Claude Cahun: un 'aria di famiglia

27 Settembre 2013

Pubblichiamo un estratto da Oltre lo specchio. Claude Cahun e la pulsione fotografica di Silvia Mazzucchelli (Johan & Levi editore)

 


 

Un Air de famille è la fotografia di un oggetto molto caro a Lucy Schwob, una delle sue rare opere esposte in pubblico. L’artista la realizza su invito di André Breton per un’occasione prestigiosa: l’“Esposizione surrealista di oggetti” svoltasi a Parigi presso la galleria di Charles Ratton nel maggio 1936 e alla Burlington Gallery di Londra, a cui partecipano gli artisti più influenti del momento.

 

Claude Cahun, Un air de famille

 

Scrive anche un breve articolo dal titolo “Prenez garde aux objets domestiques”, per la rivista Cahiers d’Art redatta in occasione della mostra: un’ardente esortazione a «fare attenzione agli oggetti domestici», ascoltare la loro voce, i poteri segreti celati in forme conosciute, affinché sia possibile «costruire o distruggere», afferma Lucy, un nuovo modo di vedere la realtà, uno sguardo in grado di rinascere ogni volta diverso, come da una sorta di frattura, di disordine nell’ordine stabilito. Si tratta, in fondo, di ciò che lei stessa voleva suggerire con il casuale accostamento di alcuni oggetti che rappresentavano il suo mondo, la sua “air de famille”, il nucleo familiare, intellettuale e alto-borghese, in cui aveva mosso i primi passi di giovane ribelle e anticonformista.

 

L’opera (fig. 1), che appare nella sezione del catalogo intitolata «Objets à fonctionnement symbolique» (Oggetti a funzionamento simbolico), è costituita da un piccolo letto sul quale scivola un velo sorretto da una corona fiorita. Sul lenzuolo si scorgono varie cose sparse in modo apparentemente casuale, come se fossero state recuperate da un lontano passato. Al centro, sul supporto di legno che sostiene il velo candido, si vede un foglio dove si legge un messaggio laconico, scritto con una calligrafia infantile: «danger – manger – m ange z – menge – je mens – mange – ge manje…».

 

Un coacervo di parole che si confondono tra loro: «pericolo – mangiare – m Angelo z – menge (enge in francese si pronuncia allo stesso modo di ange, ovvero angelo) – io mento – mangio» e infine ge manje, dove la forma del verbo mangiare viene alterata tanto da far sembrare che inglobi e fagociti l’io dell’artista, in un gioco d’inversione delle sillabe che in francese suonano sempre allo stesso modo.

 

L’artista evoca la figura dell’angelo, immagine protettiva ma anche perturbante visto il genere indefinito e pone l’accento sul verbo «mangiare», lo disarticola, ne comprime l’azione sino a farla fuoriuscire dal verbo mentire, mens, come se cercasse una possibile strategia di sopravvivenza: illudere, travestirsi, celare il proprio disagio che sfocia in frequenti digiuni.

 

Lucy lo rivela molti anni dopo a Charles-Henri Barbier, in una lettera del 1951 in cui afferma di servirsi di una tecnica di digiuno derivata dalle pratiche dello yoga: «Del resto la morte non era la sola via che mi restava aperta?» si chiede più volte. Un disagio tanto opprimente da mascherarlo sotto le indefinite fattezze della figura angelica e trasformarlo in opera d’arte. Proprio come molti anni prima, quando nel 1929 interpreta a teatro il ruolo di “Le diable”, non nelle vesti di serpente ma in quelle di un angelo-demone al confine tra universi opposti, sospesa tra angelico e demoniaco, maschile e femminile, in linea con la sua predilezione per un inclassificabile genere neutro.

 

Ma cosa nasconde davvero il balbettio sconnesso di quel messaggio? Dove sono lo sguardo di lei, il corpo ingannevolmente fragile, gli occhi penetranti che oltrepassano i confini degli autoritratti?
Anche se la sua immagine non si vede, fra il velo bianco che scende verso il basso e gli oggetti sparsi sul lenzuolo l’artista racconta se stessa, le ansie, le paure, il senso di inadeguatezza che erompe dal privilegio di appartenere a un’illustre famiglia di intellettuali altoborghesi, con i quali si sente costretta a dialogare, in sospeso tra la volontà di sottrarsi a quell’egemonia culturale e il desiderio di dimostrare con tutti i mezzi a sua disposizione il proprio valore di scrittrice e di fotografa.

 

L’air de famille, infatti, è quella che si respira in casa Schwob e si nutre di un inestricabile nodo di relazioni affettive, legami culturali e tensioni che avvolgono anche la sua infanzia, in un clima tutt’altro che solidale, tanto che l’artista molti anni dopo dirà di essersi sentita invisibile, come un «piccolo topo» senza voce.

 

Lucy decide dunque di rinascere. Sceglie un nuovo volto. Si rasa i capelli, si veste in maniera eccentrica e si inventa un nuovo corpo, cancellando tutto ciò che possa renderla facilmente definibile. «Mi faccio radere i capelli, strappare i denti, i seni» dichiara perentoriamente in Aveux non avenus (Confessioni nulle, 1930), la sua autobiografia pubblicata nel 1930: «tutto ciò che infastidisce o irrita il mio sguardo – lo stomaco, le ovaie, il cervello cosciente», un «corpo senza organi», o meglio un corpo-testo che si costituisce mediante un’incessante pratica di sottrazione e distruzione, in rivolta contro la sua stessa corporeità.

 

E infine cambia anche il proprio nome: non è più Lucy Schwob, d’ora in poi sarà Claude Cahun, uno pseudonimo che sostituisce definitivamente quelli adottati nel corso della sua attività di giornalista: Claude Courlis, per via del becco di un uccello che ricorda il suo naso aquilino e Alfred Douglas, celebre amante di Oscar Wilde; una nuova identità, con cui saprà «sfidare i pezzi del puzzle» che compongono le sue origini e riaggiustare «il pericolo di un volto» si legge fra le pagine inedite di Confidences au miroir (Confidenze allo specchio, 1945-1946).

 

    

 

Un nome, Claude, che nella lingua francese è in sospeso tra il genere maschile e quello femminile, impronta di un’identità che ricorda l’androginia angelica da lei evocata nel messaggio appeso al piccolo letto. «Maschile? Femminile? […]. Neutro è il solo genere che fa per me» dichiara l’artista in Aveux non avenus. Un «bachelor» scrive Marco Belpoliti facendo riferimento a Rosalind Krauss, un essere umano dall’identità «mutante in cui maschile e femminile si scambiano continuamente di posto, sino a risultare, sul piano della definizione dell’identità, perfettamente intercambiabili».

 

Anche la scelta del cognome ha un significato preciso. Se il cognome Schwob, innegabilmente ebreo, «aveva assunto una patina culturale che in qualche modo la difendeva contro l’antisemitismo» suggerisce nuovamente la Krauss, la scelta di rinominarsi “Cahun”, come fece anche Marcel Duchamp con Rrose Sélavy, rafforza per paradosso le sue origini ebraiche, in quanto «Cahun è una forma francese di Cohen», che indica un’evidente appartenenza alla classe rabbinica.

 

Inoltre Claude ritiene che la scelta di attribuirsi questo cognome, «il mio vero nome piuttosto che uno pseudonimo » scrive a Charles-Henri Barbier, rappresenti un segno tangibile della sua gratitudine verso alcune persone a cui si sentiva particolarmente legata: la nonna paterna

 

Mathilde Cahun, che colma il vuoto lasciato dalla madre e contribuisce alla sua formazione culturale; il fratello di Mathilde, Léon Cahun, filologo e romanziere, esempio di studioso poliedrico da cui trarre ispirazione e il cugino René Cahun, per cui ella nutre una passione mai del tutto sopita sin dai tempi del liceo. Nell’inedito Le Muet dans la mêlée (Il muto nella mischia), scritto intorno al 1950, ricorda di quando era solita firmarsi con il suo secondo nome “Renée”, alterandone il genere grazie alla semplice omissione della lettera «e», affinché fosse palese la sua predilezione per l’androginia e la passione letteraria per René, il personaggio del romanzo di Chateaubriand, insieme ai sentimenti che provava nei confronti del cugino René Cahun.

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