Una Biennale di Architettura: per chi e perché?

25 Settembre 2012

Ciò che l’architetto inglese David Chippefield, direttore della XIII Biennale di Architettura di Venezia, intende mettere in scena fino al 25 novembre 2012 è il terreno d’intesa della comunità architettonica mondiale, e oggi innegabilmente mondializzata. Giocando con il doppio senso del titolo Common Ground, Chipperfield vuol anche ricordare che ogni architettura parte da un ancoraggio al suolo e, volendo credere allo stile architettonico da lui preconizzato, da un certo realismo terraterra, ovvero minimal. Ma che ruolo deve recitare una Biennale di Architettura, e qual è la vera portata dell’edizione 2012?

 

Per la sua XIII edizione, la Biennale propone un’esposizione più “architettonica” delle due edizioni precedenti. Tuttavia, se alcuni interessanti interventi spiccano, come sempre, è la complessiva mancanza di sorprese che sembra aver deluso alcuni. Per l’esposizione tematica, che si divide tra gli spazi dell’Arsenale e il padiglione centrale (ex padiglione Italia) dei Giardini, Chipperfield ha chiesto agli architetti di situare il loro lavoro all’interno di un mondo di influenze e di reti di collaborazioni professionali. Così, ogni architetto invitato è stato chiamato a collaborare con altri, dando luogo a una specie di “grande famiglia” che si conosce fin troppo bene. In effetti, ci si può chiedere perché Zaha Hadid fa ancora parte del lotto anche se non ha niente di particolarmente interessante da mostrare. O ancora, perché esiste una così grande quantità di architetti inglesi tra gli espositori di quest’anno: Zaha Hadid, ma anche Norman Foster, Justin McGuirk, Alison Crawshaw, Steve Parnell, FAT, Sergison Bates, Caruso St John, Muf, ecc. In questo modo, l’insidioso sistema a tela di ragno messa in piedi da Chipperfield e dalla sua equipe dà luogo a scelte in certi casi incongrue: nonostante siano giovani, intelligenti, sorprendenti e dinamici, come spiegare che i membri del collettivo italiano San Rocco si trovino non una, ma due volte nello spazio dell’Arsenale?

 

Tra gli espositori dell’Arsenale e del padiglione centrale dei Giardini vi sono certo trovate graziose: Bernard Tschumi con un remake degli Advertisements for Architecture prodotto negli anni 1970, il Museum of Copying del gruppo FAT e dei loro amici, l’installazione intitolata Collaborations di San Rocco, Public Works: Architecture by Civil Servants di OMA, Pasticcio di Caruso St John e, in una vena più accademica, Architecture Magazines: Playgrounds and Battle Grounds dello storico Steve Parnell.

 

La delusione maggiore quest’anno viene senza dubbio dalle scelte nazionali. Anche qui, nessuna sorpresa. Ogni volta, alla Biennale, sono molti i paesi che non hanno centrato l’obiettivo: troppo pieno, troppo vuoto, troppo concettuale o non abbastanza, mal eseguito, o incomprensibile. Tuttavia di solito ci sono due o tre scoperte che il passaparola divulga già a partire dai numerosi cocktail dei giorni di inaugurazione: “Hai visto il padiglione della...? E quello della...?”. Niente di tutto ciò, quest’anno. Niente che si distingua veramente.

 

Ora che la Biennale è aperta da qualche giorno e la polvere si è posata, si può provare ad analizzare cosa ne hanno detto i critici. Nessun consenso, come al solito. Alcuni giudizi sono negativi: un’“opportunità mancata”, secondo Mikhael Kimmelmann del New York Times; un’esposizione “esclusiva e rivolta verso le glorie del passato”, secondo Christopher Hawthorne del Times. Altri propendono per un tono più neutro: “pepite e motivi di ottimismo in pari misura delle ragioni di inquietarsi sul futuro”, scrive Frédéric Edelmann su Le Monde, mentre Manuel Orazi su Il Foglio qualifica l’esposizione come uno “strepitoso fritto misto”. Solo gli inglesi sono concordi. Tutti lodano Chipperfield: Rowan Moore, su The Guardian, afferma che l’esposizione “denota una coerenza tristemente assente da certe edizioni precedenti”, mentre Ellis Woodman, su The Telegraph, parla di una “mirabile esposizione” che offre “uno sguardo raffinato sulla realtà dell’architettura in tempi di austerità”.

 

Comunicare l’architettura con il medium dell’esposizione non è un compito facile. Ancor meno alla Biennale, dove il visitatore è incalzato da una massa di informazioni che oltrepassano ampiamente la sua capacità quotidiana di assorbimento. Come realizzare quindi una Biennale che sia apprezzata al tempo stesso dagli specialisti e dai neofiti? Nel corso degli ultimi anni si sono osservate diverse tendenze. Nel 2002 con Next del commissario Deyan Sudjic, come nel 2004 con Metamorph, curata da Kurt W. Forster, l’aria dominante era quella del pragmatismo: un’abbondanza di maquettes e di piani che presentavano una collezione dei più recenti progetti costruiti o in via di costruzione ai quattro angoli del pianeta. Polvere negli occhi, roba tipo “ma hai visto?”, insomma esposizioni che lasciavano credere che l’industria della costruzione marciava alla grande.

 

Altro fatto interessante: a quell’epoca c’era la tendenza ad affidare la direzione della Biennale a critici piuttosto che ad architetti praticanti. Nel 2006, per l’ennesima volta, la Biennale fece ricorso a un critico, o meglio, a un professore. Ricky Burdett presentava Cities, Architecture and Society, un’esposizione con un tema reale legato alle poste in gioco nella nostra società contemporanea, ma troppo “sociologica”, secondo alcuni. Il 2008 e il 2010 furono il regno dell’installazione. Tanto Aaron Betsky (Out There : Architecture Beyond Buildings) che Kazuyo Sejima (People Meet in Architecture) ci offrirono alcuni begli oggetti che tuttavia non corrispondevano a nessun tema effettivo, ma testimoniavano piuttosto della propensione della Biennale di Architettura a volersi avvicinare a forme di rappresentazioni proprie della Biennale d’Arte. Con titoli che volevano dire tutto e niente, né Betsky né Seima hanno saputo sollevare vere questioni.

 

Ma a cosa deve servire un evento come la Biennale di Architettura di Venezia? E a chi deve essere destinata? Nel 1895 la prima esposizione internazionale di arte della città di Venezia era stata organizzata per rispondere a tre imperativi: promuovere il turismo e ridare una seconda vita ai giardini pubblici napoleonici; favorire la costruzione di un’arte nazionale italiana; e infine, servire scopi di pubblicità e di vendita (dato che la Biennale aveva, fino al 1968, un ufficio di vendita dove si potevano acquistare le opere esposte). Oggi sembra che la Biennale di Architettura, come la Biennale d’Arte, non sia diventata niente di più che un immenso spettacolo. E questo è ancor più vero nei giorni di apertura, in cui ognuno vuole vedere ma anche, e soprattutto, essere visto. Più ancora, sembra che l’inaugurazione della Biennale di Architettura si apparenti viepiù con una fiera per gli “happy few”. E in effetti, un gran numero di rappresentanti del mondo dell’architettura, di editori, collezionisti o commissari di esposizioni, non vengono tanto per vedere l’esposizione, quanto per intrecciare una sfilza di appuntamenti con i grandi architetti del mondo, riuniti per quarantott’ore in un solo e piccolo angolo del pianeta.

 

È stato il Padiglione Giapponese, con Architecture Possible Here? Home-for-All, un’esposizione che presenta soluzioni per alloggiare le vittime dello tsunami, ad aver vinto quest’anno il Leone d’oro per la miglior partecipazione nazionale. La popolarissima installazione del gruppo Urban Think Thank con Iwan Baan e Justin McGuirk hanno ottenuto il Leone per il miglior partecipante all’esposizione principale. Quanto al Leone d’oro alla carriera, è andato all’architetto portoghese Àlvaro Siza Vieira. Questi premi ben riassumono l’impressione generale che promana dalla XIII Biennale di Architettura di Venezia: una propensione per i progetti che comportano un impegno sociale, un ritorno verso una spazialità semplice, sottolineata da una materialità bruta. Il tutto spruzzato di un velo di nostalgia postmoderna.

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