Bruno Latour, semiologo bricoleur 

25 Maggio 2023

In alcuni recenti spot di Amazon Alexa, il piccolo dispositivo a controllo vocale che si trova nelle case di molti di noi, fa cose singolari: si trasforma in un bellissimo signore che irretisce una giovane donna invaghita di lui, ridona magicamente la memoria a una coppia di settantenni affetti da amnesia e nostalgia, suona canzoni per un figlio adolescente arrabbiatissimo con cui la madre non sa più parlare (e che grazie alla musica torna da lei), aiuta una ragazza a confessare ai genitori la propria omosessualità. Ma fa anche cose imbarazzanti, come svelare agli ospiti a cena della coppia hollywoodiana – Scarlett Johanson e Colin Jost – che l’ottimo pane servito da Scarlett non è preparato da lei ma comprato da Whole Foods, e che le ostriche su cui gli ospiti si stanno sollazzando sono state dimenticate dal marito cinque ore in macchina. “Alexa legge nel pensiero?”: si chiedono terrorizzati i due coniugi.

Un’ironia che, messa in scena all’interno dello spot, è doppiamente efficace: da una parte serve a rinsaldare l’idea dell’imperfezione della mente umana (che si esibisce in piccole menzogne sociali al partner, ai figli, agli amici…), dall’altra alleggerisce la paura nei confronti degli smart objects che stanno popolando le nostre case. Costoro fanno al posto nostro, certo: accendono e spengono luci, scelgono la musica per la serata, regolano il volume, informano sul meteo e così via. Ma fanno anche per noi: dicono la ricetta, trasmettono la canzone preferita mentre lavoriamo, ordiniamo casa, ceniamo… creano atmosfera insomma. E un po’ ci osservano: orologi e app controllano battito cardiaco, pressione e calorie, ci ricordano che è il momento di fare due passi o che è quell’ora della giornata in cui dovremmo allenarci. Senza dire che Alexa parla anche con altri oggetti: con lo smartphone o con la domotica di casa, per esempio.

Che cosa sono tutti questi ibridi? Voci elettroniche che parlano in vece nostra, che cantano canzoni nella stanza accanto per parlare a un figlio che non ci ama più, o che dicono ai genitori quello che non ci sentiremmo mai di dire con le nostre parole. Pare che Alexa sia in grado di registrare la voce di qualcuno e di riprodurla: un modo, se si vuole, di risentire la voce di qualcuno che magari non c’è più. 

Siamo matti? Scambiamo gli oggetti per persone? O le persone per oggetti?  E cos’è questo strano ibrido che parla e, mentre lo fa, tesse reti, gestisce l’assenza, recupera i ricordi, rinsalda (o mette in pericolo) i rapporti fra esseri umani? Tutta questa affettività non sarà un tentativo di antropomorfizzare l’elettronico? Di ricoprire di emotività un pericoloso strumento tecnologico? Saremo diventati animisti? Non è bene tenere separato l’umano dal non-umano? Dove andremo a finire? 

Da nessuna parte, direbbe Bruno Latour: ci siamo già, da sempre, in un mondo che mescola e intreccia persone e cose, affetti e oggetti, umano e non-umano, natura e cultura, tecnica e socialità. Anzi, l’idea di Latour è che non si dà società senza una rete di elementi eterogenei, assemblati, associati che a vario titolo la compongono e che non è possibile districare queste mescolanze (che mescolanze non sono perché non c’è mai stata una purezza originaria), a meno di commettere un atto posticcio di depurazione, mettendo da una parte gli umani e dall’altra i non-umani, la materialità tecnico-scientifica e  il pensiero, gli affetti, la dimensione simbolica. Viviamo in collettivi, reti ibride di nature e culture che trovano modi, pacifici o conflittuali di volta in volta, per convivere.

Discute di tali questioni Paolo Peverini, docente alla Luiss di Roma, in un libro assai utile per comprendere il complesso apparato teorico dell’opera di Latour (Inchiesta sulle reti di senso. Bruno Latour e la semiotica, Meltemi, 2023, pp. 192), nel quale si affronta il tema dei rapporti tra il filosofo francese recentemente scomparso e la scienza della significazione – da lui stesso definita una delle sue basilari “mammelle teoriche” insieme all’etnometodologia di Garfinkel (se ne parla qui). 

L’obiettivo di questo libro di Paolo Peverini non è quello di appianare o infiammare dispute intellettuali, se e quanto cioè Latour abbia inglobato la teoria della significazione, ma di evidenziare l’importanza, non sempre riconosciuta, che la semiotica ha avuto nel formare le basi dell’approccio di Latour allo studio del mondo, della scienza, della tecnica, del design. Anche al fine di abbandonare le ombrosità di certo genere di discussioni accademiche e rilanciare l’utilità della teoria semiotica nella comprensione del mondo. 

Il volume è diviso in due parti: la prima dedicata a una “semiotica per Latour”, cioè all’influenza che la teoria della significazione ha avuto sul suo modo di fare antropologia del contemporaneo; una seconda dedicata a “Latour per la semiotica”, ovvero a come e quanto la semiotica attuale abbia fatto proprie alcune idee latouriane. Che pure dalla semiotica in parte derivano. 

Come spesso accade a chi scrive su Latour, compresa la sottoscritta, Peverini pone il problema della classificazione del suo stesso lavoro: che cosa è Latour? Un filosofo? Un antropologo? Un sociologo? Nessuna di queste etichette e tutte insieme. Latour è stato un bricoleur, nel senso che Lévi-Strauss dà a questo termine: l’agente di un modo di pensare che ri-genera, che produce un nuovo senso a partire da porzioni di mondo già esistenti, facendole proprie, modificandole parzialmente ma a partire da salienze pregnanti, da appigli significanti che diventano ponte per nuove idee. La creatività, difatti, non è mai pensare da zero. Il design è sempre re-design, come dice Latour stesso: nessun gesto prometeico rivoluzionario ma una cauta attività ri-creatrice. Cosa prende della semiotica, in particolare, Latour, e cosa se ne fa? Come viene tradotta dalle maglie del suo pensiero?

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Storicamente, i rapporti tra Latour e la semiotica si stabiliscono quando il nostro incontra Paolo Fabbri a San Diego, nell’allora appena nato Salk Institute, centro di ricerca biologica di eccellenza per le malattie umane. Obiettivo: antropologizzare la modernità, osservare come questa si costruisca in laboratori, provette, pipette, microscopi, articoli scientifici, revisioni accademiche, gerarchie dentro i dipartimenti etc. In quegli anni l’obiettivo di Latour è comprendere i meccanismi di costruzione del discorso scientifico: la sua idea è che non c’è scienza senza una serie di testi e di pratiche in cui essa si iscrive, e che scienziati e strumenti insieme, ibridi appunto, non “scoprono la natura” ma la costruiscono, testo dopo testo, diagramma dopo diagramma, fotogramma dopo fotogramma. Quando Fabbri “con la sua voce squillante e il suo bell’accento italiano” inizia ad analizzare un documento che veniva fuori da una macchina del laboratorio, pieno di diagrammi e formule chimiche riguardanti un neuropeptide, come se fosse l’analisi di un racconto, distinguendo attori di superficie (microscopi o scienziati in carne e ossa) e attanti in profondità (umani e non umani che portavano avanti il programma di individuazione del neuropeptide), Latour si rende conto della potenza euristica della semiotica. L’indifferenza della teoria della significazione per l’aspetto antropomorfo dei partecipanti a un certo fenomeno era una notevole marcia in più per l’anti-essenzialismo che egli riteneva necessario per comprendere il funzionamento della società moderna. 

Non è un caso che Peverini apra il suo volume proprio con la discussione degli studi di semiotica delle scienze condotti da Latour prima con Fabbri e poi con una semiologa sui generis, Françoise Bastide, che fondeva competenze scientifiche e competenze di analisi del testo e della visualità. Nelle loro sagge mani, guidati dalla narratologia da una parte e dalla sociologia della scienza dall’altra, essi ripensavano che cosa fosse un articolo scientifico: non un resoconto, ma un racconto, fatto di azioni e contro-azioni, argomentazioni e prove, dotato di capacità di agire (agency) che passa anche dall’uso delle immagini, non puro veicolo di verità esterna ma costrutti, accumuli di referenti, stratificazioni complesse. Come evidenzia Peverini, da una parte gli strumenti di analisi semiotica avevano aperto un mondo a Latour e, in quegli anni, grazie all’intervento su universi culturali fino a quel momento inesplorati, la semiotica poteva cambiare le carte in tavola parlando di veridizione piuttosto che di verità della scienza. 

L’interesse di Latour tra la fine degli anni ‘80 e i primi degli anni ‘90 si concentra su tecnologia e innovazione, e su questi temi, insieme a Michel Callon, John Law e altri, fonda l’ANT (Actor-Network Theory), una branca radicale degli studi sociali di scienza e tecnica: per l’ANT, il sociale non esiste di per sé se non per assemblaggio di elementi eterogenei. Così, non c’è nessuna spiegazione “sociale” della scienza o della tecnica, ma processi complessi al termine dei quali si assegna successivamente qualcosa al regno della società/cultura e qualcos’altro al regno della scienza/natura. In questa fase, come sottolinea Peverini, per Latour sono centrali le nozioni narrative di programma d’azione (in che modo la tecnica porta inscritte vere e proprie sequenze di azioni da compiere, come un dosso artificiale che ci fa rallentare o una cintura di sicurezza che ha il compito di impedire ai nostri corpi di schiantarsi contro il vetro dell’auto) e di enunciazione (intesa da Latour come traduzione, spostamento, delega). La semiotica non è per Latour solo una “cassetta degli attrezzi”, come lui stesso l’ha definita in un volume fondamentale per comprenderne il pensiero, Non siamo mai stati moderni. Al di là delle differenze sul piano metodologico e dunque di linguaggio scientifico, sostiene Peverini, ciò che conta è il comune impianto epistemologico di fondo che rende gli studi di Latour e gli studi semiotici molto più vicini di quanto non sembri: l’impostazione antiessenzialista e relazionale, una visione non antropomorfa dell’agency e un punto di vista profondamente irrudizionista sul mondo. E ciò nonostante quella sorta di inattualità della semiotica: un mancato riconoscimento, soprattutto nelle scienze sociali, di concetti semiotici che facilmente tracimano in altri campi di studio senza che ne venga riconosciuta la paternità di chi li ha messi in circolazione.

L’operazione di Peverini, come in semiotica si sta cercando di fare ultimamente, è una difesa della semiotica contemporanea: che non è più scienza dei segni e delle sole lingue (parole e, al massimo, immagini) ma scienza dei sistemi e dei processi di significazione, qualsiasi sia il linguaggio in cui tale significazione si manifesta (uno spazio, un fenomeno politico, un dispositivo tecnologico): certe critiche che Latour avanza alla semiotica, soprattutto negli scritti degli anni ‘80 e della prima metà degli anni ‘90, si riferiscono a una fase della teoria superata da tempo da un’impostazione testuale e discorsiva di cui lo stesso Latour non tiene conto, e che invece Peverini si impegna a ribadire.

Ecco che la semiotica del design e degli oggetti si è arricchita moltissimo delle riflessioni latouriane sull’ibrido ad esempio, ma le ha al tempo stesso articolate e rese ancora più pregnanti, esplorative, analitiche. La questione degli smart objects e dell’intelligenza artificiale è, ad esempio, in corso di esplorazione. Quasi venticinque anni fa in uno dei primi testi di semiotica della tecnologia (C’era una volta il telefonino, Meltemi, 1999), Gianfranco Marrone mostrava come quell’oggetto ridisegnasse le relazioni sociali esattamente come uno dei tanti attori che fanno parte della nostra comunità quotidiana. Oggi ci si interroga sul destino delle voci intelligenti dentro casa. Tenere conto delle idee latouriane sul sociale come assemblaggio, sugli ibridi, sui collettivi, da una parte, e anche delle riflessioni antropologiche di Descola sulle ontologie, è quello che fa la semiotica oggi per spiegare fenomeni molto complessi, e anche controversi, della nostra vita sociale e umana. Per presentarsi come una metodologia della scienza sociale, secondo il progetto di maestri come Greimas e Fabbri. Parlare con Alexa ci rende animisti? Possibile, e accade mentre somministriamo con attenzione un antibiotico al nostro bambino secondo i principi dell’ontologia naturalista contemporanea.

L’idea che vien fuori in Inchiesta sulle reti di senso sui rapporti tra Latour e la semiotica è non solo quella di un fruttuoso bricolage, ma anche quella dell’agente doppio, che è un traditore e traduttore al tempo stesso: qualcuno che possiede entrambi i linguaggi. Del resto, più che a un metalinguaggio Latour era interessato a un infralinguaggio, una costante traduzione appunto. D’altra parte, è mantenendo fede a un impianto teorico e metodologico saldo, come quello della semiotica matura di oggi, che si possono fare fecondi e utili passaggi di campo. 

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