Speciale

Gli ultimi raid giovanili tra politica, stadio e rete

11 Dicembre 2011

L’efficacia spettacolare della forma raid ed il dispositivo pedagogico che dispiega sono probabilmente gli aspetti vincenti che ne perpetuano la narrazione. Lotman svolge una calzante analisi del testo ad intreccio e dei suoi personaggi che può essere utile per capire la forza attrattiva del raid, tanto verso chi l’ha messo in atto nella realtà nelle guerre di tutti i tempi, tanto verso chi l’ha raccontato. Il testo a intreccio, scrive il semiologo russo, “è costruito su quello senza intreccio come sua negazione”. Mantiene cioè la divisione del mondo in due parti separate da una linea insuperabile per tutti i personaggi, ma ne introduce uno o più che possono infrangere il divieto. Tali personaggi mobili – Enea o Dante che scendono nel regno dei morti, Romeo e Giulietta che superano l’interdetto tra i rispettivi casati etc. – hanno facoltà di varcare il limite. “Il movimento dell’intreccio, cioè l’avvenimento”, per noi il raid, è appunto “il superamento del limite proibito dalla struttura senza intreccio” ad opera del personaggio eccezionale, cioè l’eroe. Lotman evidenzia inoltre che l’intreccio si presenta reversibile e presuppone, nella tipologia che ci interessa, il ritorno dal regno altro e complementare. Per il raid esso si identifica con il luogo del nemico, l’arena pericolosa in cui si gioca il confronto tra gli eroi che hanno “diritto ad un comportamento particolare (eroico, amorale, morale, strano, ma sempre libero dalle circostanze che sono ineluttabili per i personaggi immobili)” e gli ostacoli talvolta mortali da superare. L’azione impossibile e spettacolare, nella quale sono messe in campo tutte le qualità degli eroi, risulta per essi mezzo di conferma, esaltazione o mutazione iniziatica di sé, mentre per il pubblico che li segue, e a cui sono legati da diversi vincoli di immedesimazione (età, nazionalità etc.), trionfo mediato dei propri rappresentanti sul nemico.

 

Non stupisce quindi, a causa di tutti gli elementi ricordati, che siano soprattutto i giovani ad essere affascinati dal raid. In mancanza di una guerra vera e propria si sono avute così nel secondo cinquantennio del Novecento manifestazioni surrogate, quali la lotta armata o il tifo ultras, che hanno visto quantità consistenti di giovani in prima fila ad agire la forma-raid. Mentre nel Terzo Mondo dalla Cina al Vietnam, da Cuba all’Algeria divampa la guerriglia per la decolonizzazione, anche in Europa, dopo alcuni anni di stacco dalla resistenza partigiana, il protagonismo giovanile torna a confrontarsi con la forma iniziatica del raid. L’idea leninista della guerriglia civile, attuata nella rivoluzione d’ottobre e nella lotta contro l’invasione tedesca, passata poi in mano ai nuovi maestri Mao Tse-tung e Ho Chi Minh, tornava con rinnovato prestigio all’occidente. Anche in Europa i cortei in cui si mescolavano dapprima libertari, creativi e violenti vengono nel decennio dei settanta sempre più egemonizzati da questi ultimi. Al suicidio delle performances artistiche che illustreremo nei capitoli finali corrisponde l’aggressività della lotta politica da strada. Le manifestazioni si impadroniscono dei centri metropolitani e si frantumano in gruppetti che ingaggiano scontri con i reparti speciali della polizia. Gli agguati degli opposti schieramenti a colpi di spranga, chiave inglese o coltello operano il danneggiamento della sede nemica o anche dell’avversario stesso segnano il paesaggio urbano dell’Italia. Vengono teorizzate pratiche di raid di sottrazione quali l’esproprio proletario e, in certi casi, la rapina per autofinanziamento, di occupazione – l’università e la fabbrica – o viceversa di liberazione con attacco alle carceri. Dal magma dell’Autonomia o ai suoi margini si sviluppa, in un funebre crescendo, la lotta armata prima con i sequestri e poi con i raid per gambizzare o uccidere. Parallelamente altri gruppi partivano da luoghi nascosti per infliggere il danneggiamento a piazze, stazioni e treni. Del convulso moltiplicarsi e incrociarsi dei raid in un contesto di guerra civile resta l’immagine in bianco e nero della berlina di Aldo Moro massacrata sul ciglio di una strada anonima, in mezzo a due altre auto d’epoca. Proprio l’effetto di un raid dolorosamente ritratto privo di presenze umane riassume allora nel modo più efficace un’intera stagione storica.

 

 

Privati della spinta ideologica per compiere raid a sfondo politico le generazioni seguenti non hanno però affatto rinunciato a provarsi in quella forma pericolosa e inebriante. Bill Buford, giornalista e scrittore americano, ha seguito dall’interno per diversi anni le scorribande dei tifosi del Manchester in Inghilterra e in Europa. Si ritrovano facilmente nei suoi resoconti la sottrazione e il danneggiamento del campo avverso – la città della squadra ospitante – secondo le modalità del raid trasposte dalla guerriglia. Si comincia con incursioni isolate negli autogrill lungo la strada per lo stadio, per passare agli alberghi, finendo con l’aggressione organizzata agli avversari o a inermi cittadini.Il movimento è rapido, coordinato e alterna con astuzia violenza e mimetismo. A fronte dei recenti sviluppi della comunicazione prima televisiva e poi informatica, che caratterizzano l’ultimo ventennio del ventesimo secolo, gli scontri politici di piazza sbiadiscono come fotogrammi ingialliti (salvo improvvise quanto sporadiche riviviscenze) mentre quelli legati alle partite di calcio appaiono barbariche sopravvivenze. Infatti a parte i casi ricorrenti di violenza giovanile gratuita, subito etichettati dai media nella rubrica “Arancia meccanica”, la frontiera del raid si è progressivamente spostata, quanto a immaginario collettivo, all’interno della rete. Se l’hacker è “un incursore telematico, esperto nel violare i sistemi di sicurezza per stornarne cifre di denaro, carpire informazioni riservate, sabotare macchine e programmi, o anche solo per il gusto di stabilire dei record, realizzare performances tecnologiche fini a se stesse” (C. Formenti), allora siamo di fronte agli elementi classici del raid – sottrazione per varie finalità, danneggiamento, gruppo di elevate competenze tecniche, velocità – riconvertiti al territorio virtuale.

 

È certo che siano i giovani a possedere una più elevata alfabetizzazione informatica ed infatti la cultura hacker nasce negli anni cinquanta all’interno delle università con le prime incursioni non autorizzate nel sistema telefonico dei campus. I protagonisti sono soprattutto, come nei raid reali, elementi maschili perché l’informatica resta più centrale per scuole ed ambienti a prevalenza maschile che ne fanno un fattore di socializzazione primaria. La tipologia di hacker (o cracker secondo un termine che ne evidenzia maggiormente gli aspetti negativi da fuorilegge) va dall’internal, dipendente o ex dipendente di un’organizzazione o azienda che, a scopo di vendetta, attacca i sistemi conosciuti per lunga pratica, al coder che elabora un codice per danneggiare altri sistemi, dal cyberpunk che usa propri programmi per il defacciamento del web e lo spamming al vero e proprio professional criminal che fa spionaggio industriale o al cyber-terrorist che prende di mira governi o agenzie internazionali. Altre volte ancora vengono catturati giovanissimi piuttosto normali che interrogano i media e i sociologi – “pirati informatici disposti a tutto per qualche ora di celebrità? Autistici geniali? Adolescenti arrabbiati? Nerds disadattati?” (R. Chiesa) – e che spiegano le loro azioni con la noia della vita offline e una curiosità per le più varie pieghe della Rete trasformatasi in dipendenza compulsiva. Il piacere della sfida complicata e della violazione in cui si giocano tutte le proprie abilità tecnologiche, l’esibizionismo unito alla segretezza e il riconoscimento del gruppo gerarchico dei pari esperti in informatica paiono le genuine molle di questi giovani raiders del virtuale.

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