Speciale

Campioni # 14. Milo De Angelis

2 Dicembre 2015

Ti ritrovo alla stazione di Greco

magro come un rasoio e ulcerato da un chiodo

che tu chiamavi poesia poesia poesia

ed era l’inverno eroico di un tempo

che si oppone alla vita giocoliera… e vorrei

parlarti ma tu ti accucci in un silenzio

ferito, ti fermi sul binario tronco,

fissi il rammendo delle tue dita

con la gola secca di fendimetrazina,

e la palpebra accesa da mille frequenze

mentre la Polfer irrompe nel sonno elettrico

e riduce ogni tuo millimetro all’analisi del sangue…

…vorrei parlarti, mio unico amico, parlare solo a te

che sei entrato nel tremendo e hai camminato

sul filo delle grondaie, nella torsione muscolare

delle cento notti insonni, e ti sei salvato

per un niente… e io adesso ti rifiuto

e ti amo, come si ama un seme fecondo e disperato.

 

da Id., Incontri e agguati (Milano, Mondadori, aprile 2015, pp. 69, € 18), p. 43

 

Milo De Angelis, ph. Viviana Nicodemo

 

La poesia di Milo De Angelis si confronta da sempre con la “pericolosità” e l’inattualità del lirico nell’orizzonte del contemporaneo, in una sovrapposizione fra dimensione postuma e ancestrale. Dentro l’«Aldilà del nichilismo», nel «gelo definitivo» di benniana memoria, si determina l’identità tragica fra «pagina assoluta» e pura perdita. All’interno delle “tempeste di ghiaccio” dell’io lirico l’autore combatte una logorante guerra di trincea con la realtà e la morte, dove ogni parola ha «sapore di battaglia» e l’esperienza irrompe al modo di una «raffica che ti esige sino all’ultimo». Nella sua opera, sin da Somiglianze (1976), incontri e dialoghi svolgono una funzione decisiva, ma vengono radicalmente rielaborati a partire da una visione per la quale la ferita è forma originaria del contatto, la colluttazione dinamica costitutiva dell’eros. A dominare è dunque una prospettiva agonistica, anti-agapica, «partigiana di Sparta» (come direbbe ancora Benn). Il dialogo è funzionale a un «colloquio straniero», in primo luogo con se stessi, e determina un sorprendente continuum fra le allucinazioni del Woyzeck di Büchner e i Dialoghi con Leucò di Pavese.

 

Così è anche in Ti ritrovo alla stazione di Greco, poesia centrale del suo nuovo libro, Incontri e agguati, dove riconoscimento dell’altro e smarrimento dell’io, che «brancola nel pozzo dei suoi ricordi», convergono verso un’“epifania del negativo” tutta compresa, e compressa, fra «panico e silenzio». L’improvvisa apparizione di una figura conosciuta, che porta con sé l’«urlo segreto» di un’esistenza condannata, si palesa come imboscata di una dimensione ctonia, spettrale, aorgica della realtà. L’incontro è una sorta di violenta scarica elettrica, un faccia a faccia con la «verità della distruzione». L’«unico compagno» si palesa in definitiva come una sorta di doppelgänger: «incarnazione di ciò che perdiamo», riconoscimento dell’assolutamente Altro come origine e destino dell’umano.

 

L’incontro avviene come dentro una vertigine panica (in cui permane l’eco dell’urlo sconvolgente del dio Pan) e spinge il soggetto, come sottolinea l’autore stesso in una recente intervista concessa a Claudia Crocco, a «precipitare nel profondo», a partire dall’avvertimento, nell’apparizione dell’altro, di «una crepa subitanea e letale che si spalanca», di «qualcosa che impedisce di chiudere l’accordo e getta l’altro in un luogo indecidibile, a portata di sguardo e a perdita d’occhio». I due protagonisti del testo, nel rivedersi, come pietrificati in una perenne vigilia di battaglia, rigettano la prospettiva della confidenza, dell’intimità, rifiutano, come un tradimento reciproco, l’orizzonte della condivisone pacificata; sono due reduci, due sopravvissuti alla guerra senza quartiere con la realtà, e ora per entrambi «c’è solo l’esigenza di conoscere qualcosa che ci ha già conosciuti». Posti uno di fronte all’altro sentono che la verità si lega da un lato alla prospettiva dell’eterno ritorno, e dall’altro vive e brucia nell’istante, non ha futuro, riconsegna ciascuno alla sua solitudine originaria, a un’agitazione, a un tumulto, cui è precluso il paradiso del riposo.

 

Siamo convocati, come spesso nella poesia di De Angelis, al «sacro appuntamento dell’ultimo minuto»: dove, oscillando fra rito di passaggio e rito sacrificale, bisogna passare per le strettoie della morte prima di rinascere. Il «seme fecondo e disperato» che chiude il testo non è che la stessa ragion d’essere della poesia, o meglio della «poesia poesia poesia», “chiodo fisso”, ossessione di un assoluto, inattuale e inattuabile, cui le parole danno la caccia, in modo quasi cannibalistico, come le Baccanti che incontrano e fanno a brani il corpo di Orfeo.

 

L’incontro con l’«unico compagno», già quasi fantasma e ombra, inavvicinabile e al contempo spaventosamente prossimo, conduce in modo drastico e antielegiaco verso «drammatiche / verità sulla vita», per rifarci al Sereni degli Strumenti umani, e più in particolare a una poesia che ha per titolo, significativamente, A un compagno d’infanzia. Nel testo di De Angelis l’«unico amico», figura tormentata, spezzata, gelata nella propria marginalità, doppio persecutorio e perseguitato, permette al vuoto di prendere forma, in veste di permanente “agguato”, ancor prima che della morte, della vita stessa che convoca spettri, che spinge ogni gesto a smarrirsi nella sua medesima ombra, nella opprimente, continua variazione di un «evento irreparabile» posto a fondamento dell’esistenza. Siamo nel cuore della realtà stessa e al contempo estremamente lontani dal reale; i due protagonisti del testo, come rette parallele, sono collocati su uno stesso piano e non si incontrano, o meglio «s’incontrano all’infinito», in quel radicalmente oltre in cui è risucchiata la Milano di De Angelis.

 

Al centro della scena c’è una febbrile urgenza di dialogo che trova nel mutismo dell’altro, nel suo «silenzio / ferito» una esasperazione ulteriore: il silenzio qui diviene quasi oggetto contundente; resa, in qualche modo fisica, dei modi con i quali l’angoscia afferra e aggredisce (verrebbe, in questa ottica, da pensare al rapporto, in tedesco, fra i verbi greifen e angreifen). L’io lirico ripete in un crescendo di inquietudine «vorrei parlarti…», «vorrei parlarti…», ma sa già che le sue frasi percorrono un «binario tronco» , così come in altri testi della medesima sezione il dialogo con l’altro finisce a tratti per coincidere con il cozzare della parola contro il muro del vuoto. Torna in tale quadro nuovamente utile il rimando (pur nella differenza della scena) alla poesia A un compagno d’infanzia di Vittorio Sereni, che si apriva sotto il segno di un consumarsi dello spazio confidenziale fra i soggetti («Non resta più molto da dire / e sempre lo stesso paesaggio si ripete»), per chiudersi sotto un effetto morsa, altamente perturbante, che sull’io creano, assieme, memoria e allucinazione.

 

De Angelis applica al rapporto con la realtà, come già detto, le dinamiche di una guerra di trincea. Si tratta però, per lui, di una trincea che non protegge (neppure come rifugio momentaneo e precario) dal «vuoto caotico del campo di battaglia» (per dirla con Jünger), ma al contrario si rivela come luogo in cui ciò che ci minaccia può manifestarsi nella sua pienezza, può fare liberamente irruzione, tendere ripetuti agguati. La trincea è per De Angelis allo stesso tempo “terra di nessuno”, che espone il soggetto all’esperienza dell’alterità, dell’alterazione e della morte, nonché luogo originario, che ininterrottamente convoca e richiama a sé. Per questo la trincea è una sorta di paradigmatico, “ideale” luogo d’incontro; e in ogni incontro deangelisiano c’è, in qualche modo, sullo sfondo, memoria di una trincea. Anche nell’incontro che prende forma presso la Stazione di Greco.

 

Nel titolo del nuovo libro di De Angelis è presente un significativo richiamo ad Apparizioni e incontri, sezione finale degli Strumenti umani di Vittorio Sereni, a cui ci siamo già richiamati nel nostro discorso. Nella sua raccolta del 1965 il poeta di Luino si poneva in colloquio con le radici più profonde della propria angoscia, fra sdoppiamenti inquietanti dell’io («il killer che muove alla mia volta / notte e giorno da anni»), dialoghi di ombre, incubi, fantasmi, con un crescente assillo, un sempre più deciso imporsi in primo piano della voce del vuoto e della morte. Ed è appunto questo “Sereni più denso”, irriducibile alle coordinate critiche della «linea lombarda» anceschiana, colto nelle sue verticalizzazioni liriche, in una visionarietà alimentata da presagi sinistri, quello a cui la poesia di De Angelis guarda con crescente attenzione, in particolare a partire da Biografia sommaria, e poi nel «benvenuto alle ombre» di Quell’andarsene nel buio dei cortili (2010) sino al suo lavoro più recente.

 

In De Angelis l’incursione nella tenebra dell’io poetico si svolge per intero all’interno delle dinamiche di un riconoscersi, di un rivedersi, di un ritornare «che ti esige da sempre», e trasforma il tempo in una esperienza di accerchiamento, senza sviluppo, circolare, allarmante. Nella spasmodica caccia alla realtà che la poesia di questo autore compie, passando di incubo in incubo, l’ossessione lirica conduce in una sorta di sottosuolo dell’essere, diviene «oracolo sepolto» accanto alla sorte esemplare di Antigone. La dimensione della contemporaneità e quella mitica convergono conflagrando una nell’altra: da ciò scaturisce il senso di un’«incontenibile angoscia» che richiede l’adesione alla vita, il sì tragico di Nietzsche.

 

Nella drammatizzazione di questo ritrovarsi, in una stazione di Milano che può anche tramutarsi in porta dell’Averno, è in definitiva la poesia che incontra se stessa, il proprio assillante e mai identico ripetersi, il suo inesauribile ritorno al «vuoto torrenziale» dell’origine, in uno spazio sacro e devastato, dove ciò che è perduto porta con sé, in vece di una rassegnazione depressiva, l’esposizione, quasi sacrificale (il cui primo referente non può che essere Hölderlin) di una parola sempre «perduta, ritrovata», che «rinasce precipitando nel suo bianco».

 

Nei componimenti che formano questa sezione incontriamo vivi e morti, figure familiari, amici, revênants e fantasmi della mente, che, all’interno di una realtà in continuo “stato di eccezione”, danno forma a un vero e proprio “impasto” corale. Fra aule scolastiche, bar, piazze, periferie, campi sportivi, edicole e stazioni, si agitano anime perse e sospese, catturate nei labirinti di un mondo che non concede vie di fuga né chiarificazione dei propri impenetrabili misteri. La scrittura traccia un solco sulla pagina, come una linea nel palmo della mano, che unisce l’«aperto sorriso del mondo» al «niente infuriato e sanguinante».

 

Ti ritrovo alla stazione di Greco ruota attorno al tema dell’ossessione. In una intervista del 2007 l’autore sottolineava significativamente che «Obsessio in latino significa anche “assedio”. E tutto ciò che riguarda il verbo obsidere ha significati molto pregnanti, che vanno dall’invadere al possedere, dall’irruzione al tendere un agguato». Specificando poco dopo: «L’ossessione la immagino così: una creatura ferita che continua a bussare sempre più forte, dà colpi violenti alla nostra porta, minaccia di abbatterla». Portavoce dell’ossessione è anche la persona che, in Ti ritrovo alla stazione di Greco, chiama il mondo verso di sé, verso il proprio turbamento, per comunicare l’esemplarità del proprio destino «perso e vivente». Ma è l’intera raccolta a ribadire quale proprio nucleo il “demone dell’ossessione”, dalla saggezza finale, gelida e accogliente, che apre il libro, dando forma a un ulteriore capitolo della «biografia sommaria» di De Angelis, alla sua interminabile «trattativa con la morte», sino alla chiusura del testo, dove la parola poetica si accosta alla dannazione di un detenuto, sorvegliato ininterrottamente dai suoi incubi, visitato dallo spettro del proprio crimine, cercando dentro quella tenebra «un disegno di salvezza, forse, o un’esecuzione».

 

In un cammino senza appoggi, che incrocia a ogni passo la presenza della morte e l’incandescenza di una «gioia conclusa e straripante», De Angelis continua a indagare con Incontri e agguati «zone oscure e tumultuose dell’essere, zone drammatiche e laceranti della psiche» (quelle a cui l’autore si richiamava all’interno di una sua riflessione su Lucrezio), ricercando l’attualità del sublime nel cortocircuito fra contemporaneo e primordiale. Nello smarrimento, non più ricomponibile, fra potenza e impotenza della lirica, in uno spazio letterario determinato dal rischio e della solitudine, il gesto poetico di De Angelis sa che per rincorrere ancora la vertigine dell’assoluto deve gettarsi nel caos del presente dove, per usare le parole di Baudelaire, «la morte giunge al galoppo da tutte le parti tutt’in una volta». Toccando solo punti estremi, la poesia di De Angelis, in definitiva, lascia aperta la ferita, e la contesa, fra la salvezza e il nulla, confermando ancora una volta, nel suo «inno dei corpi perduti», l’ostinata, tragica, resistenza della vita, e della lirica, che «s’impiglia alla sua fine per sempre».

 

 

 

 

Milo De Angelis è nato nel 1951 a Milano, dove insegna in un carcere di massima sicurezza. Ha pubblicato Somiglianze (Guanda 1976; 1990); Millimetri (Einaudi 1983; il Saggiatore 2013); Terra del viso (Mondadori 1985); Distante un padre (Mondadori 1989); Biografia sommaria (Mondadori 1999); Tema dell’addio (Mondadori 2005), Quell’andarsene nel buio dei cortili (Mondadori 2010), Incontri e agguati (Mondadori 2015). Ha scritto il racconto La corsa dei mantelli (Guanda 1979; Marcos y Marcos 2011) e un volume di saggi (Poesia e destino, Cappelli 1982). Nel 2008 è uscito presso La Vita Felice, a cura di Isabella Vincentini, Colloqui sulla poesia, dove appaiono le sue principali interviste. Nello stesso anno viene pubblicato un volume che raccoglie la sua opera in versi (Poesie, Oscar Mondadori, introduzione di Eraldo Affinati). Ha tradotto dal francese (Baudelaire, Blanchot, Drieu la Rochelle, Maeterlinck, Racine) e dalle lingue classiche (Il rapimento di Proserpina di Claudiano, Marcos y Marcos 1984; Casaccia 2010; L’amore, il vino, la morte. Trentasei epigrammi dall’Antologia Palatina, Satyros 2000; ES 2005; Sotto la scure silenziosa. Frammenti dal De rerum natura di Lucrezio, SE 2005).

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