Il Post-Traumatico / Colonialismo amaro

1 Agosto 2017

Kader Attia (Senna-Saint-Denis, 1970) è conosciuto a livello internazionale per aver realizzato mostre provocatorie che esplorano le eredità coloniali. Il minimalismo culturale nella sua opera indaga “lo stato mentale post-idealistico del mondo globalizzato”, ove il vuoto è utilizzato come referente politico e poetico. Réfléchir la Mémoire è un film che Attia ha realizzato nel 2016 e con cui ha vinto, nel medesimo anno, il Prix Marcel Duchamp. 

 

La sindrome dell’arto fantasma è protagonista dei 40 minuti del documentario, metafora delle Riparazioni alle Culture Extra-Occidentali operate da Occidente. In The Repair, presentato a dOCUMENTA(13) nel 2012, Attia paragonava la ristrutturazione di maschere africane operata con materiali coloniali (vecchi bottoni, pezzi di specchi rotti, tessuti francesi) ad interventi chirurgici eseguiti su soldati europei feriti o deformati durante la Prima Guerra Mondiale. 

 

2012_Kader Attia,The Repair - Immagine tratta dal Catalogo di dOCUMENTA(13).


A distanza di quattro anni il significato politico della riparazione e la mutilazione della memoria sembrano rispecchiarsi con chirurgica precisione nel suo video Reflecting Memory. Le ripercussioni del potere occidentale sulle culture non occidentali ha l’impatto fisico e psicologico del trauma e conseguenze che Attia esamina quali forme di "riparazione". I concetti di ferita (fisica e psicologica), aggiustatura e chirurgia nell’opera dell’artista vengono analizzati non come forme di aggiustatura ma quali tappe di evoluzione di un sistema. Tra le storie non raccontate, storie sulle quali viviamo e storie da cui siamo circondati, vi sono i «ritorni di memoria» post-coloniali e l’ordine morale in cui la borghesia bianca europea riconosce se stessa e in cui risiedono neutralità e universalità di tale soggetto. L’opera di Kader Attia è infatti informata dall’aver vissuto e in un banlieue parigino e in Algeria. 

 

L’Algeria durante la fase del colonialismo francese (seguita all’aver fatto parte dell’Impero Ottomano e all’essere stata controllata da Bizantini, Vandali, Romani, Cartaginesi e Fenici) vive quell’imperialismo definito da Joseph Schumpeter come “la disposizione priva di oggetto, da parte di uno stato, all’espansione violenta e intollerante di confini”. La concezione imperialistica dell’economista austriaco è più complessa della leniniana interpretazione dell’imperialismo quale suprema fase del capitalismo. In Schumpeter, infatti, l’imperialismo non è dovuto a ragioni economiche bensì affonda le sue radici negli impulsi istintuali dell’uomo.

Il focus di Kader Attia sulle maschere, stereotipo avanguardista di un’arte primitiva, è speculare inverso alle rovine archeologiche, ponte tra gli antichi e i colonizzatori, ovvero prova di una storia superiore a quella dei colonizzati e prefigurazione di una civiltà riportata. È la medesima logica di conservazione e di “esaltazione” il fondamento della ragion d’essere dei musei e ciò che colloca l’arte all’apice della riparazione (della ferita).

 

In una intervista rilasciata a Rachen Kent, Curator presso il MCA (Austalia), Attia afferma: “Nelle società tradizionali, riparare una ferita significa mostrare la riparazione. In Congo ci sono calabashes riparate con processi incredibilmente sofisticati. La riparazione di una tazza rotta in Giappone, dall’altra parte del mondo, è una celebrazione della ferita… Nella società occidentale contemporanea, invece, la riparazione è una negazione della ferita, un rifiuto del tempo e della storia… È la fantasia di controllare così estesamente l’universo che fa sì che ci sentiamo capaci di rimuovere il tempo”.

 

La mutilazione della memoria è un fenomeno che interessa anche l’Italia e che la proiezione di un film di una seconda generazione algerina può mettere in luce. L’Italia è la landing-zone d’Europa il cui buonismo politico ha per contraltare un’arte dalle posizioni moderate e politicamente corrette, praticamente un insieme di prodotti shopping sotto il segno di un pacifismo multiculturalista, che è lo stesso spirito su cui sono improntate le missioni di guerra nazionali.

Purtroppo, le rare operazioni di decolonizzazione culturale vengono smentite dagli sponsor pubblicizzati a chiusura catalogo, che fanno sì che operazioni condotte con il fine di illuminare pratiche coloniali operino esattamente alle stesse condizioni che intendono denunciare, ma questo è un problema che riguarda l’arte in genere, e che non ha specifici confini geografici.

 

A differenza di altri paesi, Francia in primis, l’Italia ha visto un processo tardivo, e parzialmente compiuto, di decolonizzazione degli studi coloniali. Forse la ragione sta nel fatto che fra le grandi nazioni europee l’Italia è quella che ha avuto “l’impero coloniale” più ridotto ed economicamente deludente. O forse la propaganda fascista, in cui la fotografia e i film (si pensi a Scipione l’Africano, girato da Carmine Gallone nel 1937) sono stati i mezzi protagonisti, ha contribuito a creare «l’Italiano Nuovo» effettivo. Tale propaganda ha determinato altresì il processo attraverso cui l’Italia, al pari delle altre potenze europee, ha cominciato a riconoscersi «bianca» e a «razzizzare» se stessa. L’esotismo, se non tollerato dall’Impero, quantomeno era trattato come prezioso oggetto etnografico. Un oggetto ferito da un primitivismo sanguinario fondato su basi razionali e scientifiche, dunque invisibile: cancellato dalla propaganda prima e dai suoi rentier poi. 

 

1928_Tripolitania_cinema ambulante Luce - immagine tratta da Angelo Del Boca, L'impero del fascismo nelle fotografie dell'Istituto Luce (2002).

 

Tra le pagine del colonialismo amaro di cui l’Italia si è resa protagonista si trova un’immagine che rimanda all’opera di Kader Attia. È una fotografia scattata a Massaua, nell’ospedale di Abd-El-Kader. Vi sono ritratti gli ascari eritrei, fanti indigeni dell’esercito italiano, mutilati dopo la battaglia di Adua. La punizione che gli etiopi inflissero ai prigionieri fu il taglio della mano sinistra e del piede destro, o viceversa, pena subita dai traditori della patria.

 

L’imperialismo, citando Schumpeter, quale espressione degli elementi più atavici e conservatori della società, ha un effetto boomerang: mentre scrivo viene annunciato un attentato a Londra “Furgone sulla folla e coltellate: 7 morti e 48 feriti”. La politica araba di conquista, il comandamento della Guerra Santa, che apre le porte del Paradiso, elemento dominante dell’intero sistema dei precetti di una forma di imperialismo popolare, ha punti in contatto con la tendenza all’espansione della Chiesa Cattolica nel Medioevo, che non rifuggì da violenza fisica e guerra santa, ed è anche un desiderio di riscatto dalle violenze esportate dall’Europa nel continente nero. Negli ultimi anni della sua vita Oriana Fallaci chiamava il vecchio continente Eurabia, un’idea politicamente scorretta, alla luce del pacifismo multiculturalista garantito da economie fondate in gran parte sull’industria militare e su petroli e minerali provenienti proprio dal continente Africano. 

 

È talvolta ciò che non vuole essere detto pubblicamente a generare il senso di colpa di una nazione o parte di essa, oppure, al contrario, a rendere necessaria la proiezione di un vuoto di coscienza. In altri casi, come quello di Israele, la politica della memoria è usata per giustificare la propria politica e la propria esistenza [come sottolinea Eyan Sivan in Archive Images: Truth or Memory. The case of Adolf Eichmann’s Trial, già negli anni Trenta David Ben-Gourion teorizzò “la trasformazione della sofferenza ebrea in redenzione sionista”].

 

In un recente articolo Clelia O. Rodriguez sostiene: “la decolonizzazione ha un significato differente per me, donna di colore, che per una persona bianca… Perché la mia pelle prude quando sento il termine (decolonizzazione) negli spazi accademici bianchi in cui le POC (persone di colore) rimangono simboli? … È perché in queste pratiche di “decolonizzazione” veniamo colonizzati un'altra volta?”.

Nelle colonie, tuttavia, la whiteness decretava la superiorità razziale di una élite sia rispetto ai sudditi coloni che ai poor white, prefigurazione incarnata del declino occidentale. Nell’Algeria francese archeologi, tutti maschi, grandezza della patria e mutilazione genitale femminile contribuiscono a disegnare una sezione di politica pornotropicale che sia argomento “shock” da tribuna televisiva sia, in forma ripulita, moda accademica.

Perché l’italiano contemporaneo indaghi la tendenza «priva di oggetto» all’espansione violenta di potenze europee altre dalla propria è un fenomeno interessante: racconta che per trovare una nostra posizione, abbiamo ancora bisogno di sentire che in un’esperienza turistica e culturale ci muoviamo come americani, nelle stazioni balneari libiche degli anni Venti come nei cinema di oggi.

 

1939_Turisti americani nell'oasi - Immagine tratta da Barbara Spadaro, Una colonia Italiana, 2013.


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The Repair è stato presentato presso:

Centre Georges Pompidou, Paris | Oct 12, 2016 – Jan 30, 2017

Mary and Leigh Block Museum of Art, Evanston, IL | Jan 21 – Apr 16, 2017

Galleria Continua, San Gimignano | Feb 18 – Apr 23, 2017

Museum of Contemporary Art, Sidney | Apr 12 – Jul 30, 2017

Contemporary Locus, Bergamo | Mag 28, 2017

Australian Centre for Contemporary Art, Melbourne | Sep 30 – Nov 19, 2017

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