La falena dell’Acheronte

8 Giugno 2011

Ad interessarmi, in quei primi anni, erano quasi solo le farfalle, intendo, le farfalle diurne, quelle che in gergo tecnico si chiamano “ropaloceri”, ovvero “antenne a clava”, essendo questa la caratteristica-chiave che le contraddistingue dalle farfalle notturne, le falene, quelle che hanno antenne di varia forma: filiformi, piumose, a pettine, e così via.

 

Erano solo le farfalle diurne, dicevo, quelle che mi ossessionavano quando uscivo con il mio retino a caccia: multicolori, bellissime, eleganti, furtive, astute, leggere, veloci. Ma attenzione, lettore: il mondo delle farfalle sensu lato comprende anche la ben più abbondante categoria delle falene che sono 10 volte più numerose delle farfalle.

Al mondo vi sono quasi 170.000 specie di farfalle, ed il 90% di esse sono falene. In Europa, ad esempio, abbiamo meno di 500 specie di farfalle diurne su di un totale di 5000. Ma l’interesse per le falene era davvero minimo nei primi anni di ricerche ed esplorazioni per i prati ed i boschi del Biellese. Infatti, questi esseri sono spesso grigiastri, bruni, smorti, monotoni, scuri, pelosi, dal grande corpo e dall’addome vistoso quasi ripugnante. Si esita nel toccarle per paura di chissà cosa. Alcune addirittura inducono repulsione, tanto sono grossolane, grandi e allarmanti.

 

Da ragazzini si guardavano sempre con apprensione: magari occorrerebbe catturarne un po’ e studiarle di più, pensavo, ma sono così brutte e sgradevoli con quelle ali dai colori morti ed opachi disposte a tetto sull’addome peloso, lì ferme sui muri al mattino dopo aver svolazzato come matte per tutta la notte intorno ad un lampione di una fabbrica di Vallemosso. E all’interno delle finestre delle vecchie fabbriche tessili biellesi se ne trovavano a chili in certi periodi favorevoli dell’anno, molte già rinsecchite dal calore e dal sole, dopo essere morte nel disperato tentativo di fuggire all’esterno. Ricordo che si trovavano anche decine di ali spezzate, forse resti dei pasti dei ragni che si gustavano le parti migliori della falena catturata nella loro rete vischiosa. Ricordo che spesso erano le ali dal colore giallo-scuro e nero di Noctua pronuba, ma una volta trovai anche quelle arancioni scuro con grande ocello blu al centro e, in mezzo a questo, la bianca “tau”. Erano le ali della stupenda Aglia tau, una falena coloratissima che avrei osservato viva solo molti decenni dopo sui monti della Marchetta, a 1600 metri, mentre volava all’impazzata tra le prime fresche foglie degli ontani e dei faggi in primavera.

 

Malgrado, dunque, la scarsa popolarità delle falene, assai meno attraenti delle farfalle diurne e certo non gradite alla gente comune che si sofferma invece con stupore di fronte alle traiettorie nette e colorate del volo delle vanesse o di un macaone, si tratta di insetti di enorme interesse, differenti, originali, capaci di volare tutto l’anno, comprese le gelide nottate invernali e fino ad altezze elevatissime, 3000 metri ed oltre.

 

Tra tutte le falene, ve ne è una che per prima davvero mi colpì lasciandomi esterrefatto dopo un incontro stupefacente che rimane vivo nella mia memoria. Avrò avuto circa 8 anni. Come ogni anno, mi godevo gli ultimi giorni estivi al paesino di Miagliano e, come sempre, me ne stavo con mio nonno Battista a passeggio all’aperto ad ascoltare, da me stimolati, i suoi ricordi di trincea sulle alture carsiche a ridosso di Trieste: l’amico migliore morto al suo fianco all’ingresso di una cavità carsica a causa di una granata austro-ungarica che gli scoppiò in faccia, o l’austriaco che si arrese al suo Settimo Reggimento venendo dalla prima linea nemica a braccia alzate per farsi prendere. La Guerra, pensavo, deve essere cosa tremenda e ne avevo paura. Altro che farfalle. Mio nonno tollerava benevolmente le mie manie per questi insetti, ma mi chiedeva spesso, spinto dallo spirito pragmatico di colui che aveva superato due guerre mondiali, perdendo il figlio nella seconda di esse ed odiando a morte il fascismo e ciò che questo aveva significato per la sua Italia e la sua vita, che cosa ci avrei guadagnato da un mestiere come quello di raccoglitore di insetti: “studia altro nella vita”, concludeva ironicamente.

Lo avrebbe fatto sino alla fine dei suoi giorni sapendo che io avrei speso ore ed ore dietro alle mie farfalle anche da giovinotto, ma non senza avermi accontentato e portato a passeggio per i prati e i boschi di Miagliano.

 

Fu durante il rientro da una di queste lunghe passeggiate che mi imbattei in una visione che ancora oggi mi affascina ed allarma al tempo stesso scuotendomi dalla testa ai piedi quando si ripete. Lei, la temuta “Sfinge testa di morto” se ne stava a circa mezzo metro da terra, appiccicata al muro delle cosiddette “Case Nuove”, a quei tempi quasi decrepite case popolari a schiera, costruite mezzo secolo prima dagli industriali locali per dare alloggio agli operai del lanificio per il quale Miagliano era divenuto un centro importante di immigrazione di lavoratori da ogni parte di Italia per buona parte del ‘900, o almeno sinché l’industria tessile proliferò in questo angolo d’Italia. Non mi ci volle nulla per riconoscerla, con quel teschio umanoide ben definito sul torace, un simbolo tenebroso, spaventoso che avevo già visto nelle illustrazioni di libri di animali per bambini, un simbolo che sapeva di presagio infausto e che la diceria popolare associava a chissà quali sventure.

 

 

Il vero nome scientifico della Sfinge Testa di Morto è infatti Acherontia atropos, nome che ti riempie la bocca e che suona da marcia funebre quando ne capisci il significato che Linneo, il grande naturalista svedese ideatore della nomenclatura binomia per ogni specie vivente, volle attribuirle. Nella mitologia greca, Acheronte è il fiume infernale, del dolore. E chi conosce il Canto III dell’Inferno della Divina Commedia, ricorda certamente i passi relativi all’apparizione spaventosa sull’Acheronte della barca condotta dal “vecchio, bianco per antico pelo” Caronte che, dapprima, si rivolge funesto alle anime in attesa di essere traghettate sull’altra riva del fiume infernale: “Guai a voi, anime prave! Non isperate mai veder lo cielo: i’ vegno per menarvi a l’altra riva ne le tenebre etterne, in caldo e ‘n gelo”. Poi, dopo essersi rivolto a Dante, unica anima vivente in quell’antro di Inferno, “Caron dimonio, con occhi di bragia” è acquietato da Virgilio: “Quinci fuor quete le lanose gote al nocchier de la livida palude, che ‘ntorno a li occhi avea di fiamme rote”. Tanto basti per il cognome “Acherontia” attribuito alla falena infernale, ma quell’altro nome “atropos”? Ahimé, qui c’è da star peggio. Il funereo nome proviene da quello di una delle tre Parche, le vecchie dame guardiane dell’Ade, quella più temibile, quella che, inevitabilmente, inesorabilmente e nella totale indifferenza, recide con taglienti cesoie il filo della vita.

 

Tutto questo po’ po’ di mitologia si porta addosso la nostra falena temibile e terribile. E dire che si tratta di un insetto dalle dolci abitudini che ama da morire il miele delle api. Da morire davvero: infatti può anche lasciarci la vita dentro gli alveari se non è più che accorta a non farsi soprendere a pancia piena ed ubriaca di miele dall’esercito delle operaie. Grazie alla sua spirotromba robusta e breve con la quale, nottetempo, succhia avidamente le cellette gustandosi il dolce liquido appiccicoso, riesce a nutrirsi in modo inusuale per una falena; ed inusuale, se non unico, è la capacità di emettere un suono stridulo, violento, grazie alla sua faringe e una piccola laminetta al suo ingresso che vibra quando la falena, disturbata, espelle aria in modo brusco attraverso la spirotromba. Cose davvero strane nel mondo delle farfalle. D’altronde, tutto è strano in questa sfinge, compreso quel teschio allarmante e così realistico da parere disegnato apposta da un demone per spaventare la povera gente.

 

Ebbene, dicevo, eccola lì davanti a me. Che fare? Mio nonno mi disse di non toccarla con le mani ma di cercare di catturarla usando un fazzoletto per proteggermi. Cercai di farlo, mi avventai con una certa veemenza sulla grande bestia, avvertii le unghie delle robuste zampe che mi graffiavano le dita, e, un istante dopo, la falena mi sfuggì dal fazzoletto emettendo quel grido che non avevo mai sentito prima e che aumentò di colpo i miei battiti cardiaci. Volando all’impazzata per 30 o 40 metri la Testa di Morto raggiunse l’edificio che stava di fronte alla “Case Nuove”, ovvero la parete del lanificio, e qui finì con il posarsi a 5-6 metri dal suolo, su in alto, sotto alla grondaia. Mio nonno non si diede per vinto e di gran passo raggiunse la casa dell’amico pescatore, sita a poche decine di metri, e lo costrinse ad uscire con una canna lunghissima. Ora eravamo in tre a caccia: la canna fece il suo lavoro e stuzzicò la falena che cadde pesantemente a terra e si accasciò sull’asfalto stordita. Grazie ad una scatola di scarpe, che funse da gabbia improvvisata, la Testa di Morto era infine ottenuta. La gioia era immensa, sebbene mista all’apprensione per una bestia così grande e così funerea. Finì nella mia piccola collezione occupando metà della teca, tanto grande era quella femmina.

 

La mia seconda Testa di Morto fu catturata un anno dopo, questa volta posata su una finestra di un lanificio di Vallemosso, nel bel mezzo di una gradinata che saliva tra le fabbriche. Ora avevo una certa esperienza e lo stridulo urlare della falena non mi impressionava più. Con l’aiuto del solito fazzoletto (il senso di paura non era ancora vinto del tutto e, confesso, forse non lo sarà mai) la imprigionai tra le mani e corsi su per la scalinata sino a raggiungere un giardino dove l’amico Piscopo, l’entomofilo, stava inseguendo vanesse che suggevano i liquidi dolciastri delle prugne mature o anche decisamente marce sotto all’albero. Urlando di avere tra le mani la Testa di Morto lo chiamai a squarciagola. Piscopo salì a balzi agili la scaletta che conduceva al giardino e io gli consegnai, con orgoglio e sollievo, la grande sfinge che continuava ad emettere il suo grido di allarme. Con sollievo, poiché la Testa di Morto in realtà lascia esterrefatti. Non è un caso che Edgar Allan Poe se ne sia servito per il suo “The sphinx”, dove il mostro che aveva terrorizzato i due protagonisti del racconto aveva le sembianze della Testa di Morto. Come non sorprende che sia la falena che il serial killer de The silence of the lambs inserisce nella bocca delle sue vittime quale funereo simbolo della sua follia. Altri scrittori e pittori hanno utilizzato la Testa di Morto per illustrare le loro fantasie, e tutti gli entomologi che si rispettano concordano che non esiste farfalla più allarmante di questa nel grande mondo dei lepidotteri.

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