Identità Fabbrica Europa

La Storia è una garza per ferite che non si rimarginano. Tutti gli uomini hanno la testa fasciata nel III atto de Il Gabbiano del Teatro Nazionale Serbo di Novi Sad, per la prima volta in Italia, alla Stazione Leopolda di Firenze, grazie al Festival Fabbrica Europa che quest’anno ha dedicato quattro spettacoli al Teatro dei Balcani. Kostja si è sparato: ha fatto fuoco sul suo talento incompiuto e le fiamme hanno toccato anche Sòrin, Trigòrin, Dorn e Medvèdenko. Se non è riuscito a uccidersi, li ha messi però con le spalle al muro del proprio ruolo. Fermi immobili, seduti in fila di fronte al pubblico, parlano solo per bocca delle loro voci registrate, della ragione di (ciò che è) stato, del precipitare degli eventi. Le donne, Arkàdina, Nina, Polina e Mascia, amiche, mogli, amanti, “madripatrie”, li stringono forte al seno di fiele e compassione. È successo tutto, ma non possono fare niente, quindi succederà di nuovo. Kostja come Gavrilo Princip che cento anni fa, a Sarajevo, innescò con la sua pistola la Prima Guerra Mondiale e l’insaziabile resa dei conti nella polveriera Europa.

 

Ph. Ilaria Costanzo

1. Il regista Tomi Janežič arriva a questo culmine di degrado e bellezza, di cattiveria e umanità, dopo due atti e quattro ore (su sette totali) in cui ha aperto il testo di Čechov usando come leva se stesso in scena e le sue domande maieutiche agli attori. Il tempo è ricerca della realtà, il primo bacio tra Nina e Kostja diventa reale nella lunghezza delle labbra attaccate, che restano e continuano mentre Il Gabbiano prosegue per il suo copione, tradotto in cuffia simultaneamente dal serbo. La lingua è distante e la corsa affannata della traduttrice dietro le invenzioni degli interpreti fa perdere ritmo e controllo. Paradossalmente, questo scarto di incomprensione esalta la relazione con il pubblico, cercata con attenzione e precisione dal Teatro Nazionale Serbo di Novi Sad: riempire, colmare il distacco dalla verità sul palco con la propria giù da esso, parziale, personale, viva. La nostra e quella del cast su cui Janežič ha modulato un Gabbiano a impatto no limits. “Questo è teatro” – dice uno spettatore. Tutti siamo teatro, loro sulle loro sedie, noi sulle nostre, che nel I e II atto abbracciano il rettangolo di scena, gli attori non indossano costumi, ma vestiti come noi, magari li avevano prima di venire alla Stazione Leopolda e li avranno dopo: palco e platea coincidono, qui è anche fuori.

 

ph. Ilaria Costanzo

2. I personaggi, allora, sono direzioni scritte per tornare ognuno dentro di sé, nei panni di tutti i giorni, come in Maledetto sia il traditore della sua patria! dello Slovensko Mladinsko Gledališce di Ljubljana (Slovenia), secondo spettacolo del focus sui Balcani di Fabbrica Europa, in prima nazionale al Teatro Cantiere Florida di Firenze. Un gruppo di attori mette in scena le proprie divisioni, l’impossibilità di fare uno spettacolo insieme e la guerra nella ex Jugoslavia precipita nell’orizzonte del dicibile.


Dunque, sia per Janežič che per Oliver Frljic, regista di Maledetto sia…, la rappresentazione è necessaria a far uscire dalle labbra i fatti che non riusciamo a capire, gli scontri che non vogliamo affrontare: pagare un biglietto è un’assunzione di responsabilità, a teatro si va per pensare, e gli attori di Frljic ce lo ricordano fin troppo offendendoci nei modi più coloriti e sconci.

 

La bandiera è ancora una pistola che affumica una pace fatta per finta. Maledetto sia… spara a intervalli quasi regolari e i corpi morti, speculazione grottesca sulla banalità del male, tornano in vita con la stessa facilità con cui il regista Janežič rompe una sedia alla fine del I atto de Il Gabbiano. “L’attore lo fa solo chi è scelto, se non sei scelto non vali niente”. Sei una sedia rotta e i pezzi restano lì, recintati con nastro di carta bianco, luogo del delitto del talento sprecato.

3. In scena, quindi, si muovono parti in cerca di un personaggio. Una fuga nel ruolo che Aksentij Ivanovic Popriscin, protagonista del Diario di un pazzo di Gogol', regia di Felix Alexa, scrive con gessetto appuntito sulla lavagna del desiderio. Lo spettacolo rumeno, il terzo del ciclo balcanico, è un monologo-concerto che scava il disumano di una società che rigetta chi non la capisce e cerca di darle colori oltre il grigio. Marius Manole, scattante, pronto, occhi spalancati e pieni, è l’impiegato Popriscin, mentre il compositore e virtuoso del violino Alexander Balanescu suona con violenza il mondo di dentro che non ha voce. Quando Popriscin esce dal calendario, dalle ore sempre uguali, ugualmente complici e vittime, ed entra nel “giorno senza data”, prende aria alla testa, così tanta che le rotelle del cervello fanno la ruggine.

4. Arriva il momento in cui le parole riempiono tutto, si parla per sentirsi vivi, ancora umani. Poi, anche quelle non bastano più e non resta che cantare per scongiurare la fine. Cantare è parlare due volte, è farlo capire dappertutto, con tutto il corpo. Nel IV e finale atto de Il Gabbiano Arkàdina canta a Kostja Non credere di Mina. “Tu per lei sei un giocattolo / il capriccio di un attimo / e per me sei la vita”. È l’ultima opportunità, dal toccante sincretismo pop, che Tomi Janežič offre a una madre per strappare il figlio al peccato di non piacere, per togliere la sua vocazione dal buio delle opportunità tradite.

 

ph. Ilaria Costanzo

5. Un’altra madre, un altro “figlio”, Carla e Helver, ne La notte di Helver, regia di Dino Mustafic. Lo spettacolo di Kamerni Teatar '55 (Bosnia), ultimo dei quattro dedicati da Fabbrica Europa al Teatro dei Balcani, è un atto civile contro la dittatura delle foll(i)e totalitarie. Del resto, Kamerni Teatar '55 andava in scena durante l’assedio di Sarajevo, tra il 1992 e il 1995, come forma di “resistenza culturale all’aggressione e alla barbarie”. La salvezza è una pillola mortale che Mirjana Karanovic, attrice di molti film di Kusturica, fa inghiottire a Ermin Bravo. Carla dona un’altra opportunità a Helver, lo risparmia dalle sevizie naziste di un Paese che vuole liberarsi della “lurida feccia” dei disabili come lui, perché il sogno di una vita insieme è l’unico che può farli addormentare serenamente; Arkàdina, invece, fallisce, non riesce a salvare Kostja, perché l’esistenza che li unisce non è altro che morte per lui.


Il giovane si spara di nuovo e questa volta fa centro. L’ultima scena de Il Gabbiano è un cimitero dei sogni irrealizzati, la pista di atterraggio dei vuoti dell’ambizione tradita: un lumino acceso sta sopra ogni sedia. Poteva esserci chiunque al suo posto e a quello degli altri, la vita è comunque un invito al proprio funerale. E invece noi siamo qui ad applaudire. Perché lui sì e io no? Togliere quel maledetto punto interrogativo è il lascito più doloroso de Il Gabbiano del Teatro Nazionale Serbo di Novi Sad e di tutta la rassegna dedicata ai Balcani.
(Matteo Brighenti)

Danza

1. Molto ricco (e intelligente) il programma di danza, dove fili tesi alla ricerca delle vie dell’identità si dipanano in modo meno esplicito che nel focus sui Balcani, ma ugualmente lancinante. Tra vari spettacoli italiani e la riproposta di un “classico” della danza destrutturata come Self Unfinished di Xavier Le Roy, spiccano i lavori di due regine della scena internazionale, che fanno rinascere il solito rammarico: perché i festival non fanno in modo di far girare in Italia, almeno un po’, gli spettacoli che selezionano?


In Violet l’americana Meg Stuart, da tempo attiva tra Berlino e Bruxelles con la sua compagnia Damaged Goods, abbandona la ricerca metacoreografica, la contaminazione, l’esplorazione di territori di confine tra arti e tra media per lanciarsi in una coreografia scandita da musica prodotta con il computer e con le percussioni di una batteria. Fruscio, esplorazione sonora, creazione di un ambiente per un movimento controllato, che all’improvviso diventa pulsazione trascinante nella trance. I ballerini all’inizio sembrano immobili. Mettono lentamente, quasi impercettibilmente, le mani in movimento vibratorio, rotatorio, poi le braccia, poi i busti, fino a evocare delle specie di automi, banderuole umane mosse da venti sottili o impetuosi, da suoni.

 

ph. Tine Declerk

 

Dalle posizioni iniziali slittano, per scatti o per lievi spostamenti, in altri punti del palcoscenico, fino a tornare a momenti di stasi ed esplodere, tra i colori, con luminescenze da arcobaleno sul fondale nero, in una trance che è accumulo di corpi al centro del palco, poi mucchio, catasta, un cimitero sotto il sole e le stelle, da cui i corpi torneranno di nuovo verso la posizione eretta, ognuno verso il proprio sito, verso l’immobilità inziale.
La percezione si acuisce nella ripetizione, nei vuoti, nelle micro-variazioni, nell’attesa che accada qualcosa. L’emozione si scatena e si blocca. La semiologia, la prossemica, l’ideografia diventano smaccatamente coreografia, che sembra presto pentirsi della libertà conquistata e crearsi nuove occasioni di limitazione, di blocco, di destrutturazione. Spettacolo avvolgente, con qualcosa di estenuante, gioca sull’attesa e sulle sue assenze, a volte insopportabili. Le fa deflagrare, descrivendo per accelerazioni e pause un paesaggio del quale ci sentiamo spettatori concentrati e distanti, un po’ annoiati: ci precipita là dentro, ci affascina e di nuovo ci distanzia, suggerendoci l’obbligo di dare tempo al nostro sguardo, al nostro bisogno di consumare.

 



2. Singspiele di Maguy Marin è un capolavoro che all’inizio sembra volerti irretire in una rete semiologica, dimostrativa. Un attore/performer, David Mambouch, dà corpo e movenze a diversi personaggi, volti dettagliati in una folla evocata da un brusio di fondo fatto di rumori di strade, di chiacchiericcio smorzato, di sottili inquietanti echi metropolitani. Il suo corpo cambia continuamente, aggiungendo o togliendo elementi di costume, un paio di pantaloni, una giacca, una camicia, un foulard, un cappello, una veste femminile… Ma intanto si trasforma anche il suo volto: l’attore è mascherato con ritratti fotografici che sfoglia mutando personaggio, con l’aiuto delle scarpe, di vestagliette, di pantaloncini, con piccoli movimenti e trasformazioni di posture.

 

ph. Benjamin Lebreton


Sfilano facce anonime, caratterizzate dall’età, dal sesso, da uno sguardo, dalla foggia di una pettinatura: giovani, vecchi, ragazze, bambine… Fino a che non riconosci personaggi famosi, e allora il fascino di questa folla creata per piccole variazioni gestuali, per atteggiamenti minimi, diventa gioco dei riconoscimenti e proiezione in icone. La Falconetti, interprete della Passione di Giovanna d’Arco di Dreyer, Churchill, Sarah Bernhardt, forse gli occhi di calamita dell’attore Charles Dullin, Tilda Swinton, Bette Davis giovane, Lindsay Kemp, la Betancourt, Stan Laurel, un personaggio in kimono… Una moltitudine e un Singspiel, molti Singspiele, genere tedesco che unisce cose differenti, il canto e la recitazione, la semplicità della musica popolare, il virtuosismo canoro, la raffinatezza sinfonica.


Il potere, il fascino rappresentativo della fotografia e la sua immobilità reagiscono in modo alchemico con movimenti che donano vita per piccoli spostamenti, per infinitesimali dettagli. L’immagine acquista tridimensionalità e vita; il movimento è risucchiato nella piatta infinita immobilità del sembiante. L’uomo diventa donna, poi bambino o bambina, e viceversa, di nuovo.

 

ph. Maguy Marin


Ogni tanto l’attore si riposa. Si accascia, spogliato dei costumi, con una retina che gli tiene i capelli. Solitudine, abbandono in pubblico, dopo quel rutilare di facce, di tipi umani. Si sente il respiro. Si vede la fatica delle metamorfosi. Poi prende un altro blocco di ritratti e si ricopre il volto. Forse lo tiene stringendo un perno con i denti. Si sposta, così mascherato, cercando di non far mai vedere pezzi del suo volto, dei suoi capelli. Si trasforma e allude.


Rievoca la storia di due secoli, volti ottocenteschi e novecenteschi, noti e anonimi, voci, corpi della folla e del sistema dei media. Ogni tanto un’ulteriore rottura: una faccia la imbratta, la scempia, la cancella con tratti di colore espressionisti. Tra le fotografie appare una maschera rossa di diavolo. Dopo un’altra sfilata di pseudo realtà, come un sasso ci colpisce un volto immobile di bambola. Infine, dopo un ritratto femminile che assomiglia fortemente alla famosa coreografa da giovane (o almeno così ci sembra, nell’ubriacatura del gioco dei riconoscimenti), a quella Maguy Marin che ha dato movimento corporeo a miti della letteratura come Beckett con il suo famoso May B, esplode un volto senza bocca, con le orbite degli occhi vuote. Sembra che urli, dopo questa sfilata di tipi, di ritratti, di umanità stereotipe che aspirano all’unicità, di immagini fissate che vivono di sottili spasimi, di respiri di movimenti dell’attore, come un medium esploratore di fantasmi attraverso i volti di due secoli. Uno spettacolo indimenticabile.

 

(Massimo Marino)

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