Barocco è il mondo
L’estensore della voce “barocco” nel settecentesco Dictionnaire de Trévoux, limitando il concetto a una pittura d’estro, fuor di proporzioni, eseguita insomma secondo il capriccio dell’artista, non avrebbe saputo prefigurare il successo, la diffusione che quella nozione e quanto comprendeva si sarebbe guadagnata nel tempo a venire, ponendosi infine, nelle parole di Eugenio D’Ors, come una categoria ideale opposta a quelle del classicismo. Tanto più che quel dizionario era stato compilato sotto la direzione dei Gesuiti, l’ordine che più di ogni altro, nel corso del Seicento, aveva svolto un’attività di missione tale da spingersi in territori estremi, che nessuno aveva ancora pensato di evangelizzare, di fatto estendendo, insieme al verbo cristiano, anche una prospettiva culturale e un modello che diramavano dal centro stesso della cattolicità. Così, quell’ambizione all’universalità che era nella stessa dottrina professata e nelle funzioni della societas di Ignazio di Loyola, si concretizzava in un cosmopolitismo che investì Roma, la Roma di Paolo V Borghese e poi, dopo la breve parentesi di Gregorio XV, soprattutto di Urbano VIII (il Maffeo Barberini ritratto da Caravaggio) e di Innocenzo X.
Furono gli anni in cui Bernini e Borromini ridisegnarono il volto barocco di una città, i cui fasti non erano certo destinati a svigorirsi, trasformandosi piuttosto in efficacissimi vettori pronti a tradursi non solo in rappresentazioni pittoriche ma anche in arditi progetti scultorei e architettonici. Dalla nostra prospettiva risulta un po’ paradossale la miopia del Dictionnaire, decisamente in contraddizione con l’apporto che i Gesuiti fornivano proprio alla costruzione di quel «barocco globale» che oggi intitola la mostra presso le Scuderie del Quirinale, allestita da Francesca Cappelletti e da Francesco Freddolini, curatori anche del catalogo pubblicato da Electa che non poche energie deve aver assorbito in termini di cura editoriale. Accanto a quella dedicata a Caravaggio a Palazzo Barberini e all’altra, ospitata dai Musei Capitolini e centrata su I Farnese nella Roma del Cinquecento, questa mostra sul Barocco globale completa un trittico di iniziative volte non solo a celebrare l’urbs aeterna nell’anno giubilare, ma a riproporne un’immagine calata nella sua stessa storicità, in quell’arco di decenni che la videro nuovamente protagonista sulla scena artistica e politica.
Del concetto di “barocco”, come in effetti si propagò nei suoi risultati a partire dal terzo decennio del XVII secolo grazie a una generazione di pittori, scultori e architetti attivi a Roma, non era scontato che facesse parte anche una visione davvero ampia, universale, sebbene la città perseguisse sotto i nuovi pontefici una dimensione decisamente internazionale. Le incrostazioni che si sarebbero create sull’arte barocca, letta e interpretata in un’accezione soprattutto negativa come quella offerta già un secolo dopo dal Dictionnaire de Trévoux, nascosero quella serie di rapporti interni tra aspirazioni politiche ed elaborazioni artistiche, che segnarono nel profondo i primi pontificati del Seicento e gettarono le basi di uno sguardo inevitabilmente interculturale. Tale prospettiva contribuì da un lato all’osservazione di quanto proveniva da colonie e regioni lontanissime, fino ad allora relegate per lo più nei pregiudizi dell’immaginario; dall’altro ad assimilare in una potente sinergia le suggestioni, nonché le sorprese, che da ogni continente allora conosciuto potevano contribuire ad arricchire le inquiete tradizioni dell’Europa.

Così quella generazione di artisti (si pensi, oltre ai già ricordati Bernini e Borromini, a Pietro da Cortona, ad Andrea Pozzo) elaborava un gusto incline a un certo sincretismo, il cui primo effetto, proprio in virtù del clima che si era creato, fu quello di registrare un’ampia condivisione di pubblico. Come a dire che le direzioni della politica, volta a superare gli incastri storici della penisola e dei suoi immediati dintorni per conquistare una scena decisamente più vasta, nuova e interessante, inserendosi quindi nei recenti contesti coloniali e non solo, svolsero una parte tutt’altro che secondaria nell’affermarsi di un progetto culturale dal respiro autenticamente globale. Non a caso l’esposizione si apre con un prestito eccezionale dalla Basilica di Santa Maria Maggiore: il busto marmoreo dell’ambasciatore del Congo, Antonio Manuel Ne Vunda, opera policroma di uno scultore come Francesco Caporale, ancora tutto da ascrivere al pantheon dei grandi artisti seicenteschi. L’ambasciatore, stremato da un lunghissimo quanto faticoso viaggio, sarebbe giunto alla corte di Paolo V per morire, nella notte dell’epifania del 1608, assistito dallo stesso pontefice, la cui presenza al capezzale del diplomatico testimonia al tempo stesso di un coinvolgimento e di una necessità, a seguito dei quali Ne Vunda sarebbe stato ricordato, celebrato con un’opera di indiscusso valore, divenendo il primo cittadino di un regno così distante a ricevere onori di sepoltura all’interno di una basilica papale. Il monumento funebre, infatti, nella sua sistemazione definitiva, venne inaugurato nel 1629, in occasione di una successiva visita di un nuovo ambasciatore congolese, venuto a prestare il giuramento di obbedienza a Urbano VIII.
La mostra fa quindi luce su una decisa internazionalizzazione della corte pontificia e della città nelle sue espressioni più alte, inserendo così Roma tra gli altri centri italiani ed europei come Firenze, Genova, Venezia e Amsterdam, i cui contatti fuor di confine sono già stati ampiamente studiati e dibattuti in sede storiografica. Mancava ancora, per la curia romana e per l’ambiente che seppe creare, l’occasione di aprire ulteriori filoni d’indagine, che le opere esposte affermano invece con un certo vigore. Mentre si costruiva, geograficamente, una diversa idea del mondo che avrebbe dato avvio alla modernità che ancora ci avvolge, l’orizzonte transculturale su cui si affacciavano i pontefici del primo Seicento comprendeva non solo la tessitura di diverse relazioni sul piano diplomatico, ma anche l’elaborazione di un modello intrinsecamente cosmopolita. Il barocco fu anche e soprattutto questo: nelle poetiche del meraviglioso, in ciò che in seguito sarebbe stato giudicato all’insegna della stravaganza e della bizzarria, l’offerta della diversità culturale poteva trovare un sostrato di contatto, di accoglienza e di assimilazione quanto mai fertile e proficuo.
Se questo è il senso autentico della mostra, ciò che l’osservatore può facilmente intuire è l’insieme dei nodi, dei legami, dei nessi che quanto esposto stabilisce con una certa naturalezza su un piano che davvero richiede uno sguardo molto ampio. Già lo stesso busto funerario dell’ambasciatore congolese sposta il nostro pensiero e il nostro immaginario in contesti a quel tempo inusuali e inediti, ma l’intero percorso costituisce, nel suo insieme, una rete di soluzioni iconiche che destano la curiosità e la sorpresa, nei loro aspetti esotici, e insieme suggeriscono una certa compromissione con l’abito culturale europeo.
In questa «Roma globale» finalmente rinvenuta, si pensi soprattutto a quei veri e propri cortocircuiti spaziotemporali in grado di connettere situazioni già sperimentate nell’antico a mode, gusti e curiosità del presente; per esempio, lungo il corso della storia romana, le vicissitudini che portarono alla scoperta e all’assimilazione della civiltà egizia, per cui Pietro da Cortona non esitava a dipingere, nel 1637, l’ampia tela oggi conservata a Lione, in cui si ritrae Cesare nell’atto di restituire a Cleopatra il trono usurpatole dalla sorella. Se già nella visione urbanistica di Sisto V gli obelischi erano divenuti luoghi di una nuova mappatura della città e punti di riferimento di un sistema viario, il cui impianto era comunque costruito per riaffermare i valori della cristianità, il Seicento vede arricchirsi gli slarghi di fontane monumentali, come quella ideata da Bernini per piazza Navona. La celeberrima fontana dei Quattro Fiumi esalta la globalità e il cosmopolitismo romani che si affermano con decisione sul concludersi della Guerra dei Trent’anni, celebrando insieme l’universalità di una dottrina e il suo centro d’irradiazione. I quattro fiumi simboleggiano i quattro continenti allora conosciuti, posizionando così Roma al centro esatto di una vasta visione allegorica; ma è significativo che il Rio della Plata, destinato a rappresentare le Americhe, rispondesse nella versione definitiva alle fattezze di un uomo africano, rompendo quindi con tutta un’iconografia ormai affermata per contestualizzare il nuovo assetto demografico del Nuovo Mondo in seguito alle deportazioni schiaviste.

Lo splendido Ritratto di uomo africano (1641) di Albert Eckchout, ora a Copenaghen, appartiene a una serie di otto ritratti etnografici, dipinti per il governatore della nuova colonia olandese in Brasile. La circostanza, che porrebbe la tela in assoluta coerenza rispetto all’operazione di Bernini, è in apparenza elusa dalla rappresentazione del paesaggio, più affine a quello del continente d’origine della figura ritratta. La palma da dattero e la zanna d’elefante ci riconducono nell’immediato all’Africa, e in particolare ai territori della Guinea e dell’Angola, proprio le regioni da cui si sviluppò maggiormente un’inesausta tratta. Il Ritratto, concepito come immagine quasi monumentale di un uomo la cui posizione e le cui armi denunciano una posizione elevata, quale poteva essere quella di un mercante di schiavi, ci parla quindi dello stesso triste fenomeno da un punto di osservazione che coincide con quello di partenza, laddove gli altri dipinti della serie, non presenti in mostra, sono ambientati nel punto di arrivo, al di là dell’Atlantico.
Inserita quindi in un crocevia di traffici, rotte, commerci e culture sempre più spostati verso i margini, dalle Americhe all’estremo Oriente, come dimostrano i coevi sviluppi della cartografia, la Roma che aspira a una più vasta universalità rielabora nell’arte un nuovo e ben più nutrito immaginario, di cui si fa deposito, senza rinunciare a inglobare i dati reali, gli attributi concreti che potevano raggiungerla e manifestarsi. Uno di questi dati riguarda senz’altro l’abbigliamento, per cui i missionari gesuiti che si erano spinti oltre i confini dell’impero cinese potevano essere rappresentati in abiti locali, come nel Ritratto di Nicolas Trigault riconducibile alla bottega di Rubens. Nello stesso tempo la capitale dei papi esportava, sempre attraverso l’attività delle missioni, un amplissimo catalogo di immagini che venivano a loro volta assimilate e ricreate, come attestano, in mostra, il Martirio di Santa Cecilia realizzato nel 1610 per la corte Maghul, e ancora la Madonna con bambino di ignoto pittore cinese, a riprova della grande circolazione che le immagini mariane cominciavano ad avere in quelle longitudini.
Non sempre lo scambio culturale era così scontato, né pacifico. Accanto a temi sacri ben noti e ricorrenti, come le adorazioni dei Magi, che nella presenza dello “scuro” Balthasar apparivano come delle vere e proprie anticipazioni dello spirito globale seicentesco, non mancarono nuove e drammatiche iscrizioni all’albo dei martiriologi, come nella tela di Schönfeld custodita a Napoli. I tre martiri gesuiti di Nagasaki racconta l’opposizione che in terra nipponica incontrarono le attività cristiane e la lunga trafila di esecuzioni che si sarebbe esaurita solo a partire dal quarto decennio del secolo, ma era il prezzo previsto per l’intensa campagna di evangelizzazione che avrebbe riportato Roma al centro di un mondo ben più grande rispetto a quello premoderno; la cui espansione, in termini di flora e fauna, avrebbe inevitabilmente arricchito di nuove specie erbari, inventari botanici, cataloghi di animali esotici, come il bellissimo “cardinale rosso”, il cui piumaggio era stato già oggetto dell’attenzione di Ulisse Aldovrandi.
Mentre una diversa natura conquistava le scene della pittura, l’intensificata attività diplomatica già testimoniata dal busto di Ne Vunda contribuì non poco al costituirsi di interessanti ibridazioni sul piano dei tessuti, come nel ritratto di Maria Mancini di Voet e Fioravanti, che la colsero nei panni di Armida. Uno dei dipinti cardine della mostra è il ritrovato ritratto dell’ambasciatore di Persia, ‘Ali-qoli Beg, che Lavinia Fontana aveva ultimato già nel 1609 e del quale si erano per lungo tempo perse le tracce, ma è notevole anche il Ritratto di guerriero orientale di Pier Francesco Mola, che risale a mezzo secolo dopo. La particolarità e la ricchezza degli indumenti e delle stoffe segnavano, da quel momento, una visione globale destinata a comprendere perfino i paramenti liturgici, realizzati, come quelli esposti, con tessiture a base di piume; ma il trionfo di questa Roma, crocevia assodato di culture, è nella testimonianza di un pittore come van Dyck, che ritraendo l’inglese Robert Shirley e sua moglie, la circassa Teresia Sampsonia, ci restituisce ancora oggi il senso più profondo di una transculturalità a cui la città eterna aveva ormai smesso di ambire, potendola incarnare in ogni sua espressione.
