Sudare internamente
Qualche tempo fa, così per gioco e a tempo perso, sono stato invitato a riflettere sull'opposizione manichea tra la figura dell'intellettuale e quella dell'atleta: l'una sedentaria e rachitica, ingobbita sui libri e indifferente agli eventi sportivi, l'altra tutta muscoli niente cervello, disinteressata ed estranea all'ambiente culturale.
Queste due sacche di significato identitario – nel loro essere stereotipi sciocchi – sono al giorno d'oggi etichette anacronistiche e prive di senso, eppure tendono ancora, in qualche modo, a rimanere immobili con il loro netto contorno di demarcazione ben definito. Allo stesso modo, poi, per il medesimo motivo, come due figure ingabbiate l'una accanto all'altra, intellettuale e atleta si rivolgono sguardi circospetti nelle reciproche direzioni.
Nonostante il tempo in cui viviamo dica il contrario, osservando il tentativo (seppur lento) di abbattere confini di specificità a circuito chiuso e costruendo parentele che scavalcano barriere inesistenti, entrambe queste figure restano culturalmente ben connotate nel nostro immaginario, resistono fisse come epiteti duraturi, senza riuscire a disgiungersi dalla lunga tradizione filosofica e religiosa che, con l’avvento del cristianesimo, ha spazzato via per intero la cultura dell'esercizio fisico e dello sport. Le cattedrali hanno sostituito le palestre come luoghi sacri: occorreva esaltare lo spirito santo – l'anima – e non più il corpo.
Bill Hayes, autore del libro Sudore edito da Il Saggiatore, si offre come piroettante guida nel solco di questo strappo. La sua è innanzitutto una storia personale, che lo riguarda biograficamente, che nasce dal suo corpo e dai corpi delle persone care che gli gravitano attorno. È la storia della sua ricerca a perdifiato, della sua indagine a spirale, avvolgente, meticolosa, indomita.
A Bill Hayes, "in un torrido pomeriggio di luglio, caldo e appiccicoso" viene donata senza preavviso un'epifania: gli viene mostrato un libro del 1500 di Girolamo Mercuriale intitolato De arte gymnastica.
Da quell'istante preciso comincia la sua caccia in cerca di informazioni, manoscritti e documenti, una vera e propria avventura itinerante di cui l'autore del libro si farà protagonista, trovandosi a setacciare – con una fatica esemplare – biblioteche e archivi in più continenti, a interrogare maestri illustri e bibliotecari indisposti, a indagare scrupolosamente attorno al personaggio iconico e sconosciuto ai più come quello di Girolamo Mercuriale.
Potremmo descrivere la figura di questo medico romagnolo che visse nella seconda metà del '500, che scriveva in una forma ricercata di latino medievale, che venne supportato economicamente dall'influente famiglia Farnese, come quella di un mediatore appassionato, capace di allacciare – dopo lungo tempo – arte ginnastica e arte filosofica. Di questo cambio di postura nei confronti dell'esercizio fisico Mercuriale rivendica con fierezza il proprio primato, la propria visionaria determinazione.
Quella di Mercuriale sembra, infatti, una figura di mezzo, in grado di rompere gli schemi prestabiliti e collaudati da lungo tempo, tentando di ripristinare minuziosamente quell'arte imprescindibile dell'esercizio fisico "ormai estinta", ormai spenta e dimenticata.
L'argomentazione di Mercuriale in favore dell'esercizio fisico si mostra fin da subito "più simile a quella di un avvocato difensore che a quella di un medico – logica, minuziosa, diplomatica" scrive Bill Hayes. "L'opera è composta di sei parti – sei libri – pensate in modo che ognuna prenda le mosse dalla precedente. Nei singoli capitoli si discutono la corsa, la camminata, il nuoto, i salti, il pugilato, la lotta e tantissime altre attività, incluse alcune che non avevo mai considerato prima come forme di esercizio: ridere, piangere e trattenere il respiro."
Bill Hayes si trasforma a capitoli alternati in topo da biblioteca e in topo da palestra, sondando da una parte l'architettura bibliografica di Mercuriale, nelle sue intuizioni preziosissime e nelle sue illustrazioni così precise da sembrargli vive, e confrontandosi dall'altra parte con quanto accade alla dimensione del corpo nell'epoca moderna, accedendo in prima persona alla varietà delle offerte legate al benessere corporeo.
Il filosofo contemporaneo Colin McGinn (per sua stessa ammissione un patito di sport) sottolinea come l'educazione fisica dovrebbe essere qualcosa che ci accompagna per tutta la vita. "Ci piace avere una mente sapiente, ben provvista di informazioni; dovremmo volere che anche i nostri corpi fossero equipaggiati allo stesso modo" scrive nel suo libro Sport. "È bello avere un corpo erudito".
Bill Hayes, d'altra parte, segue esattamente questa intuizione, trovandola iscritta proprio dentro la sua giovinezza: "Mi piaceva allenarmi in sé e per sé, la pura semplice soddisfazione di adoperare tutta la mia forza contro qualcosa che vi opponeva resistenza. Ricercavo quello che Ivan Pavlov ha chiamato, con una bellissima espressione, felicità muscolare".

Anch’ io sono stato un atleta professionista e per circa quindici anni della mia vita, saltando e performando su innumerevoli campi da pallavolo, ho considerato il mio corpo come il mio principale utensile da lavoro. Eravamo – io e il mio corpo – un soggetto uniforme, composto di una fisicità, di un'interiorità e di un'agognata collaborazione d'intenti.
Di quella pavloviana felicità muscolare ho fatto io stesso esperienza, raccogliendo per esempio nella stanchezza, nella ripetizione, nel riposo – talvolta persino nella tolleranza al dolore – le schegge di un piacere, i piccoli brandelli di una qualche soddisfazione.
Questa premessa mi è utile per registrare alcune intuizioni che Bill Hayes inserisce nel suo libro Sudore. E non solo: mi porta in consegna anche una domanda contraddittoria, forse persino impertinente.
Il gesto atletico può essere considerato al pari di un'opera intellettuale, un'opera artistica?
Nel capitolo Diario del pugile, Hayes scrive:
"Comincio a prendere la mano e il ritmo, ma non tutti ci riescono. A un certo punto vedo Paul aiutare un allievo che è tutto gomiti e niente linee – e niente pugni, quindi. "Non è una cosa che si impara in un giorno, amico" gli dice Paul in quella che, giuro, sembra essere una voce gentile. "È una lingua, una lingua tutta nuova" dice, riferendosi ai movimenti che noi, apprendisti di un antico linguaggio, stiamo tutti provando a imparare."
In un altro capitolo, invece, descrive l'esercizio analitico della lat machine, eseguito in una palestra a specchi di Manhattan.
"Allungo le mani sopra la testa e afferro la grossa barra, mi appoggio appena alla panca, mi piego in avanti e tiro verso il basso, più giù che posso. [...] Il fatto che non posso vedere la mia schiena durante questo esercizio fa parte di ciò che lo rende appagante: i muscoli vanno immaginati, sentiti mentre si contraggono, affidandosi non alla vista ma alla percezione."
Nel capitolo dedicato all'arte di nuotare, scrive:
"Per definizione fare pratica comporta commettere errori, riconoscerli ed esplorare i modi in cui si possono correggere, mettendo in atto degli aggiustamenti. Imparai che la pratica è una fase diversa dell'allenamento, anche se è vero che praticando si fa esercizio. Quando si fa pratica bisogna pensare. L'esercizio invece, quando si fa nel modo migliore e più gratificante, non lo richiede."
Immaginazione, linguaggio, grammatica, percezione, pratica sono lemmi sconfinati. In questo senso, la frontiera con il teatro, la danza, la pittura, la scrittura o la musica – non esiste.
Tempo fa, quando ancora esercitavo le mie quotidianità atletiche, appuntavo con certezza che il gesto atletico è un'opera. Un'opera già disfatta nel suo farsi. Registrabile, riproducibile, certo. Ma in realtà, nella sua esecuzione di moto vivente, è un'opera già dissolta, già conclusa. Un microcosmo infinitesimale composto di attimi infranti. Un'opera artistica, per l'appunto. Quello che compare nella sua frazione, nel suo istante sospeso, a prescindere dall'esito, è un'ostinata ricerca che lo ha preceduto.
In questa stessa ricerca, forse, la figura dell'atleta e la figura dell'intellettuale trovano il loro punto d'incontro più vicino. Il corridoio dell'archivio più frequentato dai topi da biblioteca, dove si custodiscono i manuali più rari e preziosi, raggiunto quando lo studio diviene finalmente intenso e profondo, coincide con la vertiginosa esplorazione corporea di un atleta che s'imbatte in una tendinopatia cronica alla cuffia dei rotatori, che decide di analizzare il ritmo dei passi della rincorsa che precede il salto, che studia i tempi dell'avversario, le sue direzioni, le proprie ritualità, le coincidenze.
Ricercare una parte celata e sconosciuta per edificare il testo – il gesto: in entrambi i casi si tratta di eseguire l'opera, farla sorgere.
Nel libro di Bill Hayes, naturalmente, anche il sudore possiede un ruolo rilevante. "La funzione più importante delle ghiandole sudoripare è la termoregolazione. Sudiamo principalmente perché la nostra temperatura si è alzata."
Attorno al sudore corrono numerose credenze e falsi miti. Sudando non ci si libera delle tossine, il sistema sudoriparo non funziona in modo identico per tutte e tutti.
Qualche volta, mentre giocavo, mi è stato rimproverato di non sudare. Come se questo fosse un segno inequivocabile, un attestato di non fatica, di non sacrificio (nella retorica sportiva – di colpa). Un giornalista una volta s'inventò che di certo gli sembrava che io sudassi internamente. Mi piacque come formula.
Sudare internamente forse significa proprio intrattenere un singolare linguaggio corporeo interiore, un balbettio intermittente, un flusso di coscienza muscolare che esercita e visualizza una ricerca che sta in bilico tra mondi separati – mondo artistico e mondo sportivo, ma che in realtà ne desidera la pacificazione, lo scambio, la commistione, seguendo la via lanciata da Girolamo Mercuriale.
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