Aggettivo e sostantivo / Intellettuale

25 Marzo 2018

L’aggettivo intellettuale circola nella lingua del sì da non poco. Se ne serviva già Dante, che, com’è noto, fece sortire dal loro stato di latenza moltissime parole indispensabili allo sviluppo di un’espressione italiana culturalmente rilevante. Con intellettuale, all’epoca si qualificava ciò che «appartiene all’intelletto», che è «proprio dell’intelletto», contrapponendolo alle qualificazioni di quanto è relativo a caratteri morali e sentimentali. Lo ricorda l’Enciclopedia dantesca, che procura le attestazioni opportune traendole dal Convivio.

Ancora alla fine del terzo decennio dell’Ottocento, intellettuale si trova registrato (e solo come aggettivo) con tale valore nel cosiddetto Vocabolario del Tramater, che d’altra parte, in aggiunta, chiosa: «dicesi anche per opposto a Materiale». A proposito di questa contrapposizione, c’è un’interessante curiosità culturale e letteraria. 

 

Scritto sul principio della seconda metà del Novecento, Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa è ambientato per la massima parte, come si sa, nella Sicilia del secolo precedente. Esso contiene una sola ricorrenza di intellettuale, come aggettivo che descrive un personaggio. Compare in pensieri di Angelica Sedara riferiti dal narratore tra virgolette. Con esso la giovane qualifica il protagonista, il principe di Salina Fabrizio Corbera, che è ai suoi occhi «tanto caro davvero, ma anche tanto “intellettuale”». Le attitudini di Fabrizio ne risultano così implicitamente contrapposte a quelle di altri due uomini per lei rilevanti: il padre, Calogero Sedara, e il fidanzato (e nipote del principe Fabrizio), Tancredi Falconeri. Se Fabrizio le pare “intellettuale”, a quel punto della vicenda romanzesca, gli altri due sono percepiti da lei come “materiali”, secondo l’illuminante opposizione testimoniata dal Tramater. Lo sono pur sotto una differente considerazione: economica, quanto al primo, erotica, quanto al secondo. Posta nei pensieri d’una ragazza altrove definita «rapace», la ricorrenza di intellettuale nel romanzo è dunque testimonianza, tra molte altre, del lavoro di accurata ricostruzione storico-linguistica compiuto dall’autore. Il Gattopardo non mette infatti in bocca a nessuno dei suoi personaggi espressioni che essi non avrebbero potuto effettivamente proferire, come non descrive uno scorcio, un oggetto, un’attitudine, una figura sociale che non avrebbero potuto presentarsi nell’epoca in cui s’immaginano svolgersi le vicende narrate. 

 

Proprio a proposito di intellettuale, trascurò tale circostanza Francesco Orlando. Nella lettura del romanzo di colui che proclamò suo maestro, Orlando, da intellettuale, speculò molto infatti sopra quella ricorrenza. Affermò essa fosse un sostegno testuale, indiretto ma, a suo parere, sostanziale, per caratterizzare come «un intellettuale» il protagonista Fabrizio. Così gli premeva per trovare conforto alla sua ipotesi di un romanzo che, per l’essenziale, direbbe dei modi con cui l’intimità di un intellettuale rispecchia una vicenda storica. Senza pronunciarsi sulla plausibilità di un’ipotesi siffatta, il sostegno testuale invocato per essa da un Orlando che, senza riguardo alla categoria lessicale, prende a pretesto la parola di Angelica è discutibile, tanto dalla prospettiva filologico-linguistica, quanto da quella ermeneutico-letteraria. È insomma una palese forzatura.  

Oggi, nel suo secolare valore filosofico e (se si vuol dire così) psicologico, o con riferimento a un’attitudine morale e di comportamento, l’aggettivo intellettuale ha ricorrenze più rare. Circola invece parecchio il sostantivo intellettuale, che non è appunto antico quanto l’aggettivo e nell’Ottocento non era ancora comparso in italiano. La storia di una parola non è infatti né la storia del suo significato né quella del suo significante: è la storia delle funzioni che correlano significato e significante e, con tale correlazione, assegnano inoltre la parola all’una o all’altra parte del discorso. Intellettuale è in proposito un caso esemplare. Nata come aggettivo, solo in età avanzata (se così si vuol dire) ce l’ha fatta a diventare quel sostantivo che oggi si aggira per i discorsi.

 

Sempre in un registro italiano di buon livello, intellettuale come sostantivo è in effetti comparso nella lingua del sì meno di una dozzina di decenni or sono. Il suo plurale intellettuali è detta «parola di recentissimo conio», per esempio, e ancora posta tra virgolette in Confessioni e ricordi, una raccolta di brevi prose di Ferdinando Martini comparsa nel 1922. A fare da innesco alla comparsa del sostantivo intellettuale in italiano, fu una parola corrispondente in uso oltralpe. Lì, tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, essa aveva avuto una rumorosa occasione per venire alla ribalta, diventando molto di moda tra la gente di mondo: l’affaire Dreyfus, con l’intervento di Émile Zola, secondo modi che diverranno in séguito quelli appunto tipici degli intellettuali. 

 

 

Come sostantivo, intellettuale ha designato da allora una persona «colt[a], amante degli studî e del sapere, che ha il gusto del bello e dell’arte, o che si dedica attivamente alla produzione letteraria e artistica»: così scrive il Vocabolario Treccani, precisandone anche modi di ricorrenza: «soprattutto al plur[ale], “gli i[ntellettuali]”, per indicare complessivamente coloro che si dedicano agli studî, che hanno spiccati interessi culturali, che esercitano una attività intellettuale o artistica (analogam[ente], in designazioni collettive: “la classe i[ntellettuale]”, o, più comunem[ente], “la classe degli i[ntellettuali]”». Nel 1948 in Polonia si riunì, per esempio, un Congresso mondiale degli intellettuali per la pace: data, luogo, tema delle relative assise non furono casuali e, per chi sa ancora leggerli, sono loquaci.

Il sostantivo intellettuale ebbe appunto i suoi fasti nel secolo scorso, soprattutto a cavaliere della (fin qui) ultima grande carneficina mondiale. Di molte vicende che hanno segnato la storia del mondo dagli anni Venti agli anni Ottanta di un secolo appunto detto breve, intellettuale come sostantivo va anzi considerato un autentico emblema. Senza, sarebbero inimmaginabili Gramsci, Sartre, Pasolini, per fare solo i nomi di tre persone (pubbliche: quindi, forse, di tre personaggi) che furono realizzazioni paradigmatiche del riferimento del sostantivo intellettuale.

 

Si può persino dire che esso fu (narcisisticamente) indispensabile alla nascita e allo sviluppo del loro pensiero, delle loro opere, delle loro azioni. Del resto, senza il sostantivo intellettuale, intere coorti di uomini e di donne di penna e d’ogni altro genere di arte (politica inclusa, naturalmente) non avrebbero avuto ruolo e riconoscimento sociale, nel Novecento, né si intenderebbe adesso cosa hanno fatto o hanno subìto.

Sono frattanto divenute luoghi comuni le tante questioni e controversie che, tra ascesa, impegno, tradimento e decadenza, hanno preso a tema le vicende di coloro che (come ceto più che come classe, forse bisognerebbe dire), nel corso di quel secolo, sono stati designati o hanno preteso di essere designati da tale sostantivo. Del resto, ormai da un po’, il mondo in cui il sostantivo intellettuale si è fatto luce e ha prosperato non esiste più e c’è conseguentemente da dubitare che esista ancora qualche referente comparabile al referente che ebbe un dì tale sostantivo.  

Impalpabili come sono, le parole paiono volatili. Sono invece di norma ben più resistenti delle cose che designano. Scomparse che queste siano, le parole passano a designare altro, con il pretesto di qualche analogia, talvolta anche molto labile. Questo pare oggi il caso del sostantivo intellettuale. La sua denotazione, che solo ingenuamente si potrebbe ritenere sociologicamente neutra o, ancora peggio, metastorica, porta con sé, per chi ancora sa coglierle, le connotazioni terribili di stagioni meccaniche ed implacabili del Novecento, come furono quelle delle sue massime fortune. Porta anche le connotazioni dolci (e sentimentali, quindi non intellettuali, nel valore che l’aggettivo aveva per Dante) di un ceto che sognò non solo d’essere immortale ma anche d’essere sempre esistito. Ne discendono le mille e mille pagine in cui intellettuali (ovviamente novecenteschi) hanno appunto dato per scontata (come fanno ancora loro epigoni odierni) l’esistenza di intellettuali e di un ceto di intellettuali in quasi ogni epoca della storia della cosiddetta civiltà occidentale (se non dell’umanità tutta intera). E, quanto al passato, la facile etichetta ha non di rado prodotto feticci che una critica storico-filologica non è sembrata né sembra oggi in grado di demistificare. 

 

Quanto al presente e al futuro, sopra intellettuale è intervenuto qualche anno fa Alberto Arbasino, un intellettuale dalla nota sensibilità linguistica. Si è servito in proposito di uno strumento squisitamente grammaticale. Ecco come: «(Più recentemente, masse di innumerevoli intellettualini in coppiette e famigliuole e “ruoli” sempre in crisi e in serie intimistica, fra divani-letto e angoli-cottura e posti-motorino e passeggini per pupi o paparini standard e uffici intercambiabili con capi e problemi e dialoghi comunque sostituibili, mai certamente imperdibili.)». 

Il «più recentemente» che apre questo breve passo è l’oggi o l’appena ieri che trova oggi suoi sviluppi. Arbasino chiude con esso la precisazione premessa alla “Cronologia” (composta con Raffaele Manica) a corredo del primo tomo del suo Meridiano. Pur poste tra parentesi, le poche righe non dicono di un’epochè né d’una sospensione del giudizio, da parte sua. Sono caratterizzate da forme alterate diminutive, mere o apparenti che siano (si trascurano qui le sottigliezze morfologiche): coppiette, famigliuole, motorino, passeggini, paparini. Parole di un uso italiano comune, venato di affettività, eventualmente. Seguono tutte intellettualini, la parola qui e nel passo rilevante. 

 

Preso a prestito da polemiche giornalistiche, dove aveva trovato non memorabili ricorrenze, il diminutivo di intellettuale entra in tal modo nella lingua di uno scrittore, anzi di un intellettuale, a coronamento di un nesso ricco di assonanze e privo di determinazione: masse di innumerevoli intellettualini. Si tratta, insomma, di un picco di marcatezza. Si tratta di ciò che ad Alberto Arbasino preme dire. Egli sottolinea una continuità lessicale e marca al tempo stesso una differenza, la cui percezione, a lui intellettuale, deve essere parsa meritevole d’essere tramandata. La storia linguistica di intellettuale, come sostantivo, si è così arricchita di una nuova e problematica faccetta: tra denotazione e connotazione, tra sarcasmo e affettazione, quella che si riflette nel suo comico diminutivo.

 

[Questo scritto è comparso, come parte di un più ampio articolo, sul fascicolo 141 (marzo 2018) di Prometeo. Rivista trimestrale di scienze e storia].

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