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La farfalla / C'era una volta una fontana

22 Aprile 2011

La farfalla

 

Quando tira il ghibli a Tripoli non c’è scampo, è vero, ma l’errore era stato uscire alle due di un pomeriggio d’agosto.

Laila camminava come un’ubriaca, a zig zag, per restare sempre all’ombra, da un balcone ad una palma, da una musharabia ad un portone, fermandosi a riprendere fiato sempre più spesso.

A tratti doveva tirare il barracano bianco che le si incollava addosso, le aderiva sulle testa, sulle guance, fra le gambe. Sotto gli occhi era macchiata di kajal e dietro, sulla nuca, di hennè. I bracciali ai polsi e alle caviglie non tintinnavano più, bollenti, scivolavano sulla pelle bagnata, su e giù ad ogni passo, lasciandovi segni neri.

I piedi roventi affondavano nell’asfalto molle e le scarpe ne rimanevano imbrigliate.

 

Laila si era fermata all’ombra lunga di una porta e guardava avanti verso la grande piazza priva di riparo che doveva attraversare: bianca di una luce abbagliante, tremolante per la calura, immensa per la stanchezza.

A metà della piazza Laila capì che non ce l’avrebbe fatta, sarebbe morta lì, l’avrebbero trovata, di notte, quando la gente sarebbe uscita a cercare un filo di aria.

 

Mentre le ginocchia si piegavano, fu colpita da un bagliore di là da un muretto e capì.

Raccolse tutte le sue forze avvicinandosi più in fretta che poteva.

 

Dietro al muretto, snella e lucida, con una farfalla sulla testa, sonnecchiava una piccola fontana. Laila girò la farfalla ed impazzì di gioia. Lasciò cadere il barracano, snodò il vestito, lo sfilò, tolse le scarpe e sciolse i capelli. Tanto, chiunque avesse visto una donna nuda in mezzo ad una piazza mentre raccoglieva a piene mani l’acqua fresca facendola scivolare sulla testa e su tutto il corpo, cantando e ballando dalla felicità, avrebbe pensato ad un’allucinazione da ghibli.

 

Fontana della gazzella, Tripoli.


 

C'era una volta una fontana

 

C’era una volta una fontana (e forse c’è ancora) a Cima di Sappada, proprio ai bordi della strada che s’inerpica fino alla sorgente del Piave. Si scorgeva, perfettamente inquadrata con il suo grande lavatoioin pietra, dalla finestra della casa presa in affitto, l’estate della maturità. Eravamo una decina di ragazzi, arrivati da Roma, a smaltire tensioni e a pianificare il viaggio in Nord Europa. Il viaggio della vita, in battello fra i fiordi e poi su, fino a Capo Nord.

 

Io che avevo spesso bisogno di isolarmi, avevo trovato, nel profondo davanzale di legno di quella finestra, la tana dove passare il tempo rannicchiata a leggere, mangiare e guardare fuori.

E così vedevo gli escursionisti scendere lungo il sentiero del Piave, accelerare il passo scorgendo la fontana, buttare borse e giacche, mettere la testa sotto l’acqua e ridere contenti. Fontana di allegria.

Scrutavo gruppi di bambini che ci facevano galleggiare improbabili bastimenti e riempivano contenitori da usare come armi in una laboriosa guerra. Fontana di gioco.

E cagnolini, gattini e uccellini che si fermavano il tempo di bere correndo via, volando via, gocciolando. Fontana di fresco.

 

Una sera argentata arrivò un ragazzo. Posò lo zaino, si tolse la camicia e si lavò. La luna filtrava tra i capelli lunghi fino alle spalle. Asciugandosi alzò la testa e mi salutò. Non conosco Capo Nord. Fontana d’amore.

 

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