempo che carica di responsabilità il senso singolare del nostro stare all’interno della vita, del nostro permanere in prossimità amorosa con ciò che incontriamo, siano esseri umani capaci di scelta, animali od oggetti.

 

Riccardo Panattoni, Siamo cambiati dalle immagini. Esitazione, responsabilità, incanto, Moretti & Vitali, Bergamo 2014.

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