Anne-Karin Furunes: Shadows

25 Settembre 2014

Incontri

Shadows è una mostra composta da diversi elementi. Non ci sono solo gli artisti, i volti, le immagini ma anche un intreccio di spazi, tempi, luci e ombre.

Gli artisti si chiamano Anne-Karin Furunes e Mariano Fortuny y Madrazo.

Lei vive in Norvegia. Il suo studio, ricavato in un edifico che ospitava bambini malati di tubercolosi, si trova su un pendio che scende verso un fiordo. Funziona come una “camera lucida”, spiega l’artista, cattura “il volume di aria e di luce lungo il braccio del fiordo”, l’ideale per realizzare le sue opere perforate, soprattutto nelle giornate nuvolose.

 

Anne-Karin Furunes nel suo studio   

Anne-Karin Furunes nel suo studio

 

Mariano Fortuny non ha bisogno di presentazioni. È un eclettico: scenografo, architetto, pittore, stilista, nato nel 1871 e morto nel 1949. Anche lui nutre una forte passione per la luce: inventa un apparecchio ingegnoso, il “ciclorama emisferico” per riprodurre l’illusione di un cielo infinito nelle scenografie teatrali e una lampada, la famosa lampada Fortuny, che impiega la medesima tecnica di luce indiretta: un fascio luminoso viene proiettato su un emisfero o uno schermo.

 

Il loro incontro si compie a Palazzo Fortuny, la dimora-laboratorio dell’artista di origini spagnole, descritta da Furunes come una factory warholiana in una città italiana: Venezia, luogo sospeso fra luci e riflessi, che ha lasciato infinite tracce di sé anche sulla carta: ombra violacea nel Fuoco di Gabriele D’Annunzio, “camera oscura” e sacrario nel Carteggio Aspern di Henry James, riproduzione quasi fotografica nelle dettagliatissime descrizioni delle Pietre di Venezia di John Ruskin, una città astratta, scriveva Maurice Barrès, bella come un’idea.

Lì, fra le mura di Palazzo Pesaro degli Orfei, poi divenuto dimora di Fortuny ed ora museo, Anne-Karin Furunes apre l’archivio fotografico dell’artista spagnolo, sceglie una serie di immagini fotografiche da lui scattate, le rielabora e infine le espone nella sala al secondo piano.

Ma come lavora l’artista norvegese? Con la fotografia: va alla ricerca di immagini presenti negli archivi e le trasforma in immense tele perforate.

 

Spazio espositivo in cui è stata allestita la mostra Shadows di Anne-Karin FurunSpazio espositivo in cui è stata allestita la mostra Shadows di Anne-Karin Furunes a Palazzo Fortuny (Catalogo della mostra)

 

Se la parola “archivio”, scrive Aleida Assmann, deriva dal greco arché, e si muove ambiguamente nel campo semantico di “dominio”, “autorità”, “carica pubblica”, ma anche in quelli di “inizio” e “origine”, non è un caso che le prime opere di Furunes si basino su foto prese dal suo album di famiglia: mentre era ancora in lutto l’artista cercava di conferire maggiore presenza al volto della madre, aggiungendo alla sua immagine “uno schermo di luce”.

In seguito Furunes si interessa ad altri archivi: le foto dei soldati tedeschi che parteciparono all’occupazione della Norvegia nel 1940, le immagini delle donne che combatterono nella guerra civile finlandese durante la primavera del 1918, i volti degli gli ebrei norvegesi deportati nei giorni della Seconda Guerra Mondiale o quelli degli individui vittime di pratiche eugenetiche, alle cui storie essa conferisce nuova visibilità.

 

Fa la stessa cosa con l’archivio di Mariano Fortuny (fra cui si trovano oltre 10.000 stampe positive e circa 12.000 negativi tra lastre in vetro e pellicola): cerca di capire quali sono i motivi che spingono l’artista a fare fotografie e scopre che per lui era un modo per trovare l’ispirazione.

Immagini di portali di chiese e architetture, giacciono accanto a disegni di artisti come Leonardo da Vinci ed a collezioni giapponesi di katagami, ma anche a fotografie della natura, come per esempio una raccolta di immagini di nuvole o foto di papaveri, la cui tessitura del petalo ricorda quella della tunica Delphos, ottenute appoggiando i fiori direttamente sulla carta da sviluppo e illuminandoli con la stessa tecnica sperimentata da Man Ray.

In questo labirinto di immagini-sedimenti per certi aspetti simile a Mnemosyne – l’atlante della memoria e del pathos di Aby Warburg – ve ne sono alcune che la incuriosiscono.

Non raffigurano opere d’arte od oggetti inanimati, ma giovani donne senza nome. Chi sono? Quali sono le loro storie? Difficile rispondere. Ciò che Furunes scopre è che si tratta delle operaie e delle modelle che lavoravano nell’atelier di Fortuny e che l’artista fotografa durante la loro permanenza presso la sua dimora.

 

Mariano Fortuny y Madrazo, Ritratto femminile per studio pittorico, 1903, pellic Mariano Fortuny y Madrazo, Coppia di giovani donne, 1895 ca., lastra di vetro al

Mariano Fortuny y Madrazo. Ritratto femminile per studio pittorico, 1903, pellicola in celluloide, Museo Fortuny, Archivio fotografico (Catalogo della mostra) e Mariano Fortuny y Madrazo, Coppia di giovani donne, 1895 ca., lastra di vetro alla gelatina 9x12, Museo Fortuny, Archivio fotografico (Catalogo della mostra)

 

È così che nasce la mostra Shadows, da un’idea di autorialità malleabile, quasi una volontaria collaborazione postuma: le “ombre” di quei volti torneranno a farsi vive come monumentali ritratti nello spazio del museo, in bilico tra la bidimensionalità dell’immagine fotografica, la potenza materica della scultura e l’immaterialità del pixel.

 

Anne-Karin Furunes, Crystal Images VIII, 2013 (Archivio Fortuny, 1903), tela dipAnne-Karin Furunes, Crystal Images VIII, 2013 (Archivio Fortuny, 1903), tela dipinta e perforata, cm. 330x360 e Crystal Images III, 2013, (Archivio Fortuny, 1895 ca.), tela dipinta e perforata, cm. 200x400

 

Shadows: ombra, luce, memoria

Quali sono gli ingredienti sapientemente dosati dall’artista norvegese? La luce e la memoria. E gli strumenti che usa? Perforatori e martello per bucare le tele, una tecnica insolita, che sembra quasi obsoleta.

Infatti Furunes non riproduce ritratti fotografici ingranditi sulla tela attraverso una griglia di quadrati in cui sono dipinte forme astratte colorate dai contorni incerti, come fa Chuck Close, o attraverso gli ingrandimenti delle fotografie nei quali l’immagine si sgrana e viene duplicata su una matrice serigrafica per essere infine trasferita sulla tela, come nel caso di Alain Jacquet. E nemmeno mediante riproduzioni ottenute dai pixel fotografici dei file digitali a bassa risoluzione, a partire dai quali il fotografo tedesco Thomas Ruff ricostruisce volti giganteschi.

 

L’artista norvegese dapprima osserva le fotografie e dopo averle memorizzate le riproduce su grandi tele dipinte uniformemente di nero, grazie a migliaia di perforazioni da cui passano altrettanti fasci di luce, che illuminano o oscurano l’immagine e ne definiscono i tratti: “Sono seduta su una tela di circa cinque metri per quattro, la sua superficie, già pronta e verniciata, a faccia in giù sul linoleum” racconta Furunes in un’intervista, “devo decidere le dimensioni dei vari fori che sto praticando (…). Sei i fori sono troppo piccoli, non lasciano passare abbastanza luce da essere visti sullo sfondo nero”.

 

Anne-Karin Furunes nel suo studioAnne-Karin Furunes nel suo studio

 

Una pratica che include anche una dimensione artigianale, quasi scultorea, nella misura in cui l’immagine fotografica può essere considerata un manufatto: lo spazio viene “inciso”, “fissato” mediante l’azione della macchina. E Furunes con i suoi buchi-incisioni non fa altro che evidenziarne il substrato tecnico: i riflessi della luce, la grana dell’immagine, l’eventuale sfocatura o l’ingrandimento di un primo piano o di un dettaglio.

La particolarità del suo lavoro è che realizza le proprie opere tramite una sottrazione di materia – migliaia di fori – che consente la riproduzione delle fotografie grazie all’elemento fondamentale di cui sono composte: la luce, una “pelle” che avvolge l’artista, i soggetti raffigurati e lo spettatore, scrive Roland Barthes e un cordone ombelicale in grado di collegare il corpo della cosa fotografata allo sguardo di chi la osserva.

 

E se “fotografia”, in latino potrebbe dirsi “imago lucis opera expressa”, scrive sempre Barthes, ossia immagine “rivelata, tirata fuori, allestita, spremuta” dall’azione della luce, mai come attraverso le sue perforazioni, Furunes perpetua tale processo di irradiazione, perforando il buio e scrivendo non solo con la luce ma letteralmente “attraverso” di essa.

 

In questo modo si assiste a uno sdoppiamento percettivo: se da vicino si vedono le pareti reali attraverso i buchi vuoti e le componenti formali dell’immagine, la visione a distanza consente di riscostruire il volto raffigurato, grazie all’illusione prodotta dai cambiamenti di luce nei diversi momenti del giorno e dalla posizione dello spettatore nello spazio, che sembrano generare l’impressione della vita e del respiro che passa per la tela.

Il risultato è quello di avere innanzi ai propri occhi numerose ombre che si muovono nello spazio, una particolare forma di doppelgänger, impronta della memoria e garanzia contro l’oblio; ma anche una forma leggera come “brezza del nostro tempo” suggerisce Furunes, immateriale come la memoria o i pixel – così simili ai fori praticati dall’artista – che costituiscono la trama delle immagini digitali.

 

Forse si potrebbe dire con le parole di Fred Ritchin che si tratta di una variante di ciò che lui chiama “iperfotografia”, non tanto legata alla possibilità che le immagini digitali possano essere linkate, trasmesse o ricontestualizzate, come gli ipertesti, ma per un altro aspetto: l’intreccio di tempi.

Anziché un “momento decisivo”, afferma Ritchin, la fotografia digitale, con la sua griglia di pixel rielaborabili, “può riconoscere l’esistenza di un tempo più elastico, in cui futuro e passato si intrecciano e sono importanti quanto il presente”, proprio come accade alle opere di Furunes, in cui il passato dell’immagine fotografica analogica convive nel presente della rielaborazione operata dall’artista.

 

E ancora: cosa prediligono le opere di Furunes? Spostano l’attenzione verso la visualizzazione del fenotipo, ovvero sull’insieme delle caratteristiche morfologiche del soggetto raffigurato, in direzione di una ipotetica “verità somatica” (come nella fotografia analogica), o prediligono la focalizzazione sul genotipo, ovvero sul “patrimonio genetico” e quindi in questo caso sulla genesi dell’opera e sulla struttura dei dati, in attesa che qualcuno – autore, pubblico o macchina – li ricostruisca, (come nella fotografia digitale)?

Si rimane più colpiti dal risultato (i volti) o dal metodo di lavoro (i buchi)?

Resta il fatto che lo sguardo dello spettatore viene trafitto da una forma di oggettivazione estetizzante, che consente di fissare nella memoria la singolarità assoluta dei volti, più a fondo di ogni rappresentazione drammatica o astratta.

 

Volti

Per Anne-Karin Furunes i volti sono particolarmente interessanti. “Mi ha confessato che nelle grandi città può camminare per ore per le strade guardando i volti dei passanti: una fonte di fascino inesauribile”, scrive Maaretta Jaukkuri, “per lei i volti, e specialmente i volti femminili, evocano il mistero sempre aperto del momento critico in cui incontriamo un’altra persona”.

L’incontro a Palazzo Fortuny avviene nello stesso modo: qui l’artista non si trova innanzi i volti veri ma le immagini di quei volti, i loro doppi, considerati allo stesso tempo come kolossoí (“le lastre di pietra piantate nel suolo”, che sostituiscono i cadaveri assenti, descritte da Jean-Pierre Vernant) e ready-mades, punti di partenza per un’elaborazione successiva.

Furunes isola alcuni particolari, come le mani di due ragazze sedute vicine che si intrecciano in un istante di complicità, lo splendido ritratto di Giorgia Clementi e i diversi volti delle operaie, che svelano bellezza e armonia, con un profondo rispetto per le persone ritratte nelle foto.

 Mariano Fortuny y Madrazo, Operaia dell’atelier tessile, 1910 ca., lastra di ve Mariano Fortuny y Madrazo, Operaia dell’atelier tessile, 1910 ca., lastra di vetro alla gelatina 6x4, Museo Fortuny, Archivio fotografico (Catalogo della mostra)

 

In questo modo l’artista, rilegge in maniera originale la storia narrata da Plinio il Vecchio e considerata alle origini della pittura – una fanciulla di Corinto traccia su una parete il contorno dell’ombra del suo amato in procinto di partire per un lungo viaggio – scongiurando la scomparsa del soggetto, caratteristica saliente del ritratto, che permette una riattivazione della memoria contro l’oblio.

 

Anne-Karin Furunes, Dyptich: Crystal Images VII & VI, 2013 (Archivio Fortuny, 19Anne-Karin Furunes, Dyptich: Crystal Images VII & VI, 2013 (Archivio Fortuny, 1910 ca.), tela dipinta e perforata, cm. 200x200 + 200x200

 

Le sue immagini si chiamano “Crystal Images”, immagini-cristallo, e fanno riferimento alle parole di Henri Bergson, suggerisce Maaretta Jaukkuri. L’oggetto (in questo caso le tele perforate) ha due aspetti, uno reale e uno virtuale, come spiegherà anche Gilles Deleuze a proposito dell’immagine filmica: “… l’immagine cristallo, un punto di biforcazione e indiscernibilità tra reale e virtuale, tra il presente e il suo passato virtuale, contemporaneo ad esso”, proprio nel modo in cui avviene anche per le opere di Furunes, sospese tra presente attuale e passato virtuale.

 

Una forma di rappresentazione nel senso accrescitivo che Jean-Luc Nancy attribuisce alla parola re-praesentatio, poiché in essa “il prefisso re- non è ripetitivo ma intensivo”: una “presentazione” sottolineata, destinata a uno sguardo determinato.

Inoltre, scrive il filosofo, la parola “prende il suo primo senso dall’uso che se ne fa nel teatro (dove non ha niente a che vedere con il numero delle rappresentazioni, e dove, appunto, di distingue nettamente dalla “ripetizione”) e dal suo antico senso giuridico: produrre un documento, una prova o anche nel senso di “fare osservare, esporre con insistenza”.

 

Non è un caso che l’artista norvegese consideri Palazzo Fortuny come “teatro senza teatro”, spazio vitale che rinasce grazie a una nuova scenografia: ombre, luci e memorie si animano nell’esatto momento in cui lo spettatore vede le immagini dimenticate.

Nell’epoca della riproducibilità tecnica, la loro aura non appare affatto indebolita, lo sguardo dell’artista e dello spettatore la perpetuano: volti e vite vengono così trasfigurati, e in un certo senso, preservati dall’oblio.

Potere delle immagini, direbbe David Freedberg. E dello sguardo.

 

Mariano Fortuny y Madrazo, Ritratto di Giorgia Clementi, 1895 ca., lastra di vetMariano Fortuny y Madrazo, Ritratto di Giorgia Clementi, 1895 ca., lastra di vetro alla gelatina 18x24, Museo Fortuny, Archivio fotografico (Catalogo della mostra)

 

La mostra di Anne-Karin Furunes, il cui coordinamento organizzativo è stato curato dalla Galleria Traghetto di Venezia, è terminata il 14 luglio 2014.

Le sue opere sono presenti in importanti collezioni come The National Museum of Contemporary Art ad Oslo, The National Museum of China a Pechino e The Museum of Art and Design a New York.

Il catalogo della mostra è edito da Punto Marte Editore.

 

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