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Tanti modi di dire no

8 Gennaio 2023

La prima a dire di no, come evidenzia Roberta De Monticelli, facendo seguito a Jeanne Hersch, è stata indubbiamente Eva, senza la quale “nulla avrebbe mai avuto inizio” (Hersch et al., La nascita di Eva). “La storia di Eva – prosegue Roberta De Monticelli – “è un racconto sull’esperienza della libertà come uscita dall’innocenza infantile e prima tappa del divenire persona adulta.” (De Monticelli, La novità di ognuno). Ma il racconto di Adamo ed Eva può leggersi anche come l’indicazione di un nesso tutto da chiarire tra due capacità di cui noi sembriamo disporre, e che sono distinte, in sé e dalla tradizione: la facoltà di libera scelta e di decisione, e quella che possiamo chiamare la facoltà del nuovo. Alla disubbidienza di Eva e alla sua “felice colpa” noi dobbiamo infatti la nostra storia, che trascende l’evoluzione naturale e dà vita all’evoluzione culturale e all’innovazione. Al tempo stesso, nel dire no al divieto divino di mangiare i frutti dell’albero della conoscenza, Eva ha detto di sì al serpente, in qualunque modo si voglia interpretare tale immagine biblica, e soprattutto a sé stessa, il che dice anche molto sull‘intreccio tra sì e no. 

In questo articolo vorrei soffermarmi proprio sull’intreccio tra dire di sì e dire di no, tra affermazione e diniego, tra rispecchiamento e individuazione nello sviluppo infantile e nella crescita fino alla maturità.

Come si impara a dire no? Vediamolo in dettaglio richiamando alla memoria l’ultimo incontro che abbiamo osservato tra una mamma e un bambino/a ancora molto piccolo/a, magari per strada o su un mezzo pubblico. Immaginiamo che si tratti di un bambino/a di circa sei mesi, che ha superato cioè il periodo in cui la sua attenzione è tutta concentrata sui propri movimenti e comincia ad interessarsi all’espressione del viso della madre e delle persone che la circondano, magari anche alla nostra. Il bambino/a ha infatti dentro di sé una sorta di meccanismo innato (di detezione delle contingenze) che lo porta a rilevare le contingenze (temporali, sensoriali e spaziali), cioè i nessi di relazione tra i diversi stimoli interni ed esterni (Gergely and Watson, The Social Biofeedback Theory of Parental Affect-Mirroring). 

Nei primi tre mesi il lattante si interessa soprattutto alle contingenze quasi perfette tra i propri movimenti e le conseguenze che ne derivano, ricavandone una piacevole sensazione di controllo. A partire dal terzo-quarto mese il bambino/a comincia a interessarsi a contingenze elevate ma meno perfette quali appunto quelle tra sé e le mimiche facciali della madre (più correttamente del caregiver). Osservando e analizzando il rapporto con il caregiver il bambino cerca cioè da una parte di intuire in anticipo l’effetto delle proprie azioni e dall’altro di ricostruirlo a posteriori, ciò sempre al fine di superare l’impotenza in cui si trova inizialmente immerso e di raggiungere un certo grado di controllo sull’ambiente esterno. Non dobbiamo infatti dimenticare che il baby è costantemente minacciato dall’assenza, in balìa di travolgenti stimoli interni ed esterni e può contare solo sull’aiuto del caregiver per la propria sopravvivenza fisica e psichica. Proprio per questo sono così importanti per lo sviluppo psichico oltre che fisico, le cure materne, su cui tanto hanno scritto gli psicoanalisti, elaborando ad esempio i concetti di holding (Winnicott, The Theory of the Parent-Infant Relationship) e di contenitore materno (Bion, Learning from Experience). È proprio tale atteggiamento benevolo del caregiver che incoraggia il bambino/a ad esplorare il mondo esterno e le sue correlazioni.

Quando però il bambino/a si trova confrontato con le espressioni del volto e i comportamenti del caregiver le cose sono molto complesse e il bambino/a, per non girare completamente a vuoto, ha bisogno di una sorta di specchio che gli viene offerto proprio dal caregiver. Torniamo alla situazione in cui scorgiamo il bambino/a di sei mesi intento ad osservare l’espressione della madre mentre si trovano per strada o su un mezzo pubblico di trasporto. Tra i due c’è una bella intesa, espressa da sguardi e da sorrisi reciproci. Eppure, se osserviamo bene, ci rendiamo conto che ogni tanto il dialogo senza parole tra i due si interrompe per poi riavviarsi subito dopo. Sono brevi momenti in cui uno dei due, preso da altri stimoli, non è più in contatto con l’altro, esce dal rapporto.

Si può immaginare che in queste sia pur involontarie interruzioni del rapporto, cui fanno seguito altrettante riprese del contatto, vi siano in nuce le premesse per quelli che diventeranno nel corso dello sviluppo dinieghi volontari. Ma continuiamo ad osservare l’interazione intanto ristabilitasi tra madre e bambino/a. A un certo punto un rumore, una frenata brusca, l’avvicinamento indiscreto di una persona interrompono l’armonia e il bambino scoppia a piangere. Il caregiver prenderà allora a consolare il bambino. Come lo fa? Facendo appunto da specchio, affect mirroring (Fonagy, Affect Regulation, Mentalization, and the Development of the Self).

Di fronte allo spavento del bambino/a il caregiver, si rivolgerà al bambino/a con grande attenzione e mimica accentuata (ostensive cues) e riproporrà, come un consumato attore, l’episodio facendo intendere al bambino/a che ha capito non solo quanto è accaduto ma anche le emozioni che l’accaduto ha suscitato in lui/lei. Il caregiver potrà ad esempio mimare con suoni, gesti o espressioni facciali la causa scatenante del pianto (rumore, frenata, avvicinamento etc), quindi la sorpresa e poi la paura, magari anche la rabbia del bambino/a, insomma tutte le emozioni che hanno indotto nel bambino/a il comportamento del pianto.

Tale rispecchiamento genitoriale ha però caratteristiche particolari, (Fonagy and Target, Playing with Reality): deve giungere al momento giusto (contingenza), essere adeguato all’emozione espressa dal bambino/a, esprimere cioè rabbia se il bambino esprime rabbia, paura se il bambino esprime paura etc. (congruenza) e infine esplicitare, tramite accentuazione (marcatura), che si tratta appunto di emozioni del bambino/a, non del caregiver, cui quest’ultimo reagisce in modo leggermente ma significativamente diverso. La marcatura serve dunque a esprimere lo scarto tra bambino/a e caregiver e consente con ciò al bambino/a di comprendere quali sono le proprie emozioni e quali quelle (modulate) del caregiver. Torniamo ancora alla scena di prima. Il caregiver si rivolge prontamente al bambino/a, ne interpreta correttamente l’emozione (spavento, paura, eventualmente rabbia) e la marca, modulandola in modo da farla accettare, elaborare e superare al bambino/a. Il caregiver potrà ad esempio simulare il rumore, esprimere la paura del bambino/a ma poi trasformare il suo pianto in una nenia che lo calma, oppure in una melodia che lo rasserena.

E, se necessario, ripeterà la scena, il breve sketch più volte, intervallandolo con sorrisi, abbracci e carezze, fino a quando il bambino/a avrà superato il malessere e sarà tornato in sintonia con il caregiver. In tal modo, grazie alla proiezione marcata sullo schermo facciale del caregiver, il bambino/a comprenderà quali sono i propri stati mentali e anche come è possibile regolarli e modificarli. Il rispecchiamento (contingente, congruente e marcato) rende dunque sensibile il bambino/a agli indizi dei suoi vissuti interiori. Il rispecchiamento consente inoltre di organizzare questi vissuti trasformandoli da vissuti fisici in vissuti psicologici, mettendo così le premesse per la costruzione di un sé psicologico oltre che fisico. Il rispecchiamento offre poi al bambino/a la possibilità di regolare gli stati emotivi e lo mette in condizione di comunicare i propri vissuti secondo lo stesso meccanismo del rispecchiamento marcato. 

Diverse forme di diniego 

Quali sono le conseguenze di questa fin troppo lunga premessa sul diniego? È facile immaginare che quanto più efficace sarà stato l’apprendimento del rispecchiamento marcato, tanto più efficace sarà anche la capacità del bambino/a che cresce, di percepire, interpretare ed esprimere i propri stati mentali, dunque anche i propri bisogni, differenziandoli da quelli altrui, sviluppando la capacità di dire di sì e di no in modo differenziato, a seconda dei propri stati d’animo e delle circostanze. 

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Proviamo a fare un esperimento con la nostra immaginazione e a fantasticare di ritrovare quella stessa mamma con quello stesso bambino per strada o su un mezzo pubblico a un anno di distanza dal primo incontro. Il bambino/a intorno ai 18 mesi si troverà in quella fase indicata dalla mentalizzazione come modalità teleologica, in cui il bambino/a immagina cioè in modo irrazionale che sia la conseguenza di un avvenimento a giustificarlo, ad esempio che sia il suono o il grido a causare la frenata del mezzo di trasporto anziché il contrario. Nello stesso modo irrazionale il bambino/a chiederà al caregiver di mettere in atto l’avvenimento desiderato attraverso la sua conseguenza, potrà insistere ad esempio con il caregiver perché gridi per far fermare il bus oppure, in modo altrettanto irrazionale, si rifiuterà di obbedire all’invito del caregiver di tenersi stretto a lui per non cadere. In questo caso il diniego del bambino/a è una sorta di rifiuto della logica della realtà, non ancora a disposizione del bambino/a, in nome della propria personale, privata logica irrazionale.

Questo dire di no capriccioso, ostinato (in tedesco si direbbe trotzig) persiste ben oltre i due anni in ognuno di noi e si evidenzia in più di un’occasione in atteggiamenti di ostinazione irrazionale e/o di confusione tra conseguenza e causa anche nel rapporto paziente terapeuta. Quando ad esempio il paziente vede il terapeuta dopo la seduta con un avvenente signora/signore può immaginare che quell’incontro, che presuppone galante, sia stata la causa dell’atteggiamento poco empatico che il terapeuta avrebbe avuto nei suoi confronti nella seduta precedente all’incontro. Naturalmente può valere anche il contrario per cui a volte il terapeuta si ostina a pensare che il silenzio del paziente derivi dal rifiuto di quest’ultimo di affrontare un conflitto che si trova solo nella testa del terapeuta ma non nell’animo del paziente. 

Sfidando tutte le leggi della probabilità, immaginiamo di incontrare ancora quella stessa madre con il suo bambino/a quando quest’ultimo ha due anni e mezzo e si trova nel bel mezzo della fase dell’equivalenza (o isomorfismo pensiero-realtà). In questo caso il bambino/a è assolutamente convinto che un suo pensiero, un suo sentimento, una sua intenzione siano realtà e come tali vengano trattati anche da chi gli sta vicino. Il bambino/a può ad esempio aver paura che sotto il sedile del bus su cui è seduto vi sia un animale pericoloso. Di fronte a tale paura le rassicurazioni razionali del caregiver a nulla servono. Sono anzi solo un diniego razionale di fronte a una paura reale che a sua volta nega la realtà. Solo prendendo sul serio la paura del bambino/a e al tempo stesso modulandola attraverso il rispecchiamento, il caregiver potrà riprendere il rapporto con il bambino/a e tranquillizzarlo. Anche questa modalità di prementalizzazione persiste in età adulta ed è la premessa per tutte quelle situazioni in cui proiettiamo sugli altri emozioni e sentimenti che sono solo nostri. È il classico caso dell’identificazione proiettiva in cui il paziente proietta sul terapeuta i propri sentimenti negativi, negando al tempo stesso quelli reali del terapeuta. Nella modalità dell’equivalenza si assiste dunque alla negazione per lo più inconsapevole di una realtà obiettiva sostituita da una realtà soggettiva, interiore, ritenuta l’unica possibile. 

Se dovessimo ancora incontrare quel caregiver con il bambino/a pochi mesi dopo, è possibile che li vedremmo impegnati a discutere di cosa succederebbe se. È la modalità del “come se”, nella quale il bambino/a fa finta che, ad es., ci sia un animale sotto il sedile del bus su cui è seduto e chiede magari al caregiver di far finta di cacciarlo. Se tuttavia il caregiver diventa troppo realistico nella sua modalità di caccia e il suo rispecchiamento è troppo poco marcato, il bambino/a può ricadere nelle paure molto reali dell’equivalenza e chiedere di interrompere il gioco. La modalità del “come se” consente di sospendere le paure, più in generale le emozioni, rendendo così possibile un atteggiamento meno angosciato verso le stesse. Anche questa modalità, come le altre, rimane in noi anche quando siamo diventati già adulti e viene impiegata quando le emozioni con cui ci troviamo confrontati minacciano di travolgerci, per cui preferiamo fare come se le potessimo padroneggiare razionalizzandole e parlandone come se le avessimo già da tempo elaborate. Nel rapporto paziente terapeuta questa modalità è frequente quando il paziente vuole dimostrare al terapeuta una capacità di controllo delle emozioni che in realtà non possiede, fa riferimento a complicati concetti astratti, sfoggia un gergo psicoterapeutico simile a quello del terapeuta. Il paziente mette cioè in atto, per lo più inconsciamente, un tentativo di pseudo-mentalizzazione per ingannare il terapeuta, che, cedendo talvolta alla stessa modalità del come se, cade in trappola. Così facendo, entrambi negano le loro vere emozioni e mettono inconsciamente in scena la rappresentazione quasi teatrale di quanto illuminato e profondo vorrebbero fosse il loro rapporto terapeutico. 

Solo a partire dai quattro anni il bambino/a acquista la capacità di una vera mentalizzazione, la capacità di “distinguere cioè l’apparenza dalla realtà e di attribuire stati mentali diversi sulla base del punto di vista di ogni individuo” (Debbanè and Oasi, Mentalizzazione). “La funzione riflessiva offre al bambino una nuova configurazione relazionale tra la realtà interna e la realtà esterna, che adesso possono essere considerate legate, ma distinte, non equivalenti ma non scisse” (ivi).

A questo punto comincia a manifestarsi anche una forma di diniego più matura, frutto di riflessione, sempre meno conseguenza di un agito e sempre più espressione di una scelta. Eppure questo diniego riassume, comprende e sviluppa tutti quelli più immaturi precedenti: la fugace interruzione del contatto con il caregiver dei primi mesi, il diniego ostinato ed irrazionale della modalità teleologica, quello angosciato dell’equivalenza pensiero/sentimento=realtà, quello insidioso e razionalizzante del come se. Si potrebbe sostenere che anche il diniego, come l’affermazione e l’individuazione di sé stessi, si differenzia progressivamente e diviene maturo con lo sviluppo. È d’altro canto quanto si osserva anche nel corso del processo terapeutico in cui il diniego si trasforma e si sviluppa assumendo di volta in volta forme diverse, da interruzione temporanea del rapporto a irrazionale ostinazione, da identificazione proiettiva a rassicurante quanto sterile razionalizzazione. Fino a che arriva il momento in cui il/la paziente decide di abbandonare quanto fino a poco prima sembrava essere il paradiso terrestre dicendo no al/alla terapeuta e sì a sé stesso/stessa. 

Riferimenti bibliografici 

Bion, W. R. (1991). Learning from experience (3. print). Karnac.
De Monticelli, R. (2009). La novità di ognuno: persona e libertà (1. ed). Garzanti.
Debbanè, M., & Oasi, O. (2019). Mentalizzazione: dalla teoria alla pratica clinica (2. ed). Edra.
Fonagy, P. (Ed.). (2002). Affect regulation, mentalization, and the development of the self. Other Press.
Fonagy, P., & Target, M. (1996). Playing with reality: I. Theory of mind and the normal development of psychic reality. The International Journal of Psycho-Analysis, 77 (Pt 2), 217–233.
Gergely, G., & Watson, J. S. (1996). The social biofeedback theory of parental affect-mirroring: the development of emotional self-awareness and self-control in infancy. The International Journal of Psycho-Analysis, 77 (Pt 6), 1181–1212.
Hersch, J., Starobinski, J., De Monticelli, R., & Leoni, F. (2000). La nascita di Eva: saggi e racconti. Interlinea edizioni.
Winnicott, D. W. (1960). The theory of the parent-infant relationship. The International Journal of Psycho-Analysis, 41, 585–595.

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