Luciano Erba. Un poeta perfetto

14 Ottobre 2022

Giovanni Raboni scriveva a proposito di Luciano Erba: «Verrebbe voglia di parafrasare, per lui, pensando agli altri poeti della sua generazione, quello che Gide diceva di Chopin: “Ce ne saranno di più grandi, ma nessuno è più perfetto”».

Nato a Milano nel 1922, la sua generazione di appartenenza è quella di Andrea Zanzotto, Giovanni Giudici, Pier Paolo Pasolini, autentici fari, ancora oggi, della nostra poesia. Eppure fin dagli esordi, Erba, pur a fianco di queste personalità ‘ingombranti’, è riuscito a ritagliarsi un angolo espressivo tutto suo, con contorni precisi, fino a diventare una delle voci più importanti e originali della poesia italiana del secondo dopoguerra e i primi anni del Duemila, come dimostra anche il recente volume Tutte le poesie, a cura di Stefano Prandi, con prefazione di Maurizio Cucchi, edito da Mondadori nella bella collana Baobab, che raccoglie l’intera produzione poetica del maestro milanese, in occasione del centenario della nascita.

Pur legatissimo alla sua Milano, dove è nato e vissuto tutta la vita, Erba è stato in realtà uomo dalla cultura internazionale e cosmopolita. Durante la guerra, disertando la chiamata dei fascisti di Salò, trova riparo in Svizzera, tra i cantoni di lingua tedesca e francese, poi internato in campi di lavoro. A Losanna vince una borsa di studio “di soccorso” per i giovani studenti e entra all’università. A fine conflitto, si trasferisce a Friburgo dove insegna Gianfranco Contini, che sarà tra i primi lettori delle sue poesie. Dopo il rientro in Italia lavora come giornalista, si laurea alla Cattolica e poi riparte in direzione Parigi, traducendo Eugenio Montale in francese. Lunga è stata la sua carriera accademica alla Cattolica di Milano come professore di Letteratura francese, traduttore e critico letterario.

Come per i suoi coetanei – la cosiddetta “quarta generazione” – Erba ha dovuto confrontarsi con le ipoteche dell’ermetismo, quindi con il rischio di lasciarsi risucchiare da un lato dalle tentazioni di epigonismo letterario e dall’altro dalle smanie di rottura antitradizionalistica tipiche delle neoavanguardie. Ma per Erba c’è un elemento in più da considerare: il dato topografico.

La sua Milano lo iscrive, a buon diritto, nell’alveo della linea poetica che ha proliferato nel secondo Novecento battezzata dalla critica come ‘linea lombarda’. Questo è il titolo dell’antologia pubblicata nel 1952 da Luciano Anceschi, nella quale la critica all’ermetismo in dissoluzione si traduce nella ricerca di una lingua poetica contrapposta a quella metafisica e astrale, di cui si nutriva la simbologia ermetica più spinta, ma lontana anche dall’impronta neorealista e dalla retorica dell’impegno. Tra i sei poeti presentati nell’antologia (insieme, tra gli altri, a Vittorio Sereni, Nelo Risi e Giorgio Orelli) c’è anche Luciano Erba che aveva pubblicato l’anno prima la plaquette d’esordio Linea K.

Alla cifra stilistico-poetica tracciata dalla “linea lombarda” (che non fu mai né una corrente né un manifesto, è bene precisarlo) l’autore milanese rimarrà sempre fedele soprattutto per la nitidezza, l’incisività del dettato, l’implosione dei rigurgiti patetici entro gli orizzonti dell’oggettività e la garbata (auto)ironia. Tuttavia Erba elabora negli anni un segno personalissimo, anche sotto l’influenza della poesia francese, in particolare di Apollinaire, del quale è stato un importante traduttore. Da questa combinazione di stili e ricerche viene alla luce il tratto più significativo della sua poesia: la visività.

Erba è infatti un poeta potentemente visivo, non nel senso sperimentale e avanguardista del termine, piuttosto per la densità di osservazione del suo sguardo, per la capacità di cogliere, traducendolo in immagini, il reale nei suoi dettagli, anche più infimi e sottili («le cose senza prestigio/ gli oggetti senza design»), fino a mettere in dubbio (citando al rovescio Montale) che la realtà sia «quella che si vede».

Erba sembra avere le movenze di un pittore, con la sua arte tenace e minima dove le cose prendono tutto il loro rilievo senza alcuna spiegazione, ma per il solo fatto di essere osservate e nominate. Enrico Testa ha parlato, giustamente, «d’immagini dall’evidenza visiva quasi pungente». Eccone qualche esempio: «Le piante color delle viole / fiorite in pentole smaltate di blu»; le scarpe «lucide come castagne d’india»; il «greve odore» di «tram giallo-neri».

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Il poeta registra la realtà con un gusto spiccatamente pittorico, tutto proteso alla riproposizione di dettagli, situazioni private e prospettive, che incantano il lettore nella loro evidenza descrittiva (si legga in particolare il testo Altrove Padano). A questo proposito Maurizio Cucchi, nella prefazione al volume, parla di: «Una grazia impeccabile nel proprio porsi, nel costante incontro con elementi di una realtà in apparenza anche minima pur nella sua concretezza, ma sempre tradotta dal poeta in immagini di una lieve trasparenza, in grado di sottrarre decisamente l’occasione alla sua normale opacità».

L’acribia nomenclatoria nel descrivere le cose e nell’enumerarle, come accade per i capi d’abbigliamento (La grande Jeanne, uno dei suoi testi poetici più originali), oltre al recupero di ascendenze crepuscolari ed espressionistiche, sottintende un attaccamento salvifico alle cose quotidiane, come se il poeta fosse colto nell’atto di esorcizzare, attraverso il rito della vocatio, l’insignificanza del mondo. È proprio la potenza delle immagini evocate, che improvvisamente guizzano dal torpore della scena poetica, a riempire i versi sino a colmare la difficoltà del poeta di dire il mondo in una cornice di senso.

La poesia di Erba si muove continuamente lungo un crinale tutto umano, in bilico tra dramma e ironia, tra oggettività e inattingibilità metafisica. È la dimensione della memoria e degli affetti domestici a dare un valore di verità relativa ma autentica, illuminando un ‘varco’ possibile di fronte all’insensatezza dell’esistenza umana (in questo senso l’autore sembra portare alle estreme conseguenze il discorso montaliano). 

In un’intervista rilasciata alla fine degli anni Novanta, alla domanda se secondo lui nella vita prevalessero i dubbi o le certezze, Erba rispondeva: «I dubbi sono sempre con noi: in questo mi ritrovo nelle pagine di sant’Agostino sulla fede e sul dubbio. Ma per “tirare avanti” abbiamo bisogno di certezze. Certezze a volte relative, valide cioè in un certo momento della nostra vita, e poi magari messe in discussione. Quel che non è accettabile, invece, è il “tentennare”: lo considero un segno di opportunismo, di furberia».

La sua poesia è colma di interrogazioni, di domande, rifugge da una pronuncia assertiva e oracolare, fondata su un valore assoluto di verità, preferendo una parola che invece comunica, ricerca e interroga la costitutiva contraddittorietà dell’esistere con il suo doppio statuto di concretezza e irrealtà: «Ritorna a volte il sogno in cui mi avviene/ di manovrare un tram senza rotaie/ tra campi di patate e fichi verdi/ nel coltivato le ruote non sprofondano/ schivo spaventapasseri e capanni/ vado incontro a settembre, verso ottobre/ i passeggeri sono i miei defunti». (Il tranviere metafisico) Come osserva Stefano Prandi nell’introduzione: «Erba sembra mirare soprattutto a un sottile gioco di elusione dell’orizzonte d’attesa del lettore, negando repentinamente una misura canonica dopo averne preparata l’aspettativa».

Poeta di estrema parsimonia, Erba ha pubblicato in vita, rispetto ai suoi coetanei, poche raccolte organiche (Il male minoreIl nastro di MoebiusL’ipotesi circense, L’ippopotamo, per citarne alcune, con le quali ha vinto i maggiori premi) spesso precedute da smilze plaquettes (una misura a lui congeniale) e intervallate da lunghi silenzi.

In fondo questa scelta è stata in linea con la sua idea di poesia, nella quale predomina il segno della sottrazione, e più in generale con la visione che egli aveva della figura di poeta: appartato, lontano da qualsivoglia retorica di impegno civile o di vaticinatore di chissà quali verità. Una poesia umanissima e irrequieta, la sua, che ha saputo mostrarci con lucidità la profondità della superficie in cui tutti siamo immersi, quel cruciale «po’ di niente» come avrebbe detto lo stesso Erba.

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