Philippe Descola. Diversità di natura, diversità di cultura

10 Febbraio 2012

È di pochi giorni fa una triste notizia: in Florida hanno abbattuto un senatore. Ciò che colpisce, tuttavia, non è la notizia in sé quanto piuttosto il suo genere: non si tratta di un assassinio politico ma di un disastro ecologico. Il Senatore in questione, infatti, non era un uomo politico ma un albero, per la precisione un cipresso, e aveva 3600 anni.  Stava lì da moltissimo tempo prima dell’arrivo di Colombo, quando gli indiani seminole lo adoravano come un totem, e lì è sempre rimasto, sorta di attrattiva turistica venerata dagli ambientalisti che giungevano numerosi in pellegrinaggio, a cui perfino i presidenti statunitensi andavano a rendere omaggio. Recava un targa di bronzo, a memoria delle tante visite illustri, che devastatori di turno avevano provato più volte, e inutilmente, a far sparire. Il Senatore, considerato il secondo albero più longevo del mondo, ha preso fuoco inaspettatamente ed è ora un mucchio di cenere. Cosa abbastanza strana, dato che per proteggerlo già da tempo gli avevano applicato un parafulmine.

 

Questo fatto, e il modo in cui i giornali di mezzo mondo l’hanno raccontato, per quanto indiscutibilmente doloroso avrà certamente riempito di buon umore Philippe Descola. Che vi avrà trovato ulteriore conferma delle sue affascinanti, mal comprese teorie. Tra gli ultimi, geniali allievi di Lévi-Strauss, Descola insegna Antropologia della Natura al Collège de France di Parigi e vi dirige il prestigioso Laboratoire d’anthropologie sociale. Nel 2005 ha pubblicato un poderoso volume, Par-delà nature et culture (Gallimard), tradotto, letto e discusso in molti paesi ma non in Italia, in cui espone una teoria etnologica tanto importante quanto inattuale. Secondo la quale, come dice il titolo, l’arcinota separazione fra natura e cultura non ha più motivo di esistere, né come dato di fatto né come modello concettuale. Si tratta infatti di una convinzione tutta moderna affermatasi grosso modo nell’epoca cartesiana, di una credenza ideologica fra le numerose altre possibili che gli antropologi occidentali (e molti altri illuminati pensatori con loro) hanno sistematicamente applicato – in modo fortemente etnocentrico – alle altre società e popolazioni del pianeta per provare a studiarle, di fatto non potendo capirne granché.

 

In moltissime culture del mondo, presenti e passate, la distinzione fra ciò che è umano (e dunque, essendo superiore, vanta diritti sugli altri esseri) e ciò che non lo è (e, essendo inferiore, non ha diritti propri e può essere sfruttato) non ha ragione di esistere. Ci sono popolazioni per cui, ad esempio, gli animali e le piante hanno un’anima alla stregua di quella degli esseri umani, e per questo sono considerati persone con cui intrattenere precise relazioni sociali, spesso di stretta parentela. E ci sono società in cui gli umani e i non umani appartengono al medesimo gruppo totemico, sorta di stampo ideale che plasma consistenze, complessioni, comportamenti e temperamenti analoghi a tutti gli esseri che vivono nel medesimo luogo, uomini, animali o piante che siano. Se chiedete a un achuar amazzonico che cos’è la natura vi guarderà esterrefatto, poiché non capirà, col significato del termine, il concetto a prima vista ovvio che vorrebbe veicolare. Analogamente faranno gli aborigeni australiani, che non a caso si offendono moltissimo quando il governo recinta i loro territori, ossia le foreste, perché patente espressione di una wilderness da proteggere a spada tratta.

 

La faccenda del senatore americano fa adesso capire che, in fondo, anche nella nostra illuministica, razionalista, tecnocratica società occidentale le cose non sono poi così semplici. Quel cipresso, data la sua veneranda età, era il simbolo più ovvio di un essere vivente che, preesistendo alla civiltà umana, è un’entità naturale, memore e silente testimone di un’epoca in cui l’ambiente della terra era puro, incontaminato, vergine, solo. Ma lo era a condizione d’essere riconosciuto tale, ossia in funzione di qualcuno che ne ha individuato l’anzianità (sulla base di precisi calcoli e relative metodologie di indagine) e che, per questo, ha iniziato ad adorarlo, a rendergli omaggio, a proteggerlo, ad applicargli una targa e un parafulmine. A dargli un nome che è l’epiteto di un personaggio socialmente e politicamente di rilievo: un senatore. Per non parlare del fatto che – come tutte le icone – era soggetto a vandalismi continui; tanto che, alla fine, qualcuno l’ha pure fatto fuori. Di puro, vergine e incontaminato, insomma, resta ben poco, se non l’idea preconcetta, tanto indimostrabile empiricamente quanto fondata su credenze ideologiche fortissime. Quel cipresso, insomma, aveva un’anima, era un attore sociale, e come tale intratteneva complesse relazioni intersoggettive sia con la specie umana sia con gli altri esseri viventi, assumendo una posizione di sicura rilevanza storica e di prestigio politico.

 

La natura, insomma, ripete Descola in un libretto divulgativo che – wow! – arriva adesso anche in traduzione nel nostro paese (Diversità di natura, diversità di cultura, Book time, pp. 69, € 9), è l’esito di una parola socialmente autorevole, quella della scienza che la circoscrive, e di una concomitante serie di azioni (religiose, politiche, economiche etc.) che la trattano come un’alterità ora da sfruttare sino a distruggerla (come per secoli s’è fatto e si continua a fare) ora da proteggere e coccolare (come i vari ecologismi ci invitano giustamente a fare). La credenza occidentale moderna in una natura data, unica e separata rispetto alla società, si fonda pertanto su un gesto antropologicamente curioso, quello dello scienziato che la pensa come un tutto estraneo e meccanico da indagare accigliatamente; gesto che ha esiti politici ed ecologici disastrosi: la sottomissione e lo sfruttamento intensivo, sino a una distruzione progressiva che – com’era prevedibile sin dall’inizio – si riverbera anche su noi umani  saccenti e prepotenti. Cosa che in altri luoghi del pianeta, in altre società e culture, non è mai successo, né può succedere.

 

Si arriva così a un apparente paradosso. Le società che, come la nostra, credono nell’esistenza della natura la distruggono. Quelle che non ci credono, come gli achuar o gli aborigeni, la custodiscono. Gli altri sono ecologisti molto più di noi e da sempre, per natura verrebbe da dire. Senza saperlo forse, ma con grandi convinzioni religiose, cosmologiche, politiche a supporto. Gli attuali ecologisti delle nostre terre, suggerisce perciò Descola, avrebbero molto da imparare dalle popolazioni cosiddette primitive, selvagge eppure molto più attente di noi nel rispetto delle specie viventi. Potrebbero per esempio mettere da canto le nostalgie per un passato verdeggiante che forse non è mai esistito, dismettere le pose mistiche di chi va ad adorare un cipresso con annesso parafulmine, e provare a pensare al futuro. A una natura da inventare, da progettare, da costruire, in funzione nostra e insieme a noi. Una natura nuova che è al tempo stesso un nuovo modello di società. Un mondo migliore, insomma.

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