Una lunga riflessione per immagini / Da Anthropocene a Tecnosfera

9 Novembre 2019

Tecnosfera è il titolo dell’edizione 2019 della Biennale di Fotografia dell’Industria e del Lavoro a Bologna, organizzata dalla Fondazione MAST - Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia a cura di Francesco Zanot, che terminerà il 24 novembre. La Biennale, composta da 10 mostre dislocate in diversi luoghi non museali nel centro storico, prosegue idealmente il percorso tracciato dalla mostra Anthropocene a cura di Sophie Kackett, Andrea Kunard e Urs Stahel allestita al MAST, prorogata fino a gennaio 2020. 

Il concetto di Tecnosfera coniato nel 2014 da Peter Haff, specialista in geologia e ingegneria civile ambientale presso la Duke University, in Carolina del Nord, indica le strutture che l’uomo ha costruito nel tempo: centrali elettriche, linee di trasmissione, strade, edifici, reti dei mezzi di trasporto, aziende agricole, industrie manifatturiere che si avvalgono delle tecnologie più avanzate, entrano nel quotidiano attraverso devices ed elettrodomestici “pensanti” che modificano profondamente la nostra vita. Reti complesse e articolate che per sopravvivere ed evolversi hanno necessità di alimentarsi attraverso le numerose forme di energia che la Terra offre tramite l’estrazione di carbone, petrolio, minerali altre forme di energie alternative come il vapore, l’eolico, ecc. Secondo Haff la Tecnosfera ha origine con la prima rivoluzione industriale che ha avuto inizio a metà ‘700 e si caratterizza, come uno spazio in cui si generano vita e cultura e dove si manifestano le interrelazioni sociali che l’umanità crea quotidianamente attraverso la comunicazione in tutte le sue forme grazie alle nuove tecnologie. All’interno di questo spazio, di questo guscio che ormai avvolge tutta la superficie terrestre si genera una costante necessità di innovazione, in particolare quella tecnologica, ormai inarrestabile, che ha accelerato i consumi oltre che i bisogni, modificando la percezione e producendo nuovi bisogni.

 

Allo stesso tempo questa spinta scientifica e tecnologica è un grande propulsore per la creatività artistica. Per Haff, la Tecnosfera, costituisce un nuovo paradigma globale emergente che definisce la presenza di un nuovo strato del pianeta oltre che di una nuova era per il genere umano, dove il lavoro e la creatività giocano un ruolo del tutto speciale. L’approccio filosofico di Nelson Goodman (Ways of Worldmaking, 1978, tradotto in italiano nel 1988 con il titolo Vedere e costruire il mondo) ci aiuta a capire meglio come la Tecnosfera possa contribuire notevolmente alla conoscenza e quindi alla progettazione e costruzione di nuovi mondi. Anche la scienza, non diversamente da quanto accade per le arti, dalla pittura alla musica, contribuisce al processo creativo. Infatti, per il filosofo, “non esiste un unico mondo di mondi più di quanto non ci sia un unico mondo”. La ricerca scientifica, così come quella artistica, nello scomporre la realtà per ricomporla al fine del raggiungimento dell’obiettivo o del messaggio, è parte integrante nel fabbricare nuovi mondi. Essa assume quindi la stessa importanza del percorso creativo nell’arte e viceversa. Le classiche categorie filosofiche, sostiene Goodman, possono essere d’intralcio per la comprensione della realtà e per i nuovi sviluppi a venire.

 

Il progresso tumultuoso della tecnologia, però, che non sempre procede di pari passo con un progresso etico e consapevole, mostra come la scienza, e l’arte abbiano a volte confuso due categorie tradizionali: quelle di vero e falso. In questo percorso che a volte raggiunge una parabola con vertici mirabolanti, si inserisce il linguaggio della fotografia. Essa è il più denso dei media, a differenza dei testi scritti o audio visuali, che propongono narrazioni complesse, dettagliate e di una certa durata. Il linguaggio della fotografia si pone come una “attivazione dello sguardo” quindi utile alla comprensione del mondo, per citare Luigi Ghirri (Catalogo (1970-1979), 1979). La fotografia desidera che i racconti sgorghino dall’osservatore. Il saggio di Luigi Zoja, Vedere il vero e il falso (2018) è davvero utile per muoversi tra le diverse teorie della percezione e quelle della critica oltre che dal proliferare delle immagini attraverso i media e i social. L’eliminazione della distanza geografica tra la realtà e la sua raffigurazione in fotografia non cancella però la distanza tra vedere e sapere e questo può generare spostamenti di piani per la comprensione del messaggio. Lo stesso meccanismo si propone con le immagini generate da sofisticati software per l’elaborazione delle immagini e i relativi device. La fotografia, infatti, può essere profonda verità, ma anche tradimento della realtà stessa. La Biennale di Foto/Industria parte e si muove anche da questi presupposti teorici.

 

Essa propone dieci mostre che la curatela ha così suddiviso: Albert Renger-Patzsch, Paesaggi della Ruhr, che illustra alcune fasi dei processi di produzione e delle trasformazioni del paesaggio e della natura con l’avvento dell’industrializzazione della Ruhr; André Kertész, Tires/Viscose che realizza un raffinato reportage in pieno periodo bellico per documentare la produzione della fibra artificiale per nuovi e strategici tessuti; Luigi Ghirri, Prospettive industriali, un percorso tra le principali committenze industriali realizzate per Ferrari, Costa Crociere, Bulgari e Marazzi, dove vengono presentate insieme a materiali che raccontano l’intero processo di lavoro dell’autore, come gli album di provini originali e le pagine di un menabò che sarebbe dovuto sfociare in un libro, strumenti utili per approfondire il percorso creativo dell’autore anche nel campo della fotografia di committenza. Sono però assenti alcuni degli sguardi più intriganti di Ghirri come quella dell’operaio della Ferrari che appoggia la mano in un cerchione, dove è evidente il riferimento iconografico all’Autoritratto del Parmigianino (1524, Kunsthistorisches Museum).

 

Essa, se ce ne fosse necessità, è un’ulteriore riprova, anche nel campo della documentazione, dell’approccio di Ghirri al superamento dei generi e di come la sua ricerca personale fosse continua, anche nell’ambito della committenza. Le immagini mostrano come la sua memoria, la sua percezione costruisca, nel presente, una rete visiva di relazioni che rimandano a concetti e idee a lui cari. Ghirri, nel 1991, nella sua ultima e lunga intervista a Arturo Carlo Quintavalle in Viaggio dentro un antico labirinto, afferma che “la frequentazione visiva con tempi e riflessioni completamente diversi mi consente una riconsiderazione diversa dalle immagini già fatte e mi permette di relazionarle con future immagini possibili che sono sempre più fresche nella memoria. La memoria funziona proprio in termini associativi”. Le immagini delle Ceramiche Marazzi ne sono un esempio. In esse riprende la metodologia delle Polaroid di grande formato scattate nel 1981, create attraverso una serie di oggetti in relazione alla propria memoria personale, non per guardare in modo nostalgico il passato, ma per riflettere sui mutamenti del presente. Quelle immagini, apparentemente “nature morte” sono in realtà microcosmi. In Lezioni di fotografia (2010), riferendosi al lavoro di committenza industriale, l’autore afferma che non cerca la perfezione formale, come generalmente si procede nella maggior parte dei casi preparando set e controllando l’illuminazione artificialmente, perché lavorando in questa direzione gli oggetti diventerebbero, appunto, delle nature morte. All’autore interessa invece mostrare uno spazio che si appropria dell’esistenza, di un vissuto per coglierne il rapporto con chi lo vive. Diversamente sarebbe stato restituito uno spazio, quello del lavoro, decorativo, accessorio ad approcci utilitaristici. Sono ricerche e sperimentazioni che non hanno derogato al linguaggio della fotografia, all’opposto lo hanno arricchito aprendo nuovi e inediti modi di vedere.

 

LUIGI GHIRRI – Ceramiche Marazzi, Sassuolo, 1983, © Eredi di Luigi Ghirri Courtesy Marazzi Group.


Armin Linke, Prospecting Ocean e Délio Jasse, Arquivo urbano invece assumono una posizione di uno sguardo sociologico e politico, ove al centro vi è la condizione umana in relazione all’ambiente e alla natura. 

Armin Linke, lavora da molti anni sui temi della trasformazione del territorio e delle forze economiche e politiche che la promuovono. Prospecting Ocean è uno studio realizzato grazie alla collaborazione di scienziati, tecnici e legali, sullo sfruttamento delle risorse marine e l’amministrazione dei fondali di tutto il mondo. Realizzate con speciali veicoli sottomarini a controllo remoto e altri strumenti tecnologici all’avanguardia, le immagini mostrano ciò che risulta normalmente invisibile, svelando un denso intrico subacqueo di macchinari e tubazioni per estrarre e distribuire risorse preziose.

Délio Jasse con Arquivo Urbano, una serie dedicata alla capitale dell’Angola, Luanda, città il cui destino è quello delle megalopoli. Anche Jasse affida la sua ricerca ad un allestimento complesso, fatto di sovrapposizione di immagini che riflettono sul passato che ha negato la cultura locale a causa del colonialismo. Il suo linguaggio apre una riflessione non solo sul presente, ma anche sul futuro delle metropoli africane, caratterizzate per lo più dall’incertezza e a logiche legate ad un veloce sviluppo piuttosto che a criteri di sostenibilità.

 

ARMIN LINKE – Biblioteca Universitaria di Bologna Università del Texas, Austin, sala di modellizzazione delle correnti oceaniche, Institute for Computational Engineering and Sciences (ICES) Computational Research in Ice and Oceans Group (CRIOS), Austin, Texas, USA, 2018 © Armin Linke 2018. Courtesy Galleria vistamare/ vistamarestudio, Pescara / Milan.

 

DÉLIO JASSE – Fondazione del Monte - Palazzo Paltroni Sem valor, 2019 © Délio Jasse. Courtesy of the artist and Tiwani Contemporary.


Matthieu Gafsou, H+, di formazione filosofo, lavora sul concetto di Transumanesimo, spesso abbreviato con la sigla H+. È un movimento che si dà come obiettivo quello di migliorare le performance cognitive, psichiche e fisiche dell’uomo attraverso l’utilizzo della scienza e della tecnologia. Il progetto costituisce una vasta ricerca su questo fenomeno, svolta all’interno di istituzioni scientifiche, laboratori e comunità in diversi paesi. A partire dalla capillare diffusione degli smartphone, che costituiscono ormai l’estensione del corpo di miliardi di individui, il lavoro documenta dispositivi e innovazioni che vanno dai supporti medici (pacemaker, protesi, arti cibernetici) agli innesti di microchip, dai cibi sintetici alle strategie anti-invecchiamento. Immagini che sono affidate a un vero sistema di allestimento che sovrasta l’opera e che pare diventare il vero tema della mostra stessa e dove le opere diventano funzionali all’allestimento stesso. Appare quindi una deroga dell’autore che sposta l’attenzione del proprio messaggio all’allestimento, a volte a scapito della chiarezza, nel tentativo forse di superare la figura stessa del fotografo o del linguaggio fotografico. Il progetto si inserisce quindi più nel mondo del visuale più che all’espressione della fotografia tradizionalmente intesa. Sappiamo, tuttavia, come il rapporto tra opera e suo allestimento sia emergente nell’arte contemporanea, così come è evidente, in May You Live In Interesting Times a cura di Ralph Rugoff, alla Biennale d’arte di Venezia. La complessità del tema è inequivocabile: si evince anche da alcune mostre degli autori che potremmo definire “tradizionali”. 

 

MATTHIEU GAFSOU – Palazzo Pepoli Campogrande 4.5.1 © Matthieu Gafsou / Galerie C / MAPS.

 

Ben lo testimonia Lisetta Carmi, che nel restituire le immagini del porto di Genova e dello stabilimento dell’Italsider utilizza un linguaggio sperimentale, tra astrazione e documentazione. La mostra è accompagnata dal brano musicale di Luigi Nono che visita, con Lisetta Carmi, quegli stabilimenti nel 1964, ne registra i rumori e li pone alla base della sua composizione La fabbrica illuminata

 

LISETTA CARMI - 2019.


David Claerbout, Olympia, propone un’analisi della rappresentazione dove protagonista è il celebre Olympiastadion di Berlino, noto per avere ospitato le Olimpiadi del 1936, progettato dall’architetto Werner March. Secondo il suo progetto originario, lo stadio dovrebbe resistere per mille anni: tale era infatti la durata attesa dai gerarchi per l’intero ciclo del Terzo Reich. Per questo lavoro David Claerbout si è dunque chiesto come dovrebbe apparire l’Olympiastadion tra un millennio, sviluppando un complesso software di computergrafica che simula il degrado dell’architettura in una proiezione di grande formato, fino alla sua totale sparizione. La creazione delle immagini è quindi affidata ad un software governato da complessi algoritmi ideato da ingegneri in collaborazione con l’artista. Il progetto non si preoccupa quindi del reale, ma di quello che ipoteticamente sarà.

 

Yosuke Bandai, A Certain Collector B lavora sull’aspetto archeologico dei manufatti e su come il tempo abbia dato loro nuovi destini. I rifiuti sono un inevitabile oggetto di attenzione e dibattito, nel contesto della Tecnosfera. Il fotografo giapponese li mette al centro del proprio lavoro che costituisce insieme una riflessione estetica e filosofica. Per le sue immagini, egli raccoglie una serie di rifiuti e altri materiali ritrovati e ne fa una serie di sculture minime e fragili, che durano il tempo di una ripresa fotografica. Il risultato sono immagini insieme attraenti, misteriose e disturbanti, fuori scala, frutto di un attento processo di revisione in cui gli oggetti di partenza, pur rimanendo del tutto riconoscibili, risultano completamente trasformati. Immediato è il riferimento al kintsugi, l’arte di riassemblare la ciotola di ceramica che si rompe e, ricomponendola, da rifiuto prende nuova vita attraverso le nuove forme e le linee di frattura che, secondo la filosofia giapponese, la rendono ancora più pregiata. Kintsugi ci insegna a non vergognarci delle ferite, degli scarti, ma di abbracciare i resti per dar loro nuova vita. È una lezione simbolica che viene riportata alla nostra attenzione con prepotenza da Tecnosfera.

 

Stephanie Syjuco, Spectral City, combina nei suoi lavori fotografia, video e nuovi media digitali. Questo progetto consiste in un video realizzato con immagini scaricate da Google Earth che ricostruisce il percorso compiuto dal ‘cable car’ di San Francisco nel film A Trip Down Market Street del 1906, per realizzare il quale i Miles Brothers avevano montato una cinepresa sulla parte anteriore di un ‘cable car’. Pochi giorni dopo le riprese il grande terremoto di San Francisco avrebbe cancellato gran parte degli edifici documentati dalla pellicola. Parallelamente, nel video di Stephanie Syjuco, l’algoritmo di Google cancella ogni presenza umana. Completamente deserta, la città appare proprio come dopo un enorme cataclisma. Spectral City è una riflessione sui limiti e le distorsioni della visione delle macchine, sullo spazio pubblico e sul continuo processo di costruzione e ricostruzione della città. 

Questa edizione di Foto/Industria ha mostrato un cambio di passo rispetto alle precedenti edizioni, curate da François Hebel, forse più attente al linguaggio fotografico nella più alta accezione del “fotografico”; ma è anche vero che la percezione dell’arte e della fotografia trovano i fotografi, gli artisti e i videomakers impegnati a riflettere su questi Interesting Times (tempi interessanti). La fotografia, come arte, può denunciare, farci sentire partecipi e soprattutto consapevoli della realtà in cui viviamo, attraversata da profondi cambiamenti ambientali, turbata da problemi politici e sociali, e che ben poco può incidere sulle decisioni politiche per cambiare il mondo. Foto/Industria evidenzia una visione sociale della fotografia contemporanea che mette in discussione formule del passato offrendoci una nuova lettura degli oggetti, della scena quotidiana, del mondo del lavoro, delle metropoli e del mondo dell’industria. Un linguaggio della fotografia che considera più punti di vista: quello dell’autore e quello dello scienziato, richiamando a gran voce l’attenzione del visitatore su temi ormai inderogabili almeno per le nostre coscienze.

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