Antonio Beato, pioniere fotoreporter

26 Novembre 2025

“La storia non finisce mai!”: così Italo Zannier agguantando il microfono con immutata baldanza all'anteprima stampa della mostra veneziana su Antonio Beato, fratello del più famoso Felice - creduti per molto tempo una sola persona, sulla scorta dei due nomi giustapposti a siglare le loro fotografie. E se ora Palazzo Pesaro degli Orfei - già casa e atelier di Mariano Fortuny prima di divenirne il Museo - può aprire le porte a questo “Ritorno a Venezia” (15 ottobre 2025 - 12 gennaio 2026), risalendo nel tempo lo si deve all’infaticabile passione investigativa che ha spinto Zannier, primo cattedratico in Italia di Storia della fotografia, a tallonare quella misteriosa e affascinante famiglia, forse veneziana, per metà della sua vita – della quale racconta nelle Cronache di un fotografo impenitente, di cui ha scritto qui Carola Allemandi.

Così i fratelli Beato, capitanati questa rara volta da Antonio, tornano a essere protagonisti di una mostra a Venezia oltre quarant’anni dopo quella storica, del 1983, all'Ikona Photo Gallery di Živa Kraus, curata appunto da Italo Zannier, che proprio allora distingueva le due figure.

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James Robertson, Autoritratto con il cognato Felice Beato in abiti turchi, 1855, Stampa su carta salata acquerellata / Salted paper print overpainted with watercolour21 x 15 cm, The Ömer M. Koç Collection, İstanbul.
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Antonio Beato, Isola di File. La corte di ingresso con i colonnati laterali e il primo pilone del Tempio di Iside,  1870-1888, Stampa all’albumina / Albumen print23,5 x 33,6 cmMuseo Egizio, Torino.
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Antonio Beato, Abu Simbel. Facciata del tempio di Nefertari (Piccolo Tempio) con le quattro statue di Ramses II e le due statue della moglie Nefertari, 1870/1888, Stampa all’albumina / Albumen print 20,2 x 26,4 cmFondazione Musei Civici di Venezia - Museo Fortuny.

Nel corso del tempo, dei due fama maggiore ha avuto il maggiore, Felice: spintosi più lontano, è divenuto notissimo in particolare per le sue fotografie giapponesi, che insieme a quelle di altri fotografi occidentali e non (Adolfo Farsari, Raimund von Stillfried e i loro colleghi della cosiddetta “scuola di Yokohama”) documentarono l'apertura del paese all'occidente, portandone e in qualche modo disegnandone nel mondo l'esotica e già evanescente immagine.

L’esposizione veneziana invece punta i riflettori su Antonio (nato intorno al 1835 e morto nel 1905/1906), che forse da Venezia, o da Corfù o qualche altra isola adriatica, si trasferì insieme alla famiglia, intorno al 1844, a Costantinopoli. Lì i due fratelli conobbero l’inglese James Robertson, incisore alla zecca imperiale ottomana e maggiore di loro di circa vent’anni, che divenne marito della sorella Leonilda Maria Matilde. Fu con lui, che aveva aperto uno studio fotografico nel quartiere vivace e cosmopolita di Pera, che i Beato si formarono e viaggiarono in area mediterranea, e in Crimea e in India, lungo un reticolo di percorsi riprodotto sulla copertina del catalogo raffinato, tutto da leggere, che dovrebbe essere una sorta di numero zero di una serie di volumi che accompagneranno alcune delle mostre future del museo. È un’immagine che riprende la mappa in apertura della mostra, e che insieme a una grande tavola cronologica che lega eventi politici, egittologia e fotografia, aiuta a seguire le tappe di un’avventura straordinaria, che le prime tre sezioni della mostra cercano di scandire.

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Antonio Beato, Saqqara. La Piramide a gradoni del re Djoser, 1860-1862 (?)Stampa all’albumina / Albumen print20 x 26 cmFondazione Musei Civici di Venezia - Museo Fortuny.
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Antonio Beato, Edfu. Interno del santuario del Tempio di Horus con il tabernacolo del dio all’interno del naos, 1870-1888, Stampa all’albumina / Albumen print20,2 x 26,5 cmFondazione Musei Civici di Venezia - Museo Fortuny
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Antonio Beato, Karnak. La grande sala ipostila del Tempio di Amon con la colonna crollata definitivamente nel 1899, 1870-1888Stampa all’albumina / Albumen print 26,3 x 20,2 cmFondazione Musei Civici di Venezia - Museo Fortuny

La prima sezione è dedicata appunto agli anni della formazione, con i viaggi ad Atene, Malta, in Terra Santa, al Cairo. La seconda si concentra sulle guerre, quella di Crimea (1853-56) e la prima guerra di liberazione indiana (1857-58), che vedono Antonio e i suoi compagni di viaggio tra i primi fotografi di guerra, con scatti anche molto crudi. Ma è la terza sezione a costituire il cuore della mostra e della vita di Antonio: sono gli anni egiziani, che coprono del resto la maggior parte dell’arco della sua vita. Quando le strade di Robertson e dei due fratelli si dividono, Antonio, intorno al 1860, forse presagendo i buoni affari generati dalla moda del grand tour, torna in Egitto e si stabilisce per due anni al Cairo, e poi a Luxor, dove rimarrà fino alla morte, unico fotografo lì stabilmente insediato. Sono i decenni delle eccezionali scoperte archeologiche all’origine di un’egittomania che perdura e che ha acceso le prime fascinazioni esotiche nelle menti dei bambini di tante generazioni – hanno inaugurato in questi giorni una grande mostra a Roma alle Scuderie del Quirinale, e il nuovo Grande Museo Egizio di Giza, costato più di un miliardo di dollari e oltre vent’anni di lavori. Se la nascita dell’egittologia si fa coincidere con la campagna di Napoleone, grazie agli oltre centocinquanta studiosi che vi presero parte e che consentirono la pubblicazione, tra il 1908 e il 1928, dei ventitré volumi della Déscription de l’Égypte, si può dire che Antonio Beato è testimone dell’esplosione di questa disciplina. Al di là del suo occhio compositivo, per l’egittologia alcune delle sue fotografie sono tutt’ora particolarmente preziose perché i loro soggetti non esistono più, e li conosciamo solo grazie a quegli scatti. La mostra ha anche il pregio di volerli contestualizzare, e li colloca accanto a mappe dei siti archeologici ritratti, ridisegnate proprio a partire da quelle napoleoniche, che raccontano anche il rapporto tra fotografia, architettura e paesaggio. Antonio avrà ricevuto delle commissioni specifiche da quegli archeologi? Quanto e come la sua attività e la sua quotidianità si saranno intrecciate alle loro? Su un suo eventuale ruolo di “fotografo di scavo” si possono per ora solo immaginare ipotesi, ma si sa che alcuni di loro comprarono delle sue foto, e che Gaston Maspero acquistò per il Museo del Cairo parte dei materiali del suo atelier, compresi 1500 negativi, messi in vendita alla sua morte dalla moglie.

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Antonio Beato, Tebe. I Colossi di MemnoneThebes. 1870-1888 (1860-1882 (?))Stampa all’albumina / Albumen print20 x 26,3 cmFondazione Musei Civici di Venezia - Museo Fortuny

Curata da Joao Magalhães Rocha e Marco Ferrari, architetti e docenti rispettivamente all’Università di Évora e allo IUAV, con Cristina da Roit conservatrice del Fortuny, la mostra nasce in origine da una ricerca accademica, iniziata nel 2021, sulle albumine di Antonio Beato presenti a Venezia, che è poi sfociata in questa impresa più ampia; qui quelle albumine sono in dialogo con opere di Beato altrove conservate e opere di altri autori, coevi e posteriori. Oltre a esporre un nucleo di fotografie di proprietà della Fondazione Musei Civici di Venezia, infatti, la mostra accoglie opere della Fondazione Alinari, della Fondazione di Venezia, del Museo Egizio di Torino (che per la prima volta presta materiali fotografici), e stampe realizzate con criteri filologici, i cui originali, non prestabili, sono conservati in istituzioni italiane ed estere come il Getty Research Institute, il Metropolitan, la New York Public Library, la National Gallery di Washington. Quel che l’occhio di Beato coglie acquista così, grazie all’accostamento con altri sguardi, maggiore profondità e una prospettiva che arriva fino a noi. L'ultima sezione infatti, che vuole stimolare una riflessione sul medium fotografico, raccoglie lavori di fotografi contemporanei, provenienti della Tintera Gallery del Cairo, o novecenteschi – bellissima, tra tutte, la fotografia della piramide di Cheope, in una sorta di controcampo dato dalla sua ombra, di Lee Miller, in questi mesi celebrata da una grande mostra alla Tate Gallery. L’ultima saletta, più raccolta, aggiunge fascino all’allestimento, ricordando come molte di queste foto siano in qualche modo “a casa loro”, perché collezionate da Mariano Fortuny stesso, che nel 1938 partì con la moglie Henriette Nigrin per un viaggio di tre mesi in Egitto, anche al di fuori dei percorsi più battuti, dove realizzò disegni qui visibili per la prima volta. A casa loro sono anche i due album, “Egitto” e “Palestina e Siria” (che contengono una trentina di foto di Antonio Beato) esposti e sfogliabili virtualmente su degli iPad a disposizione del pubblico, perché appartengono alle collezioni civiche della città di Venezia confluite nel 2006 a Palazzo Pesaro degli Orfei dal Museo Correr: un trasferimento che insieme alle foto scattate o collezionate da Fortuny ha reso questa sede scrigno di un archivio straordinario, che conta circa 110.000 foto tra stampe e negativi su lastre di vetro e pellicola.

Allestimento

 

Chiude la mostra una lunga videointervista realizzata da Francesco Zanet a Italo Zannier che ci racconta il ruolo chiave dei fratelli Beato nella formazione dell’immaginario occidentale di tanti orienti vicini e lontani, dal Bosforo alla Terra Santa, dal Nilo all’India, dalla Cina alla Corea e al Giappone. E che con la sua vis continua a corroborare l'istinto da detective che alberga in qualcuno di noi (“manca ancora il civico a cui abitarono i Beato!”) e l'interesse per i dettagli grandi e piccoli della storia, che appunto, “non finisce mai!”.

In copertina: Antonio Beato (attribuibile ), Kom Ombo. Il Tempio di Sobek e Haroeris in gran parte ancora sommerso dalla sabbia, 1870-1888, Stampa all’albumina / Albumen print20 x 26,2 cm Fondazione Musei Civici di Venezia - Museo Fortuny

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Antonio Beato