Taccuino estivo 7. Geografia interiore

25 Agosto 2022

La geografia interiore ha mappe con toponimi intorno ai quali si levano paesaggi astratti, fatti di pochi elementi, sopravvissuti all’oblio: una linea di mare, la curva di una collina, una stanza disadorna, una strada con figure prive di volto, e tuttavia, in mezzo a quei resti di immagini, l’evidenza di un profilo, talvolta un modo di sorridere, e persino il suono di alcune parole. Quel che accade con il tempo dell’infanzia, che si mostra talvolta con l’opacità e la luce di un’alba immobile, confinante con un tempo onirico, distaccato da quell’io che vorrebbe ricordare e raccontare, si ripete con le altre stagioni della vita, anche se in forme meno bucherellate dal vuoto della dimenticanza.

Eppure proprio in questo al di qua del colore definito, in questo presagio della forma, in questa lontananza che si ostina a sottrarsi all’evidenza della prossimità visiva, la geografia interiore dispone le sue carte. Che hanno nomi di paesi, e hanno voci e volti. L’atto del ricordare non è che l’esercizio di una resistenza che custodisce quel che il presente, con le sue immagini, vorrebbe respingere nell’indistinto del già vissuto. In questo lavoro di preservazione la geografia sostiene il tempo, il suo mostrarsi per frammenti: è quel che accade nella Recherche proustiana, nell’addensarsi delle immagini in un “frammento di tempo allo stato puro”, richiamato alla presenza interiore da un particolare visivo o auditivo e dall’inattesa scossa della sensazione che il suo apparire ha provocato. 

Il nesso tra un luogo e una figura, tra un paesaggio e una voce, è quel che aiuta la preservazione di un incontro, o di una lontana presenza. Ciascuno di noi ha, credo, una sorta di personale repertorio, o album interiore, in cui dispone questi vincoli tra lo spazio e il tempo, tra il luogo e l’accadimento, tra il visibile e il rammemorabile. 

Ho detto album, ma si tratta di fogli il cui ordine di apparizione, e di evocazione, è ogni volta diverso, e i cui contorni possono di volta in volta variare quanto a nitore e precisione. Ma possono anche essere ordinati, quei fogli, secondo aree temporali e spaziali. Perché è ciascuno di noi a decidere se e come portare nella lingua, nel tempo della lingua, le immagini di un ricordo.

Quando Baudelaire, ad apertura dello Spleen LXXVI, scrive il verso “J’ai plus des souvenirs que si j’avais mille ans”, non è la pura quantità dei ricordi che indica, ma la loro affollata presenza interiore che chiede la scena. 

Questa premessa ha solo trattenuto per un poco le tante situazioni che mi si affollano nella mente – sul palco appunto dei ricordi – e che appartengono a tempi diversi, ma sono unite dal fatto che in esse forte è il nesso tra il luogo e la presenza umana. Tra queste, eccone solo alcune che mi tornano più volte alla mente, e che ora provo a sottrarre per qualche istante all’intimità per portare alla luce di una condivisione.

Parigi, un lontanissimo novembre. Una piccola stanza-cucina nella quale mi hanno portato amici studenti del Movimento di Liberazione dell’Angola (il movimento di Agostiño Nieto). Abbiamo attraversato in auto un’estesa banlieu che ora non so situare: con questi studenti angolani della vecchia Sorbona mi è accaduto qualche sera di distribuire volantini nei caffè sul Boul’mich. In un angolo della cucina, sotto una luce flebile, la tavola: vi è già seduto uno che mi dicono subito essere un medico, militante del Movimento, c’è una pentola dalla quale si prelevano piselli e uova, e un signore alto, lunga barba bianca su volto nero, che intuisco essere il capo.

Un’immagine precisa come un fotogramma immobile: le sue mani reggono un piccolo boccale di birra levato davanti al mio per un prosit, nelle sue parole l’augurio che io possa festeggiare con loro un giorno non lontano l’indipendenza del loro Paese. Una cucina, alcuni volti, il mio sguardo verso la tenda che nasconde un piccolo antro dove mi hanno detto che c’è la radio clandestina. L’immagine sta con me, integra, negli anni, nel tumulto delle altre immagini.

Costa ionica salentina, maggio. Pomeriggio. Una linea di dune con giunchi alle spalle, il mare di cobalto ha scaglie di luce, al mio fianco Edmond Jabès, al quale ho voluto mostrare il paesaggio della mia infanzia e che ora, silenzioso, guarda l’orizzonte. Vorrei indovinare i suoi pensieri in quel silenzio che non oso rompere con una domanda o con una osservazione.

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Ma è lui che ora, mentre guarda il mare, mi dice: tu ne connais pas Alexandrie en Égypte, tu devrais y aller, un jour… Dinanzi al mare, lo sguardo perso nell’orizzonte, Jabès mi sta dicendo del suo esilio. Ma anche dell’esilio in cui siamo, sempre: un al di qua dell’orizzonte, cioè del dialogo tra il visibile e l’invisibile. L’immagine, che va ad aggiungersi alle tante altre che hanno la presenza del poeta, soprattutto parigine, è ferma nel tempo. C’è un volto, uno sguardo, la linea dell’orizzonte, l’ora che precede il tramonto. C’è una voce, insieme con il rumore del mare.

Sto attraversando, solo, nel mattino di luce, el Zócalo, cioè plaza de la Constitución, a Città del Messico. Ho la testa ancora piena dei colori e delle forme che gridano dai murales di Diego Rivera. Il sole e l’ombra nella piazza fanno un taglio deciso: voci, passaggi frettolosi, animazione di una folla che trascorre in direzioni diverse. Mi fermo un istante per guardare il gesto rapido di un lustrascarpe, mi passa accanto un ragazzo, ha sul palmo della mano, in perfetto equilibrio, una grande guantiera di gelatine coloratissime. È questa composizione di forme e di colori su un vassoio che di colpo è dinanzi a me, per un istante, nella piazza, nella sua luce. Solo quel vassoio nel sole. E il volto bruno del ragazzo che fischietta mentre procede sollevando abilmente i suoi dolcetti sopra le teste dei passanti. 

Sono ancora in Messico, Tampico, la sera di un novembre. Nel clima tropicale stiamo tornando in tre da un caffè dove ci siamo diretti dopo la cena. Cerchiamo di restare insieme sul marciapiede, intrecciando il nostro discorrere che ha scelto come lingua comune il francese, la lingua di nessuno di noi tre. Con me Marc Strand e Michael Krüger. I profili dei due poeti sono nitidi, le loro voci sono nitide. Non c’è un filo nel nostro dire. Il fatto che stiamo usando, tutti e tre, una lingua non materna, che è la lingua dei poeti che amiamo, sta creando una confidenza singolare. Stiamo dicendo infatti non più di libri, ma di comuni amici, svagando tra piccole storie, ridendo… Il marciapiede ci obbliga a staccarci e subito ritrovarci, riprendendo il dire. L’altra comune lingua è come un vento che è venuto a dare un piccolo sollievo nel torrido della sera tropicale. 

Le immagini dell’album trascorrono veloci, so che posso fermarle, o persino disporle secondo una progressione temporale, ma è sempre il luogo a presentarsi come primo segnale. Spesso sono le stanze, le stanze che si allineano, con voci di donne e di uomini, e raccontano il cammino degli anni. Le stanze che ho abitato in epoche diverse, in città diverse.

La stanza di una pensioncina in via Santa Maria Podone, Milano Cordusio: due lettini, separati da un comodino su cui c’è una lampada pallida. Domenico Pazzini, compagno di studi, futuro studioso di patristica, da una parte, io dall’altra: stiamo leggendo versi greci lui, versi latini io (sono sull’Eneide, che devo leggere per l’esame interamente, nei suoi esametri latini). Dalla finestra che dà sull’angolo delle Cinque vie, giungono voci concitate di persone che si inseguono nella notte. 

Qualche volta è un interno, in una città, che si mostra isolandosi da ogni altra immagine. Ecco le pareti e il banco di una trattoria di Firenze, Gastone alle Mossacce, che ha appena riaperto dopo i giorni dell’alluvione: è la trattoria che ho frequentato nelle prime libere uscite dalla caserma “Lupi di Toscana”, dove sono finito per il servizio militare. Ora sono entrato con la tuta mimetica e gli anfibi sporchi di fango.

Da una tavolata mi sento chiamare per nome, sono giovani filologi amici giunti da Pavia per lavorare nella Biblioteca Nazionale, mi invitano al loro tavolo, così mi trovo a raccontare dei primi giorni dell’alluvione, dei viveri che all’alba andavo a prelevare al Magazzino di Rifredi per distribuirli da una jeep nelle strade e nelle piazzette infangate (i primi giorni tutti chiedevano soltanto candele, zucchero e latte). Poi racconto delle giornate che sto trascorrendo a tirar su libri dalla melma nella Biblioteca di via Laura. Quella sera di metà novembre, le voci della trattoria, i volti degli amici: un’immagine di conviviale sospensione nei giorni tristissimi di una Firenze ferita. 

Le mappe della geografia interiore si formano e disfano, si sovrappongono e allontanano le une dalle altre. Il bianco su cui sono disegnate e come sbalzate è il tempo. Una materia inafferrabile, che si lascia accogliere solo dalla lingua. È allora che quel tempo si distende nel ricordo. E quel che più non c’è trova una sua nuova esistenza. Ricordare è impedire che la prigione dell’oblio serri dentro di sé le immagini che ci appartengono, i luoghi che abbiamo abitato e le voci e i volti che sono l’alfabeto con il quale continuiamo a pronunciare la lingua della vita.

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