Capire le folle

27 Dicembre 2025

L’attenzione verso la folla “che si adira e parla con una voce sola” come osservava Taine, si è riproposta a fine Ottocento attraverso Gustave Le Bon. Questi scrive nel 1895 Psicologia delle folle (Bollati Boringhieri, 2025), in un periodo caratterizzato da convulsi cambiamenti, come la nascita del proletariato industriale, la diffusione delle idee socialiste, le azioni del nascente movimento operaio, gli scioperi che mettono in evidenza esperienze collettive fino ad allora limitate e ristrette. L’interesse per le folle si sviluppa, peraltro, in un momento in cui l’interpretazione di questi comportamenti è favorita dall’interesse per gli elementi irrazionali e gli ambiti più nascosti dell’agire umano. Il tentativo di Le Bon di spiegare quella psicologia attira l’interesse di studiosi quali Carl Gustav Jung secondo cui l’uomo “massa” da lui delineato coincide con le considerazioni di Le Bon, e Sigmund Freud sottolinea l’attività dell’inconscio all’interno della folla, «intellettualmente inferiore all’uomo isolato ma, dal punto di vista dei sentimenti e degli atti da questi provocati, può essere migliore o peggiore a secondo del modo in cui la folla è suggestionata» Sul versante letterario alcune voci, italiane e non solo, talora anticipano e talora convergono sulle idee di Le Bon. Si pensi al Manzoni dei Promessi Sposi (1827) e al «vortice che attrasse lo spettatore» quando avviene il primo contatto di Renzo con uno strano «brulichìo». E poi esplicitamente la folla cerca rassicurazione: «fanciulli, donne, uomini, vecchi, operai, poveri si radunavano a sorte; questo faceva al più vicino la stessa domanda che era allora stata fatta a lui; questo altro ripeteva l'esclamazione che si era sentita risuonare agli orecchi; per tutto lamenti, minacce, meraviglie; un piccolo numero di vocaboli era il materiale di tanti discorsi. 

Non mancava altro che un'occasione, una spinta, un avviamento qualunque, per ridurre le parole a fatti». Nievo in Le confessioni di un ottuagenario (1867) ricorda l’amministratore che fa «una corsa a Portogruaro… e là …era a dir poco un parapiglia del diavolo» fra «sfaccendati che gridavano» e «contadini a frotte che minacciavano». Quei «gridatori erano gente uscita non si sapeva da dove, che imponeva la legge con quattro sberrettate e quattro salti intorno a un palo di legno». E con Verga in Libertà (1882): «Non importa! Ora che si avevano le mani rosse di quel sangue, bisognava versare tutto il resto. Tutti! Tutti i cappelli!». In I vecchi e i giovani (1913) Pirandello parla di folla nel giorno delle elezioni politiche, con le strade di Agrigento insolitamente affollate da chi osserva la propagandistica «ciarlataneria» in quei giorni più evidente. La folla, per essere caratterizzata, non ha bisogno di nomi riconoscibili e lo sguardo si posa su infernali condizioni di lavoro, su una giustizia di tipo feudale, sulla disperazione di tanta gente di campagna. Altra apparizione della folla avviene con la notizia dell’uccisione di un ingegnere minerario e di una donna facile da parte di un gruppo di solfatari, e manifesta una sua specifica visione delle cose e una sua voce. E poi il De Amicis di Primo maggio (1907) descrive la folla e le grida che rappresentano la partecipazione e il tumulto di una manifestazione. Ancora, superando i confini nazionali su questo tema, si ricordano Germinale di Zola (1885), “L’uomo della folla” di Poe (1840), per giungere al Novecento, al suo romanziere che ha primeggiato per psicologia intuitiva, Georges Simenon. In La casa Krull del 1939 questi descrive il clima di ostilità, emarginazione, razzismo e meschinità umana attraverso le accuse contro i Krull, famiglia tedesca emigrata in Francia. L'omicidio di una ragazzina scatena la "folla" contro la famiglia indicata come responsabile per la sua origine straniera.

In quegli anni finali dell’Ottocento, in un settore di tutt’altra ispirazione, si verifica un intervento sul tema delle folle non casuale. Il codice penale del 1898, di cui è autore il ministro Zanardelli, introduce una circostanza attenuante della sanzione, l’art. 61.3 comma, poi mantenuta nel codice attualmente vigente del 1930 nonostante le numerose riforme (art. 62.3 comma). Si tratta di una diminuzione di pena che fornisce una legittimazione normativa alle tesi di Le Bon, in quanto ha luogo se si è agito per «suggestione della folla in tumulto», cioè in uno stato di agitazione causato dalla presenza di una moltitudine che travolge il soggetto. Ancora di recente si è specificato che la norma si giustifica per la minore resistenza psichica dell’individuo a causa del contagio dovuto all’eccitamento e alla passionalità della folla tumultuante (Cassazione, sentenza n.22903 del 2023).

La valutazione sulla folla è per Le Bon sostanzialmente negativa, confermata poi da numerosi seguaci, perché costituita da individui interagenti sulla base di pulsioni e credenze, uniti da una sorta di anima comune che non coincide con la somma delle caratteristiche dei singoli. Nella folla l’individuo subisce una trasformazione e compie azioni che non compirebbe da solo perché il sentimento collettivo orienta i pensieri nella medesima direzione, producendo una diminuzione della reazione individuale e un aumento dell’impulsività. L’essere immerso in una folla porta l’individuo ad acquisire un “senso di potenza invincibile” trovandosi insieme a una pluralità di persone, essendo quindi incline a cedere a istinti invece repressi se considerato individualmente. E ancora i sentimenti, la suggestione (Raz, Il potere della suggestione, Apogeo, 2025) si trasmettono dall’uno all’altro come una sorta di epidemia psichica per porta ad essere quasi forzati a imitare il comportamento altrui. Altra caratteristica indicata da Le Bon è la guida della folla da parte di un trascinatore, capace di usare le parole ad effetto, un linguaggio elementare con affermazioni ripetute che acquistano influenza e penetrano nel profondo, anticipando i principi della pubblicità. La folla non discute, non ascolta le opinioni diverse dalla sua, si fa trasportare dalle emozioni, elimina le mediazioni, ama o odia senza vie di mezzo, emargina chi dissente. È unanime, si esprime con una voce sola, rende l’individuo non riconoscibile dagli altri e con loro non confondibile. È un soggetto anomalo diverso dall’individuo singolo.

Il pensiero di Le Bon e dei suoi sostenitori ha suscitato forti critiche. Sono state rivalutate le azioni invece positive della “folla” (Rude, La folla nella storia, Editori Riuniti, 1984) e della ‘massa’ come momento per sentirsi uguali (Canetti, Massa e potere, Adelphi), la si è distinta dal ‘popolo’ che ha incarnato la forma di vita associata nello Stato moderno, è stata riscritta la “moltitudine” che «non diviene un soggetto unico svaporando il moto centripeto» (Virno, Grammatica della moltitudine, Derive approdi, 2004). In una recente riflessione (Bidussa, “Dan Handox: masse e politica”, in questa rivista) la folla sembra comportare la perdita di autonomia per cui pare che scompaiano le debolezze individuali, mentre in realtà è un momento fondamentale in cui ci si sente esaltati, in cui sembrano scomparire le debolezze individuali, si è travolti da un collante emotivo, rafforzati, elettrizzati, come dimostrano le lotte per i diritti, i momenti di socializzazione urbana, gli eventi collettivi, sportivi o musicali.

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Perché allora, ci si chiede, ricompare questo saggio di Le Bon da nebbie neanche tanto fitte e viene riproposto all’attenzione? Emerge dalle righe una sua attualità? In realtà, pur appannato dai tempi, quello studio ha contribuito a valutare l’ascesa di un soggetto collettivo approfondendone l’azione, il potere nuovo, il suo animo psico-sociale, cosa da esso ci si attende e cosa produce. Tra i volti della sua contemporaneità si coglie il rapporto con la giustizia (così di recente Giostra, La folla e la giustizia, Sistema penale, 2023). Quanto più la folla è attraversata dalla paura per un male oscuro, tanto più cresce l’ansia per individuare con pronta fermezza un colpevole. Essa è irascibile, irriflessiva, binaria, insicura, manifesta paura anche per la rappresentazione del fenomeno deviante come diffuso e imprevedibile, impotente verso il lato oscuro della società. Di qui la sfiducia verso le istituzioni che dovrebbero essere protettive e che sono sollecitate a chiedere risposte punitive e simboliche. La sensazione che se ne trae è di un apparato giudiziario inefficiente e inefficace, che penalizza a sorteggio, che dilata gli spazi di impunità, che è spinto da istanze dall’allarme attivato da certe devianze. Si drammatizza l’insicurezza, e di conseguenza prende corpo il diritto “emozionale” e simbolico. Volendo riassumere, per taluni il momento penale è una medicina e come tale è a doppio taglio, nel senso che il suo problema è il dosaggio, può far guarire ma in proporzione eccessiva diventa un veleno. Per altri invece il penale è un’arma, una potenza di fuoco che maggiora la dose di punizione avendo come obiettivo l’eliminazione del cattivo, del fuorilegge, del nemico. La società oggi è sempre più emotiva, punitiva, eccitata perché eccitabile (Turke, La società eccitata, Bollati Boringhieri, 2012), esprime pulsioni molteplici quali la paura collettiva, l’indignazione, il risentimento, l’insicurezza per l’estraneo sia l’immigrato, il marginale, lo straniero, il nemico interno. Nel contempo, dopo gli anni in cui l’imputato era l’istituzionale oggetto di indagine, ora la vittima esce dall’oblio divenendo fonte di prioritaria preoccupazione. Mentre il l’imputato delinquente è da neutralizzare essendo una minaccia, la vittima è un sofferente in cerca di elaborazione del lutto, parlando linguaggi diversi e non conciliabili, il primo quello del diritto, la seconda quello del dolore. Le frustrazioni collettive si coagulano anche sul capro espiatorio, soggetto contro cui l’indignazione collettiva può sfogarsi e la punizione tranquillizzare, creando consenso nella società (Nils Robert, L’impérativ sacrificiel, Edition d’en bas, 1986, non tradotto). La folla rifiuta l’idea che non si riesca a trovare un cittadino da processare o un colpevole da condannare, e il capro espiatorio diviene così la valvola di sfogo con cui si cerca di restaurare l’equilibrio emotivo. E la procedura assume una dimensione comunicativa con messaggi che non riguardano soltanto l’individuazione dei colpevoli, ma anche la messa a nudo dei mali sociali. Per agire in questa direzione la macchina penale usa la persona dell'imputato: nel caso rimanga ignoto o abbia dimostrato la sua innocenza si diffonde il sentimento di resa e di sconfitta. Non solo: i cittadini si rendono conto di poter essere chiamati tutti a recitare quella parte, in quanto il processo si può diffondere e riguardare tutti, come la peste manzoniana «a chi la tocca la tocca».

Alcune variabili relative alla folla sono poi abbagliate dalla modernità, cioè il rapporto tra la società e l’opinione pubblica. Quest’ultima ha subito un cambiamento radicale: si sono scolorite le battaglie degli anni ‘60-‘70 in cui si propugnava il diritto di conoscere e il dovere di informare, in cui l’opinione pubblica informata era il cavallo di battaglia, di pasoliniana memoria, necessaria per vedere all’interno di un Palazzo dai vetri oscurati che come tali impedivano di apprendere per giudicare. Ora è diventata irriconoscibile, trasfigurata dal “medium dell’eccitazione”, tanto che già da tempo si auspicava per gli intermediari come politici ed intellettuali, la “razionalità discorsiva” (Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, Laterza, 1962). Ora vi è la sovrabbondanza straordinaria di mezzi informativi col rischio per il cittadino di essere stritolato da una domanda dopata. Non solo: la comunicazione mediale instaura nuove forme, trasforma la sfera pubblica in arena (non a caso una trasmissione serale di successo) in grado di influenzare attraverso la “virtualità”. Con la società digitale le informazioni sono eccessive, si affaccia prepotente il “pericolo della dismisura” (T.Todorov, I nemici intimi della democrazia, Garzanti, 2012), le TV sono onnipresenti e quindi inesorabilmente spesso superficiali, implacabili, trattandosi peraltro di aziende concorrenziali tra loro. Emerge nel contempo una direttrice neppur troppo sotterranea: il cittadino non interessa come singolo, come dovrebbe invece essere istituzionalmente, ma come vittima del bisogno della trasparenza. Questo è stato un credo promosso per consentire la partecipazione collettiva (esplicitamente Vattimo, La società trasparente, Garzanti 1989), segnalandolo come pilastro delle società democratiche. In questi anni però la trasparenza si è affermata anche come obbligo, collocando l’uomo-cittadino come funzionale di un sistema. In questo senso si parla di una “violenza” della trasparenza, in quanto il soggetto si crede, o gli viene fatto credere, di essere libero mentre non lo è, obbligato a mostrare-mostrarsi, a sapere-essere saputo. Si dilata la richiesta della verità ad ogni costo, lasciando trasparire in filigrana un’umanità in cui tutti sono giudici e pubblici ministeri, una folla anonima di forum e social network che pretende di sapere tutto di tutti, sempre e in ogni momento. E questo in nome dei valori di libertà che la rete esporta, appiattendo le coordinate spazio-tempo per cui tutto cade sotto l’occhio, tutto è spettacolo perché lo sguardo è senza confini nella piazza globale. Non a caso e in parallelo proliferano i “processi mediatici”, assurti a genere autonomo di spettacolo dal crescente ’“appeal”, soprattutto per il legame con l’inchiesta in corso, per l’intervento dei protagonisti reali che forniscono il timbro dell’ufficialità, per l’impressione elettrizzante di maneggiare le prove penali. In sostanza cresce la “suspence” non per una storia di finzione, ma per un fatto reale di cronaca di cui si è spettatori attivi, ovviamente attraverso i fatti distillati come merce rara dai media per giungere a verità senza regole. Ma gli scenari, quello del salotto e quello dell’aula, sono infungibili tra loro. Nei salotti non esistono principi probatori legali con cui costruire il risultato processuale, l’orologio del tempo è regolato su ritmi diversi, il giudice è il pubblico e non un soggetto imparziale. Domina lo scontro verbale in un valzer di ospiti ed esperti, in uno scenario domestico lontano da quello rituale dell’aula, molto spesso impostato sul binomio manicheo tra il buono e il cattivo. Permanente è lo scivolamento in una discussione a favore di un pubblico, folla, che vuole giudicare e non essere informato. In questa prospettiva viene oscurata la riservatezza e minacciata la reputazione individuale. Una trasparenza degenerata descritta da Orwell nel suo 1984, dove la polizia del pensiero, o psicopolizia, spinge le indagini all'onnisciente conoscenza degli abitanti dell'Oceania. Tutti permanentemente esposti, gli atti, le parole, le opinioni, e di conseguenza, essendo scrutati continuamente, scompare la libertà.

Si delinea all’orizzonte e prende spazio un protagonista nuovo, una nuova prova dai limiti poco chiari, quella “sociale”, promossa, irrobustita, controllata dall’opinione pubblica e quindi dalla folla. Nel quadro delineato si innesta, ancora, con nettezza una variabile invasiva, il “rumore”, indagato di recente (Kanehman, Rumore, Treccani, 2021). Si tratta del disturbo che influisce sul percorso delle idee e soprattutto sulle decisioni. Se poi queste ultime sono giudiziarie si apre un altro capitolo su cui sono state svolte recenti riflessioni (Manes, Imparzialità del giudice nel turbine della giustizia mediatica, Editoriale scientifica, 2025, vedasi da parte nostra, “Tu chiamale se vuoi emozioni”, in questa rivista 2022).

Il problema sembra irreversibile, immodificabile come sostengono molti (Nacci, Il volto della folla, Mulino, 2019)? Ma se la folla è un’entità irrazionale e tendenzialmente violenta, costituita intorno a un “trascinatore”, come si formano le opinioni che debbono cementarsi tra loro, reciprocamente? Ardua risposta su un problema che trova conferme anche in questi periodi, quando si constata che il pubblico-folla-popolo non esprime spesso un giudizio sull’efficienza delle misure pubbliche o governative, ma sulla loro “sintonia emotiva” con la società. Anche perché, come osservato, le folle si sono animate e rigenerate per l’assenza di strutture di intermediazione come il partito politico o i sindacati (G. Segre, “Se la politica torna ad orientare la storia”, La Stampa 18.11.2025), “andando in strada” convinti che già il solo l’atto di trovarsi sia un segno di vitalità con cui riprendersi il destino. Forse esistono migliorie o anche solo medicine elementari per le attuali derive: utilizzare in modo accorto e non gladiatorio le parole per stimolare, governare e guidare la partecipazione. ricostruire la cultura della condivisione sulle scelte, impegnarsi a delineare punti di riferimento per il ritorno della politica a un ruolo reale, superando il suo attuale e triste declino.

In copertina fotografia di Owen Cannon.

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