Cento anni fa, John Cage

11 Agosto 2012

La sera del 29 agosto 1952 il pianista David Tudor si siede al pianoforte su un piccolo podio rialzato della Maverick Concert Hall, nei pressi di Woodstock nello stato di New York. Il pubblico ha già preso posto sotto le capriate della magnifica sala da concerto all’aperto simile a un grande fienile, un luogo celebre per le sue esecuzioni tra querce, abeti, tugsa e noci bianche d’America. Nessuno degli ascoltatori sa che Tudor sta per eseguire uno dei pezzi destinato a diventare famoso nella musica contemporanea dei sessant’anni seguenti; il più celebre, ma anche il più discusso. Pochi giorni dopo Cage compie quarant’anni ed è abbastanza noto, ma non notissimo, fuori dalla cerchia degli autori cosiddetti sperimentali; ha avuto anche un premio di recente; ha già scritto alcuni dei suoi concerti più importanti, tuttavia nessuno, compreso lui stesso, quella sera può prevedere che diventerà il più influente musicista della seconda metà del XX secolo, conosciuto anche fuori dall’ambito musicale e dalle sale di concerto: un artista a tutto tondo. Anzi, per alcuni decenni una leggenda vivente. Nel programma ci sono pezzi di Cage, ma anche di giovani compositori, come Christian Wolff, figlio degli editori di Kafka; il suo For Prepared Piano sviluppa il metodo e lo stile di Cage.

 

 

Tudor, che in seguito diventerà famosissimo come esecutore, chiude il coperchio e guarda il cronometro. Per due volte nei seguenti quattro minuti alza il coperchio, lo riabbassa cercando di fare poco rumore, gira le pagine dello spartito privo di note. Trascorsi quattro minuti e trentatre secondi si alza per riceve gli applausi del pubblico. Ha eseguito la prima mondiale di 4’33” una delle opere musicali più controverse, illuminanti, sorprendenti, famigerate, imbarazzanti e influenti dai tempi della Sagra della primavera di Stravinskij. Il brano eseguito da Tudor si divide in tre movimenti ed è ascoltato da un pubblico composto da appassionati dell’avanguardia, musicologi locali e membri della New York Philarmonic. La reazione è solo in parte positiva; subito piovono su Cage critiche al pezzo, considerato da molti alla stregua di uno scherzo; ne scrive polemicamente il “New York Times”. Kyle Gann, brillante collaboratore musicale del “Village Voice”, ha dedicato al pezzo del musicista americano un intero libro, Il silenzio non esiste (tr. it. di Melinda Mele, Isbn), in cui spiega come nacque quel brano e perché ha avuto una notevole influenza sulle correnti musicali seguenti, e non solo – si pensi a Fluxus. Gann ricostruisce anche la vita del compositore sino a quel punto, dal momento che, senza la storia delle sue vicende, gli incontri, le influenze, le scelte, non si capisce Cage, un artista e un musicista per cui, come buona parte degli artisti del XX secolo, arte e vita, comprese alimentazione e scelte sessuali, si compenetrano e s’intrecciano in modo indissolubile. Che 4’33” sia stato una svolta per Cage lo testimonia lui stesso. Nel 1985 racconta come a causa di quell’esecuzione perse amici cui teneva molto, i quali pensavano che chiamare musica qualcosa che non sei stato tu a fare, fosse un’eresia. Quella sera, riferisce, nessuno rise, molti s’irritarono quando compresero che non sarebbe successo nulla: “di sicuro dopo trent’anni non l’hanno dimenticato: sono ancora arrabbiati”.

 

 

Per arrivare a questa composizione Cage impiegò quattro anni; dopo averne ipotizzato la scrittura in una conferenza, e dopo aver steso Music of Change, pezzo per pianoforte assai complesso, scritto sui marciapiedi e la metropolitana di NY, chiedendo ad amici e sconosciuti di sostenerlo comprando quote della musica nella speranza che un giorno avrebbe generato dei profitti; l’anno dopo la composizione di 4’33”, inoltre, il vecchio edificio della Lower West Side dove viveva fu sgomberato per essere demolito. Cosa ascoltò il pubblico seduto nella bella sala della Maverick? “Ciò che pensavo fosse il silenzio – ha detto anni dopo Cage – si rivelava pieno di suoni accidentali, dal momento che non sapevano come ascoltare. Durante il primo movimento si poteva sentire il vento che soffiava fuori. Nel secondo, delle gocce di pioggia cominciarono a tamburellare sul soffitto, e durante il terzo, infine, fu il pubblico stesso a produrre tutta una serie di suoni interessanti quando parlavano o se ne andavano”.

 

L’atto principale compiuto dal compositore americano è il framing: un incorniciare o racchiudere i suoni ambientali e volontari dentro un momento di attenzione al fine di schiudere la mente al fatto che tutti i suoni sono musica. Questo del frame è probabilmente una delle questioni principali che l’arte del XX secolo, ma non solo quella, ha reso incontrovertibile, attraverso i rady-made di Duchamp (Morton Feldman, il grande compositore, ha detto che Duchamp ha liberato la mente dall’occhio, mentre Cage ha liberato le orecchie dalla mente), le contrainte di Georges Perec, fino ad arrivare ai testi di Gregory Bateson sulla comunicazione, la cibernetica, la schizofrenia e i disturbi mentali, in genere, come mostra Verso un’ecologia della mente, uno dei libri in cui l’idea della “cornice” è fondamentale. È il tema della meta-comunicazione. Senza il frame non si capirebbe neppure la seguente rivoluzione informatica, il personal computer, fino ad arrivare agli Smatphone e alle application. Una linea congiunge Cage, un innovatore davvero straordinario, a Steve Jobs, che delle idee del frame è stato il più acuto orecchiatore e applicatore. Senza il compositore americano non solo l’ascolto è cambiato, ma il nostro stesso modo di pensare l’arte, la musica, la comunicazione in generale. Cage ha avuto il merito di far uscire dal ristretto ambito della musica novecentesca – ristretto per modo di dire – e di far arrivare in altri e più distanti ambiti l’idea dell’“incorniciamento”. Gann fa notare come la divulgazione di 4’33” abbia dissolto i confini tradizionalmente evidenti di un brano di musica o un’opera d’arte: la cornice da quel momento in poi poteva essere applicata a una qualsiasi parte della vita, e tutti i fenomeni, anche più banali o rarefatti, potevano essere considerati materiali artistici. Con una battuta Cage stesso ha spiegato questo cambiamento innovativo: “Non riesco proprio a capire perché la gente sia così spaventata dalle idee nuove. Io sono spaventato da quelle vecchie”. La musica ha costituito in questo un campo di sperimentazione straordinario, pari solo a quello dell’arte, tanto è vero che a influenzare Cage per 4’33” sono stati senza dubbio i quadri bianchi di Rauschenberg, visti dal compositore americano nel 1951 al Black Mountain, la scuola dove entrambi insegnavano e collaboravano, e ancora prima lo Zen, la filosofia giapponese, Meister Eckhart.

 

 

Uno degli autori contemporanei influenzato da Cage, Steve Reich, mentre lavorava come tassista, aveva l’abitudine di registrare di nascosto le conversazioni con i suoi clienti per ottenere materiali per i propri pezzi sonori. Una pratica cui, ad esempio, la fotografia è arrivata solo oggi, dopo la diffusione del Web e di Google. Michael Wolf come spiega Geoff Dyer in un articolo pubblicato di recente sul “Guardian”, utilizza immagini rubate da Street View come materiale fotografico; il suo lavoro è stato premiato dal World Press Photo. Senza Cage dubito che ci sarebbe stato tutto questo, come le opere stocastiche di Perec, figlie delle sperimentazioni dell’americano oltre che dell’Oulipo di Queneau. Douglas Kahn, che ha cercato di interpretare la rivoluzione in ambito musicale di 4’33”, spiega che nei contesti concertistici il silenzio è un obbligo per il pubblico. Ordinando all’esecutore del suo pezzo di tacere sotto tutti gli aspetti, Cage rendeva muto il luogo centrale della enunciazione, smontava il codice tacito del pubblico e quindi trasferiva la sua performance al pubblico stesso, alle sue enunciazioni e spostava la percezione verso altri suoni; in questo modo legittimava comportamenti impropri che in altri contesti, inclusi quelli musicali, sarebbero stati perfettamente accettati. 4’33” raggiungeva tutto questo, scrive Kahn, zittendo l’interprete: “il suo silenzio dipendeva da un tacitare e così finiva per ampliare il dominio stesso dei suoni musicali”.

 

Un rovesciamento della lettura usuale del brano. Murray Schaefer, il musicologo che si è occupato dei rumori e di soundscape (la sua opera più celebre è Paesaggio sonoro) ha scritto che “le grandi rivoluzioni nella storia della musica sono mutamenti di contesto più che mutamenti di stile”. Una frase che bisognerebbe applicare anche ad altri ambiti del lavoro intellettuale umano, e non solo quello. Le interpretazioni della composizione di Cage sono tantissime, basti citare quella di Philip Gentry, che in uno studio dedicato agli anni del maccartismo, sostiene che si tratta di un’appropriazione o un’espressione del silenzio cui erano costretti gli omosessuali durante quel periodo, quando i gay, che lavoravano per lo Stato o per le istituzioni pubbliche, venivano regolarmente licenziati; Gentry, che mette in luce un aspetto meno noto della personalità di Cage, la sua omosessualità – si era sposato per amore con una giovane, ma era attratto, soprattutto fisicamente, da Merce Cunnigham, con cui ha poi a lungo collaborato –, sostiene l’intrinseca omosessualità del gesto, per questo rifiutata in modo così clamoroso dal pubblico. Gann, che cita questa tesi di dottorato presso l’UCLA, chiosa che la reazione degli ascoltatori, dei giornali, dei musicologi e degli stessi amici di Cage, fu così spropositata da non poter essere esaurita solo con questa spiegazione. Il suo libro si chiude con una frase icastica che fa riflettere: “a mio avviso 4’33” è uno dei brani meglio compresi della musica d’avanguardia del Novecento”. Come dargli torto? Il suo pregio, con il senno di poi, appare la sua incredibile semplicità: fare tanto con pochissimo. Non è da tutti.

 

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