Brian Dillon e l’arte del saggio perfetto

2 Marzo 2023

L’inclusione del saggio nel dominio della letteratura propriamente intesa è una delle acquisizioni più solide della cultura contemporanea. Ad accompagnare il processo, una nutrita serie di riflessioni sull’argomento: la bibliografia critica sulla saggistica ha ormai assunto dimensioni davvero ragguardevoli. Per quanto riguarda il panorama nazionale, il riferimento principale è senza dubbio La forma del saggio di Alfonso Berardinelli (Marsilio 2002), da leggersi in abbinamento con Genealogie. Saggi e interpreti del Novecento di Angela Borghesi (Quodlibet 2011). 

Il Saggiatore dedica ora al genere saggistico un agile e brillante volumetto, Scrivere la realtà. L’arte del saggio perfetto di Brian Dillon (trad. di Andrea Sirotti, pp. 206), autorevole firma del «Times Literary Supplement» e della «London Review of Books» e editor di «Cabinet Magazine». Il titolo originale suona più referenziale e meno ambizioso: semplicemente, Essayism (2017). L’impressione è tuttavia che entrambe le scelte privilegino la prima parte del libro, mentre la più caratteristica – il che non significa necessariamente la meglio riuscita – è la seconda. Ma andiamo con ordine.

Il libro è suddiviso in 26 capitoli non numerati, ciascuno con un titolo in forma di complemento di argomento: Sul saggismoSullo stileSul gustoSugli elenchiSulla coerenza, e così via. I primi offrono una felice sintesi dei caratteri generali del genere saggistico, mettendone in rilievo la felice contraddittorietà. Il saggio mescola esattezza e dispersione; mira a cogliere qualcosa di essenziale, ma è programmaticamente incompleto e provvisorio; misura e divaga; è insieme acuminato e vulnerabile. Il termine inglese essay deriva dal francese: essaiessayer, che a loro volta traggono origine (come l’italiano «saggio») dal latino exagium, bilancia. Si tratta del medesimo etimo di examen, termine che indica la lancetta o l’ago della bilancia. L’idea è quindi l’atto di «pesare», «vagliare», «stimare»: dunque, una ricerca di precisione. Ma poiché la preposizione ex può avere valore sia intensivo (come in «scalciare» rispetto a «calciare»), sia spaziale (come in «espirare» o «espellere»), un altro esito di examen – come dicono i linguisti, quello di tradizione ininterrotta – è «sciame». Il saggio esce fuori, erra, brulica: tiene insieme della ponderatezza e dell’azzardo, della valutazione e dell’esperimento, della prova e della messa a fuoco. E la forma del saggio si presenta perciò molteplice, seriale, assortita – nonché incline per vocazione alla brevità e alla leggerezza.

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Strada facendo, Dillon infilza una serie di citazioni, da cui emergono le sue preferenze letterarie. Alcune sono di autori noti o notissimi, come Virginia Woolf, Susan Sontag, Roland Barthes, William Carlos Williams, Walter Benjamin, Georges Perec, William Gass; altri riferimenti riguardano invece nomi poco noti al pubblico non anglosassone, come Elizabeth Hardwick, Cyril Connolly, Joan Didion. Di certo, fra i classici un posto di riguardo spetta a Montaigne, anche per la propensione all’autoanalisi. Da un certo punto in poi, infatti, i ragionamenti meta-saggistici lasciano spazio alla saggistica vera e propria; e qui il discorso assume un carattere abbastanza fortemente personale, al limite della confessione (aspetto peraltro costitutivo del genere, teste il grande modello degli Essais). 

Parlando di sé e della propria vita, Dillon mette in rilievo la propria tendenza (predestinazione?) alla malinconia, anzi, alla depressione; non a caso, ben cinque capitoli (il settimo, il tredicesimo, il diciottesimo, il ventiduesimo e il venticinquesimo) hanno per titolo Sulla consolazione. Non che l’autobiografismo spadroneggi; vari temi si alternano, ritornano parecchie considerazioni di tipo formale; particolare rilievo hanno ad esempio le pagine sul rapporto tra frammento e aforisma. Ma è inevitabile che torni alla mente il libro di Dillon tradotto in italiano nel 2020, sempre dal Saggiatore, dal titolo Vite di nove ipocondriaci eccellenti (ed. orig. Tormented Hope: Nine Hypochondriac Lives, 2010), una galleria checomprende, in ordine alfabetico, James Boswell, Charlotte Brontë, Charles Darwin, Glenn Gould, Alice James, Florence Nightingale, Marcel Proust, Daniel Paul Schreber, Andy Warhol.

L’idea di fondo è che sussista un legame fra ipocondria e creatività: l’ansia circa le proprie condizioni di salute deriva da una particolare sensibilità, che spesso alimenta l’espressione artistica. Ovviamente, l’interesse delle indagini di Dillon consiste nella presentazione analitica dei casi singoli, più che in un assunto generale di per sé non rivoluzionario. Ma l’identica operazione potrebbe essere compiuta a proposito della depressione. Per certi versi, Scrivere la realtà (o, se preferite, Essayism) sembra porsi come la premessa o la cornice in chiave autobiografica di una ricerca sul modo in cui l’attività della scrittura interagisce con un’altra forma di sofferenza psichica, personalmente sperimentata dall’autore ma di sicuro non esclusiva – e certo non meno produttiva, sul piano della creazione artistica, dell’ipocondria. 

In attesa di verificare se Dillon seguirà davvero questa strada, vale la pena di notare l’impegno del Saggiatore – nomen omen! – nel campo della saggistica. Uno sforzo editoriale davvero notevole, anche pensando alla mole delle pubblicazioni: mi riferisco soprattutto alle oltre 600 pagine della raccolta di scritti e appunti di Piergiorgio Bellocchio Diario del Novecento, curata da Gianni D’Amo (2022: vedi la recensione di Alberto Saibene), e ai due volumi del già citato Alfonso Berardinelli, entrambi a cura di Marianna Comitangelo e Giacomo Pontremoli, Giornalismo culturale. Un'introduzione al millennio breve (2021) e Un secolo dentro l'altro. Dal Duemila al Novecento (2022), un migliaio di pagine ciascuno. Repertori ricchissimi non solo per motivi di contenuto – cioè riguardo alla critica della cultura del nostro tempo – ma anche in ordine alla varietà delle forme testuali. In questo campo, nonostante tutto, penso ci sia ancora molto da scoprire.

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