Un dossier / anniottanta

5 Aprile 2011

Definire gli anni ottanta? Proviamoci: il decennio finale del secolo breve; l’epoca dell’edonismo, della politica-spettacolo, dell’ondata neoliberista, dei fasti di Wall Street, del mantra del successo. E ancora: l’età dei sentimenti e del privato, della citazione e dei media, della fine dell’ideologia; il tempo del glamour e dell’ottimismo. È un mondo che si autocelebra nell’effervescenza lucida di makeup della neotelevisione, nei muscoli tonici di una seduta di aerobica, nei riti del divertimento collettivo – la discoteca, la vacanza esotica –, nel look che rimescola tutti i vecchi stili e inventa nuove identità urbane, nell’amore per il superfluo, nella febbrile curiosità per le nuove meraviglie tecnologiche, nel pulsare degli schermi dei personal computer. Sullo sfondo, il tramonto delle “grandi narrazioni” con le quali la modernità aveva costruito la sua marcia in avanti: viene ora meno la fiducia nel percorso progressivo della storia, nell’effetto emancipatore del nuovo, in una palingenesi della società, in uno spazio da conquistare (o un’origine da ritrovare) “oltre” i linguaggi e le rappresentazioni dominanti, oltre i limiti dell’economia capitalista. L’epoca postmoderna, in un parola, in cui la sfera della comunicazione ingloba quella un tempo egemone della produzione, e nella quale il lavoro, la sfera politica, gli scambi simbolici, la produzione artistica, il linguaggio e forse lo stesso inconscio sono sottoposti a una radicale decostruzione e riconfigurazione.

           

Gli anni ottanta segnano nel mondo occidentale il passaggio a una condizione postuma – la nostra – in cui al tramonto delle utopie politiche, alla fine più o meno traumatica dei diversi esperimenti socialisti, corrisponde l’affermarsi prepotente di un “eterno presente” consumista che sarebbe presto diventato l'orizzonte sociale ed economico del pianeta globalizzato. La caduta del “paradigma evolutivo” modernista, del mito del nuovo, la crisi delle narrazioni utopiche che promettevano di ridisegnare il corso della storia e la stessa soggettività, lasciano dietro di sé un terreno ingombro di macerie, di “mezzi senza fine”, in cui agiscono prepotenti le spinte alla mercificazione della cultura e alla privatizzazione della società: è il regno del best seller, dell’espansione dell’arte-come-merce. A partire da questi anni l’industria culturale si dimostrerà capace di superare la vecchia contrapposizione tra avanguardia e kitsch su cui la cultura novecentesca aveva a lungo confidato: il remake, il sequel, il pastiche, diventano strategie comuni all’arte, al cinema, alla letteratura, alla musica, nel segno di una mescolanza tra high e low, di un remix che avrà profonde ripercussioni tanto sui linguaggi “colti” che sull'immaginario collettivo.

 

D’altro canto, se la crisi della vecchia economia industriale produce in Occidente disoccupazione, sradicamento, riconversione traumatica, essa fa emergere anche un nuovo ceto urbano, nuove aspettative, una ricchezza costantemente reinvestita nel benessere individuale, nella soddisfazione di sempre più complessi bisogni simbolici, cui corrisponde lo sviluppo frenetico di un'economia di consumi immateriali, basata sulla continua proposizione di nuovi gadget, ormai fondamento della struttura industriale di interi continenti: è il momento d’oro della reaganomics e degli yuppies, gli “young urban professionals” che con la loro ossessione per gli status symbol finiscono per incarnare in senso caricaturale gli eccessi di un'intera epoca. La gentrification dei centri urbani e delle vecchie zone industriali, da New York a Londra, da Parigi a Milano, è il segno più evidente di una trasformazione che muta irreversibilmente, insieme all’espansione dell’economia terziaria e delle sue strutture, il volto delle città occidentali.

 

In questo nuovo scenario le vecchie forme di mediazione politica, sindacale, culturale appaiano improvvisamente invecchiate, inutilizzabili: in Italia, i partiti di massa, DC e PCI, imboccano nel decennio la curva discendente che li porterà di lì a poco a dissolversi sotto l’urto del crollo del Muro di Berlino e della stagione di “mani pulite”; la marcia dei 40.000 dell'autunno 1980 segna simbolicamente la fine del ciclo di battaglie sindacali apertosi negli anni sessanta, mentre la stagione del craxismo e del pentapartito contribuisce a dissolvere i tradizionali legami fra consenso e appartenenza sociale; lo scenario politico italiano inizia a essere dominato da una vasta zona grigia in cui si intrecciano interesse privato,  inefficienza pubblica e malaffare, come la scoperta della loggia P2 farà capire, mentre i media, e la televisione in particolare, diventano forze decisive nell’orientare il consenso.

 

Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna Ronald Reagan e Margaret Thatcher mettono fine all'egemonia politica progressista che durava da due decenni e promuovono politiche neoliberiste incentrate sulla riduzione delle tasse per le classi più abbienti, lo smantellamento del welfare, e soprattutto la deregulation, che saranno fatte proprie da tutti i paesi industrializzati e su cui crescerà l’economia finanziaria globalizzata. L’incipiente fine della guerra fredda lascia emergere nel frattempo instabilità politiche e conflitti irrisolti – dalla Polonia al Nicaragua, dal Sudafrica all'Argentina e all’Afghanistan  – e insieme la necessità di ridefinire le prerogative dell’individuo, il suo spazio di libertà e autodeterminazione secondo un ottimistico "paradigma tollerante" che intende superare le logiche di esclusione basate sulla differenza di genere e la preferenza sessuale. In questi stessi anni l’ingegneria genetica e la chirurgia plastica iniziano la loro marcia verso una radicale ridefinizione dei limiti della biologia e del corpo umano, nasce MTV, la prima rete televisiva dedicata in esclusiva ai videoclip musical, e i nuovi videogiochi conoscono un rapidissimo successo, fino a che i disastri di Chernobyl e di Bhopal non mettono a nudo l'impotenza della tecnologia di fronte alle proprie contraddizioni.

           

Una cosa è chiara: gli anni ottanta non sono mai finiti. Da qualunque punto di vista li si osservi, essi appaiono più che mai l’antefatto, l’incubatore del nostro presente, l’epoca in cui sono apparsi per la prima volta idee, consuetudini, oggetti e comportamenti con i quali abbiamo ancora a che fare ogni giorno, e in cui sono stati per la prima volta sperimentati con successo gli strumenti di persuasione e seduzione che danno forma alla nostra esperienza politica, culturale, sociale. Anche per questo, per trovare risposte a problemi sempre più urgenti e per immaginare un futuro diverso, oggi è più che mai necessario tornare a occuparsene.

 

Se continuiamo a tenere vivo questo spazio è grazie a te. Anche un solo euro per noi significa molto. Torna presto a leggerci e SOSTIENI DOPPIOZERO